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Il destino dell'Everyman di Roth si delinea dal primo sconvolgente incontro con la morte sulle spiagge idilliache delle sue estati di bambino, attraverso le prove familiari e i successi professionali della vigorosa maturità, fino alla vecchiaia, straziata dall'osservazione del deterioramento patito dai suoi coetanei e funestata dai suoi stessi tormenti fisici. Pubblicitario di successo presso un'agenzia newyorkese, è padre di due figli di primo letto, che lo disprezzano, e di una figlia nata dal secondo matrimonio, che invece lo adora. È l'amatissimo fratello di un uomo buono la cui prestanza fisica giunge a suscitare la sua più aspra invidia, ed è l'ex marito di tre donne diversissime tra loro, con ciascuna delle quali ha mandato a monte un matrimonio. In definitiva, è un uomo che è diventato ciò che non vuole essere.



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Everyman 2018-06-02 20:28:46 cesare giardini
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cesare giardini Opinione inserita da cesare giardini    02 Giugno, 2018
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Uno sguardo disincantato sulla vita e sulla morte.

Ho letto e riletto questo capolavoro pubblicato nel 2006, scritto da un Philip Roth alle soglie della vecchiaia, ben lontano dalla vivacità e dalla vitalità del “Lamento di Portnoy” del 1969: è un brano lirico che riflette sulla vita, sul passato e sulla fine imminente dell’esperienza umana, laddove, come recita un brano di John Keats posto a prefazione “ un tremito scuote gli ultimi radi e tristi capelli grigi, la giovinezza impallidisce, si fa spettrale e muore e il solo pensare è tutto un tormento”. Il protagonista è un uomo che è vissuto intensamente, ha provato gioie e dolori, passando attraverso tre matrimoni, con due figli che non lo amano, una figlia che lo adora, un fratello amatissimo, di cui invidia l’ottima salute. Salute che invece a lui ha voltato le spalle: cardiopatico cronico, è costretto a continui esami e ricoveri che minano progressivamente la sua fibra, pur tenacemente attaccata alla vita ed alla speranza di sopravvivere ancora una volta. I ricordi gli fanno amara compagnia, i contatti con i parenti si affievoliscono, la triste quotidianità nella quale consuma gli ultimi mesi della vita scorre inesorabile, ravvivata da flash sul passato e da tentativi di riallacciare rapporti sbiaditi nel tempo. “ La vecchiaia non è una battaglia, è un massacro”, così scrive Philip Roth, ma il nostro protagonista sembra rivivere e rivedere passato e presente con occhio disincantato, come se il fluire degli anni ed il progredire della malattia non lo riguardasse. Sembra sereno, quasi astraendosi dalla tristezza del vivere quotidiano: memorabile il lungo incontro al cimitero, ove si era recato per una visita alle tombe dei genitori, con un vecchio sterratore nero che sta scavando nuove fosse ed al quale chiede particolari sul suo lavoro e sulla sua famiglia. Gli allunga alla fine due biglietti da cinquanta, per ringraziarlo di aver approntato anche le fosse per i suoi cari e quasi presagendo un identico lavoro per sé. E la fine arriverà pochi giorni dopo, un arresto cardiaco durante un nuovo intervento chirurgico: “non esisteva più, era stato liberato dal peso di esistere, era entrato nel nulla senza nemmeno saperlo. Proprio come aveva temuto dal principio”. Un capolavoro, come ho scritto, sulla vita, sulla morte e sulla rassegnazione, intesa come accettazione serena, non priva di rimpianti, di una ineluttabile conclusione.

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Everyman 2017-02-19 14:07:00 68
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68 Opinione inserita da 68    19 Febbraio, 2017
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Nonsense di una fine auto annunciata

