Quell'anno a scuola Quell'anno a scuola

Quell'anno a scuola

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È il 1960, JFK è appena stato eletto, ma alla Hill School la notizia è la visita di Hemingway: il grande scrittore consegnerà il premio letterario della scuola al miglior racconto. Uno degli studenti, il più povero e complessato, pensa di scrivere la storia che gli darà fama e riconoscimento sociale. Ma la sua opera viene smascherata come il puro plagio di un racconto altrui. Esplode lo scandalo e il ragazzo viene cacciato dalla scuola. Raccontata vent'anni più tardi, dal ragazzo stesso, diventato scrittore affermato, questa storia tormentata si staglia nella mente del lettore come il congedo nostalgico dall'ultimo istante dorato che precede la fine dell'innocenza.



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Quell'anno a scuola 2015-04-09 19:48:37 Mario Inisi
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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    09 Aprile, 2015
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Per amore di Hemingway

Il romanzo, scritto in prima persona e autobiografico, racconta l’anno di college alla Hill School di uno studente con borsa di studio (quindi povero in un ambiente snob), per di più di padre ebreo in un periodo in cui l’antisemitismo, non era del tutto superato nonostante Hitler. (Possibile?) Il ragazzo ha il sogno di diventare scrittore come molti altri ragazzi della scuola e ovviamente anche quello di vincere la competizione che ogni anno dà a uno degli studenti la possibilità di godere per un giorno la compagnia di uno scrittore famoso. Vediamo succedersi nella scuola scrittori come Frost e come Ayn Rand. Personaggi umanamente miseri, così presi da se stessi da fraintendere completamente il senso e le intenzioni del componimento dello studente da loro scelto. Frost sceglie il racconto Fisrt Frost, primo freddo, probabilmente per il doppio senso Frost il primo tra tutti; la Rand considera tutti gli altri scrittori americani spazzatura e ha dei principi morali edonistici e terribili. Infine arriva nella scuola Hemingway. Un sogno. L’autore farebbe qualsiasi cosa per stare un giorno a quattr’occhi con il suo scrittore preferito. Ma l’ansia di vincere gli impedisce di scrivere qualcosa di decente per cui plagia il racconto di una studentessa di un college femminile, un racconto scritto con una sincerità cui l’autore non era abituato (il college gli ha insegnato a recitare una parte) e per questo toccante. Hemingway, dopo essersi dimostrato in un’intervista poco meglio degli altri, si suicida prima di andare nella scuola per cui il plagio risulta del tutto inutile. Ovviamente il ragazzo, cacciato dalla scuola, in seguito diventa, beato lui, uno scrittore affermato e viene invitato e riabilitato da chi l’aveva espulso. Il libro è pieno di citazioni letterarie e di buoni principi, fin troppo. L’autore non si libera più dei buoni principi e della divisa borghese, da bancario, come dice lui, cioè dell’imprinting della sua scuola. Quello che non dice ma lascia capire al lettore è che se come scrittore non si chiama Hemingway, come uomo è molto meglio e molto più vicino al tipo di individuo che la sua buona scuola si prefiggeva di forgiare. Certo il suo essere vanesio e autoreferenziale potrebbe anche passare inosservato dopo i discorsi stupidamente espliciti degli altri (che sono quasi caricaturali), ma non del tutto. In fondo il buon Tobias vuole dimostrare al lettore che il ragazzo che hanno espulso per plagio è diventato un grande scrittore e un grande uomo. Il suo college ricorda la buona scuola di Yates. Io però preferisco quel disgraziato,ubriacone, disturbatore della quiete pubblica di Yates a questo cittadino modello. Anche se ricordando scuola e insegnanti i due tendono entrambi a commuoversi. Ma mentre Tobias fino al plagio ha finto benissimo ed era un tipo alla moda, Yates non c’è mai riuscito.

La vita che produce la scrittura non può essere descritta. E’ una vita che si svolge al di là della consapevolezza dello stesso scrittore, sotto il rumore e il lavorio della mente, in pozzi oscuri e profondi dove messaggeri fantasma avanzano verso di noi e si ammazzano lungo il percorso, uno dopo l’ altro; e quando i pochi sopravvissuti si affacciano alla nostra attenzione, li accogliamo con cortesia, come camerieri che ci portano altro caffè. Non si può spiegare in modo veritiero come e perché si diventa scrittori, né esiste qualche momento del quale si possa dire: è stato allora che sono diventato uno scrittore. Tutto viene rabberciato insieme più tardi, con maggiore o minore sincerità, e solo dopo che le storie sono state ripetute più e più volte ci si mette sopra il marchio della memoria, bloccando la strada all’esplorazione. Per questo c’è qualcosa da dire, funziona e si ottiene perfino una dose omeopatica di verità.

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