Chi ti credi di essere?
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I sogni di Rose
Quando si legge la Munro il pensiero va a tratti al romanzo sentimentale, al genere scritto “da una donna per le donne”. Un attimo dopo, però, ci si rende conto che si tratta di un giudizio ingeneroso, perché nei libri della scrittrice canadese c’è molto di più: c’è, innanzitutto, una schiettezza che non fa sconti, una capacità introspettiva quasi spudorata. E poi personaggi vivi, tratteggiati con indubbia abilità.
Rose, la protagonista, figura piuttosto sfuggente, ha molto dell’antieroina: vagamente irritante nel suo egoismo un po’ ipocrita (“perché la tenerezza delle donne è avida, la loro sensualità infida”), simpatica quando si rivela una perdente senza più illusioni antipatica a se stessa.
Si prendono sempre le distanze da personaggi del genere (dov’è il riscatto sociale che ci si aspetterebbe da una prima della classe? come si fa a tradire una persona cara?), salvo poi riconoscervi qualcosa che appartiene a tutti, il bisogno di approvazione, la costante e inconfessabile paura di fallire, il fallimento in sé: “Una pena priva di onore. Orgoglio offeso e sogni beffati”.
Di sogni, in effetti, Rose non ne ha mai avuti tanti se non a breve termine, cercando di adattare, per debolezza e forse un pizzico di opportunismo, le proprie ambizioni a circostanze non proprio esaltanti.
Sulla strada sdrucciolevole del compromesso sembra scivolare anche l’amore, mai del tutto appagante, aleatorio e troppo simile all’autoinganno: “…pensò a quanto l'amore allontani il mondo da noi, quando è felice non meno di quando non lo è”.
C’è qualcosa di incompiuto nella vita interiore di Rose non meno che nella sua esistenza, qualcosa di monco, ali tarpate che stentano a prendere il volo. Si intuisce, nell’ultima pagina, uno struggimento che riporta agli inizi, il desiderio di riprovarci.
“Chi ti credi di essere?”… Forse, sarebbe bastato il coraggio di essere se stessi.
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Perdere la bussola
Neppure dei Nobel ci si può fidare. E' infatti la prima volta che mi capita un libro, scritto da un'autrice gratificata dall'ambito Premio, che mi pare assolutamente non all'altezza.
Si tratta di un romanzo che fa sospettare un assemblaggio di racconti con la medesima protagonista.
Per struttura può ricordare "Olive K..." della Strout, ma come personaggio Olive è molto più interessante, una figura drammatica con un epilogo in linea col suo carattere aspro e puntuto.
Qui, invece, Rose viene presentata come una studentessa d'eccellenza, ma la sua presunta cultura e il livello intellettivo proprio non si avvertono. Quale donna irrealizzata è resa come figura banale, una che non può fidarsi di se stessa ; che si crede libera, invece è solo un po' libertina. Tutto narrato senza grandi sussulti vitali, quasi appiattito in una scrittura pur gradevole, ma nulla di più.
Come personaggio che non può fidarsi di se stesso, mi ricorda il protagonista di "Casa" dell'eccellente Marilynne Robinson. Là però lo spessore dell'analisi psicologica e il dramma di un individuo sono resi con una profondità che affascina e sconvolge, che apre a domande di fronte alle quali ci si sente smarriti, come capita leggendo Dostoevskij.
Qui invece nulla di tutto ciò : si respira quell'atmosfera un po' femminilista, che troviamo in certe scrittrici di poco talento, se non addirittura una punta di compiacimento ; una sensazione sgradevole personalmente sperimentata ancor più in "Va' dove ti porta il cuore" della Tamaro.
Non escludo che A. Munro sia una grande scrittrice, ma questo libro non le fa particolare onore.
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TRASLOCHI
Più che una macchina fotografica la penna della Munro è una sorta di bacchetta magica particolare: immobilizza i protagoniste delle sue storie non mentre stanno ferme, in posa, davanti all’obiettivo. bensì nel momento esatto in cui si spostano, traslocano da una casa all’altra, da una città a un paese e viceversa, da un amore all’altro, da un sentimento all’altro. I racconti della scrittrice canadese, non sono il regno del definitivo, né nel senso del tragico né del comico: ci sono sentimenti, riflette Rose, la protagonista di “Chi ti credi di essere”, di cui si può parlare soltanto in traduzione, e la traduzione è “ambigua” e “pericolosa per giunta”. Ed è la strada scivolosa di educazioni sentimentali che è possibile raccontare solo di sbieco che la Munro ha scelto di intraprendere: strada scivolosa, in quanto non ci si imbatte mai in nulla di scontato e la realtà non è mai quella che siamo stati abituati a raffigurarci. La condizione di precariato di Rose costituisce infatti il filo conduttore dei 10 racconti che ne rappresentano la vicenda nell’arco di un’intera vita: dovrebbe essere un romanzo di formazione, ma ogni evento, dall’adolescenza difficile con la matrigna Flo in un sobborgo povero di una cittadina di provincia durante la Depressione, al matrimonio, agli amanti, al lavoro, costituisce le tappe di una diseducazione più che di un educazione. Diseducazione da cosa? Da certezze e da luoghi comuni attraverso cui gettiamo le fondamenta al nostro esistere, illudendoci della loro solidità. Fuggendo da un uomo che forse potrebbe dargli ciò che non ha mai avuto, Rose, arriva a concludere che l’amore“ in un modo o nell’altro ti derubava sempre di qualcosa”. E poi ci sono i tiri mancini del destino che alla fin fine si finiscono di digerire, come cibi mangiati contro voglia e gli impulsi che ti portano a baciare una persona sposata, appena conosciuta a una festa, semplicemente perché si conosce “l’avidità” o a cedere nello scompartimento di un treno alle voglie di un uomo mai visto prima. Se dunque la nostra condizione è una costante e progressiva perdita di centri di gravità, che cosa possiamo dire di noi stessi? Molto poco se non come avviene a Rosa che riconosciuto un vecchio compagno di scuola ex militare infermo in un ospizio sente “vicina la vita di lui, più vicina di quella di uomini che aveva amato”.