L' inevitabile epilogo della vita di ogni uomo (everyman ) ha segnato tristemente il protagonista senza nome del romanzo che inizia il giorno delle sue esequie, celebrate secondo il classico rito ebraico.
I presenti, parenti, amici, semplici conoscenti, enunciano, in un ultimo veloce commiato, un personale pensiero sul defunto, divisi tra aspre critiche e declinazioni amorevoli, laddove la morte si è già presa la scena riscrivendone, come sempre, la storia.
Mogli tradite, o assenti, figli abbandonati e scontenti, semplicemente amati, un fratello idolatrato ed invidiato, una ex amante, volti indistinti e silenti dietro un sipario improvvisamente calato.
Il percorso di una vita, la propria, rivissuta postuma nelle parole impersonali del defunto, costruita di esteriorità, un gratificante lavoro nella pubblicità, tre mogli così diverse fra loro, fragili legami parentali, il benessere economico, tra avventure extra coniugali, forma fisica e leggerezza.
Era stato, a lungo, ( più di un ventennio ) un viaggio disincantato e brioso nella roccaforte di un corpo sano lontano da quell' idea della morte degli anni a venire quando il passare del tempo avrebbe presentato un conto salato e la malattia sarebbe divenuta compagna sgradita .
Tre istantanee nella vita del protagonista, tra infanzia, giovinezza e maturità, associate a malattie, le prime due per banali interventi chirurgici ( un' ernia ed una appendicectomia ) dissoltisi con il vigore della giovinezza, la terza per lo stress ed il decadimento fisico della maturità con la cronicità del non ritorno ( una patologia cardiaca invalidante e ripetuti interventi chirurgici salvavita ).
Una certa idea di oblio comincia ad insinuarsi nel nostro, presenza irremovibile e non esorcizzabile, se non con il tentativo di sfuggire luoghi ed abitudini passate, declinando l' ossessione della morte. Ed allora si allontana da una New York colpita dagli attentati dell'11 settembre, e si dedica alla pittura, vecchia passione creativa e curativa.
Eppure perché alla sua età doveva essere ossessionato dal pensiero della morte?
Quasi tutti lo vedevano come un uomo bonario, industrioso, affabile, moderno, per i più un conformista, semplicemente un normale essere umano. Come padre un impostore, avventuriero, frivolo, immaturo.
Nella sua vita due grandi legami affettivi ( e non per le tre mogli ). Per il fratello Howie, atletico, vigoroso, brillante, con una salute ferrea, che ispirava fiducia, ma anche qui il tempo e la malattia l' avrebbero trasformato in odio per quelle doti biologiche che lui non aveva.
E poi Nancy, figlia prediletta di secondo letto, così pura e sensibile, innamorata dell' idea dell' amore, da sempre alimentatasi della propria generosità e sottrattasi all' infelicita' cancellando i difetti delle altre persone.
Oggi entrambi sono obbigatoriamente assenti in una quotidianità indirizzata altrove, immersa nel dolore e in un senso del nulla. Tutto è pura materia, " corpo", concretezza del reale, esperienza vissuta, persino i ricordi. Nessuno spazio per l' insondabile svagatezza del sogno, la realtà fattuale diviene lotta per la sopravvivenza, anche se battaglia già persa, ormai svuotata di senso.
Ed allora egli come avrebbe definito la propria autobiografia? Semplicemente " Vita e morte di un corpo maschile ".
Dopo gli ultimi ricoveri ospedalieri si è trasformato in un uomo solitario e meno sicuro di se', l' unica preoccupazione sta nell' eludere la morte, la decadenza fisica si è fatta la sua storia.
Ha perso il senso della vita, ormai preso da un' assenza di conforto, da una aridità mascherata di consolazione e da un senso di " alterita' " mai posseduto, niente stimola più la sua curiosità.
Prende forma l' idea che la vecchiaia sia dapprima una battaglia, poi un massacro ed una rassegnazione al deterioramento fisico in attesa del nulla. Persino i corpi di coloro che lo circondano, dalle ex mogli, agli amici, ai vecchi colleghi, ai conoscenti, hanno perso forma, forza, alcuni prematuramente scomparsi.
La propria consolazione sta nell' accostarsi alla materia per scongiurare l' indefinitezza di una fine, nel credere e toccare il presente, nel trattenere quel che rimane di un passato lontano.
Dei suoi genitori non restano che le ossa, ..." in fondo erano ossa e basta, ma le loro ossa erano le sue ossa...", simbolo di una vicinanza che possa mitigare l' isolamento per la perdita del futuro collegandolo a tutto ciò che non c'è più. In un raccoglimento protratto, durante una visita al cimitero, per pochi minuti, il protagonista si sente corporalmente così vicino a quelle ossa, perché la carne di quei corpi si è sciolta ed esse sono l' unico conforto per uno che non crede nell' aldilà.
Un consiglio gli viene dal passato ( da suo padre ) ed è la presa di coscienza di ..." una vita per gran parte trascorsa in quel guardarsi indietro cercando di espiare le colpe espiabili ed andando avanti con quello che resta nel presente.."
In verità l'ossessione per una vita non vita o per una fine ritenuta imminente conduce all'' autoannientamento, al nulla e quindi all' essere gia' morti. Ma qui si entrerebbe nella complessità ed indefinitezza di una mente ( ed il protagonista è solo corpo ) che, partendo da fatti reali ( la malattia e la decadenza corporale), costruisce ed amplifica una propria verità ( vera o presunta) trasformandola in realtà invalidante.
Probabilmente la semplice accettazione della vita stessa, nella propria caducità, oltre che imperfezione e limitatezza, gioia e dolore, permetterebbe di viverne i semplici attimi, assaporandone i gusti disparati, allontanando l' incubo di una fine certa, piu' o meno lontana, ma profondamente " umana ".
Il senso è la limitatezza temporale, sta a noi sfruttarlo al meglio, nel presente, allontanando rimpianti e false speranze, abbandonandoci al sogno ( spazio atemporale ), accettando ( anche se a fatica ) l' inevitabile declino.
Una semplice domanda: che vita sarebbe costruita su un' idea di perfezione ed eternità ?
Un Roth sempre pungente e da riflettere, con tematiche ondeggianti tra il filosofico e l' antropologico, su sfondo autoanalitico a scrutare la vulnerabilità e finitezza dell' animo umano e l' insondabilita' della vita. Una scrittura che scandaglia la profondità delle parole, usandole e dosandole in una struttura armonica e centellinata ( pochi dialoghi densi ) in un costrutto con minore ampiezza storico-sociologica e maggiore intimità, ( nella rappresentazione della vita di un uomo ) fermo restando la crudezza nella narrazione del reale e nella fisicità dei temi trattati (funzionale alla storia).

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Everyman 2014-11-16 14:16:14 Vincenzo1972
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Vincenzo1972 Opinione inserita da Vincenzo1972    16 Novembre, 2014
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R.I.P.

Non so perchè mi sia deciso a leggere questo libro. Eppure sapevo a cosa andavo incontro dalle varie recensioni che ho sbirciato, come faccio sempre, prima di scegliere un nuovo libro da leggere.
Sapevo benissimo che il tema trattato avrebbe alterato in modo drastico la mia routine.. in che senso, direte voi? Nel senso che, sin da ragazzo, ho cercato di basare la mia vita sulla filosofia dei 'compartimenti stagni',immaginando cioè ogni singolo giorno come una stanza con due sole porte, quella di ingresso e quella di uscita, la prima da varcare alle 00.01 di oggi e l'altra da varcare alla stessa ora di domani.. e non sono ammessi salti nè in avanti, perchè è inutile pensare di "progettare" la realtà come piace a noi, nè indietro, perchè:
"è impossibile rifare la realtà, devi prendere le cose come vengono. Tener duro e prendere le cose come vengono".
Ed ero certo che questo libro m'avrebbe costretto ad aprire, anzi sfondare, in anticipo (molto in anticipo), diverse porte che invece avrei dovuto varcare tra diversi anni, almeno una trentina spero...
Perchè questo libro, a parte tutte le varie metafore ed allegorie che se ne possono trarre (molto azzeccato, per esempio, il contrasto tra la passione che il protagonista nutre sin da bambino nello smontare e rimontare gli orologi nel negozio paterno e la necessità di farsi impiantare meccanismi di ogni genere, stent, defribrillatori e bypass, per poter ancora vivere il suo 'tempo'), è un libro dedicato alla morte, a quella meta comune a tutti gli uomini (everyman), anche a quelli che come me vivono a compartimenti stagni nel tentativo, quantomeno, di allontanare il pensiero del suo arrivo visto che è impossibile impedirne l'arrivo.
E se qualcuno pensasse di consolarsi ritenendo che in fin dei conti la morte è solo l'ultima delle porte, prima possono essercene molte altre da aprire, si sbaglia di grosso: perchè Roth, con uno stile maledettamente lucido, implacabile e spietato nella sua inequivocabile esposizione, ci accompagna a ritroso attraverso tutte le porte che precedono l'ultima e che riportano sulla targhetta la parola "vecchiaia".
E la vecchiaia, inutile illudersi, "non è una battaglia: la vecchiaia è un massacro": il senso di solitudine estrema, di inutilità, di emarginazione, i rimpianti ed i rimorsi, le conversazioni tra coetanei che andavano "invariabilmente a girare intorno agli argomenti della malattia e della salute, perchè a questo punto le loro biografie personali erano diventate identiche alle loro cartelle cliniche, e lo scambio di informazioni mediche escludeva tutto il resto".

Ecco perchè odio questo libro, pur ritenendolo un piccolo capolavoro: perchè ora mi costringe a richiudere tutte le porte che non dovevano ancora essere aperte... soprattutto quelle che mi spaventano maggiormente, quelle che racchiudono all'interno giorni da vivere nel ricordo e nella nostalgia di ciò che si è avuto e non si potrà più avere:

"Correva a casa a piedi nudi, bagnato ed incrostato di sale, ricordando la forza di quel mare immenso che gli ribolliva nelle orecchie e leccandosi un braccio per sentire il sapore della pelle rinfrescata dall'oceano e cotta dal sole. Insieme all'estasi di un'intera giornata trascorsa facendosi sbatacchiare dall'oceano fino a rincretinirsi, quel sapore e quell'odore lo inebriavano talmente da spingerlo quasi al punto di affondare i denti nel braccio per strapparne un bocconi di se stesso e sentire il sapore della propria carnale esistenza."

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Everyman 2013-07-12 11:36:08 Todaoda
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Todaoda Opinione inserita da Todaoda    12 Luglio, 2013
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Brillante ma funereo

Che cos’è la morte? Dal momento che è l’argomento su cui verte Everyman (come al solito sempre allegrissimo Philip Roth!) e dal momento che bene o male è lui stesso durante la narrazione a porsi e a porci la domanda, mi sembra lecito che venga ripetuta e mi sembra anche lecito che ci si ragioni un po’ su, almeno quel tanto che basta per farsi un’idea di fondo se l’autore con il suo libro abbia c’entrato l’obbiettivo e sia giunto a una conclusione coerente oppure se abbia eccessivamente divagato allontanandosi dal sentiero tracciato dalla sua domanda, così banale eppure così essenziale. Approposito, parlando di divagazioni eccessive, se non siete (giustamente) interessati alle prolisse elucubrazioni mentali del sottoscritto su un così funereo argomento potete saltare direttamente al quinto paragrafo (o pressapoco, quello che per intenderci inizia con: "Va bene ma allora che cos'è?"). Se al contrario mossi da subitanei istinti masochistici foste interessati si può procedere!
Dunque, che cos’è la morte?
Qualcuno potrebbe definirla come il contrario della vita, tutto ciò che non è vita. Vero, forse però sarebbe un po’ troppo semplice, qualcuno allora potrebbe interpretarla come la cessazione di tutto, quell’evento , quel “fastidioso imprevisto”, che una volta verificatosi tutto smette di esistere: il sig. Rossi è morto dunque ha smesso di esistere, le sue funzioni vitali sono cessate e dunque non è più vivo. Vero anche questo, forse però ancora una volta troppo limitato, già poiché se è vero che una cosa finché non la si sperimenta non la si conosce fino in fondo, è altrettanto vero che la natura burlona nel nostro caso non ci accorda la possibilità di tornare a riferire cosa si prova e in cosa consista una volta sperimentata (…o almeno si spera!) Di fatto dunque le nostre sono solo illazioni, ipotesi, nient’altro che immaginazione, e, immaginazione per immaginazione, allora perché non dare peso anche all’interpretazione del credente, del religioso, di colui che affida a un ordine superiore delle cose la sua stessa vita? Perché non credere che ci sia dell’altro oltre la morte? Perfino l’ateo, l’agnostico, almeno per onestà intellettuale non dovrebbero escludere ogni eventualità a priori, no? Dunque che cos’è è la morte per il credente? Per i cristiani è il passaggio che permette all’uomo di ricongiungersi con Dio, o suppergiù, e simile deve essere anche per coloro che osservano le altre religioni, qui ammetto la mia ignoranza, tuttavia di per certo so che alcuni credono addirittura che non esista una sola morte, ma tante, tante quante le vite in cui ogni volta ci si reincarna, certo, per il medesimo principio di onestà intellettuale citato prima, in quest’ultimo caso verrebbe da obbiettare che allora non si tratterebbe di vera e propria morte, di una cessazione totale, ma in fondo chi da valore alle parole, ai concetti, se non l’uomo stesso? Chi ne valuta, stima o attribuisce il peso se non le persone stesse? E dunque perché considerare la morte esclusivamente come la totale cessazione del singolo essere e non come una delle centinaia di cessazioni delle centinaia di possibili esseri?
Altre ipotesi e illazioni che rischiano di far impelagare il discorso tra gli intricati istmi della teologia e della filosofia, discorsi anche dotti ed eruditi se si vuole ma che non portano mai a nulla, e che il più delle volte vengono liquidati dalla brava gente con qualche sorta di gesto scaramantico. Comprensibile, la vita è qualcosa sempre di estremamente concreto e non si ha mai troppo tempo di pensare a queste cose se non al “momento buono.” E quando arriva quel momento non c’è logica o riflessione che tenga, solo paura, superstizione o per i più fortunati fede, dunque è logico non starci troppo a pensare finché siam vivi, come è logico lasciarsi prendere dal “non è vero ma ci credo” e scaricarsi la coscienza con qualche scongiuro, del resto cosa c’è di peggiore e più temuto della morte? Avanti confessate: quanti di quelli che hanno letto fin’ora questa recensione non si sono ancora strizzati i gioielli di famiglia? E quanti di quelli che hanno letto Everyman non si sono prodotti nel sopracitato gesto almeno una volta. Siate sinceri!
Dunque è logico, naturale, non pensarci troppo, non farci troppo caso e talvolta sdrammatizzare, logico… ma non per Philp Roth, lui in fatti in questo libro ci ragiona parecchio sulla morte, e vuoi (ahimè) per una questione anagrafica, vuoi per una sorta di deontologia personale talvolta troppo coincidente con la deformazione professionale, non riesce proprio a sdrammatizzare.
Quindi resta il dubbio, a noi e a lui: che cos’è la morte?
Meglio mantenersi sul semplice nel nostro caso, noi non siamo dei Philip Roth, tuttavia ci sono altre due interpretazioni che mi par doveroso aggiungere poiché fondamentalmente legate al messaggio del romanzo, la prima è quella dell’ottimista o del giovane ragazzo: la morte è qualcosa che accadrà in futuro ma che grazie a Dio è ancora lontana e dunque appunto è inutile pensarci; la seconda è quella del pessimista o dell’anziano: la morte è quell’ estrema inevitabilità a cui si incomincia a correre incontro non appena nasciamo.
Va bene ma allora che cos’è? Il buon Roth in Everyman ce lo spiega?
In un certo senso sì, per lui infatti è tutto ciò che ha a che vedere con la vita, è qualcosa di inscindibile da essa, vuoi che venga interpretata attraverso la coscienza del giovinetto che non ha tempo di pensarci se non attraverso il contatto esterno qual’ora venga rinvenuto un cadavere sulla spiaggia dove è solito andare a giocare, vuoi che venga interpretata attraverso gli occhi del medesimo giovinetto ormai adulto, cresciuto, anziano, che ha vissuto la sua vita, è venuto più volte in contatto con la morte attraverso le perdite dei suoi cari e ora, da li a qualche giorno, mese, massimo anno sa che inevitabilmente toccherà anche a lui.
Deprimente, triste, già, ma anche reale, vero e inevitabile, come inevitabile è ragionarci su più volte nel corso della propria esistenza, come inevitabile talvolta è illudersi di averla scampata, come inevitabile talvolta è farsi abbattere dalla sua cieca brutalità.
E quale occasione migliore per non riflettere sulla morte se non al funerale di un uomo? Pensa Roth. Quale situazione migliore? O ancora meglio: quale incipit migliore per un libro se non partire proprio da quella che agli occhi di tutti è comunemente riconosciuta come la fine estrema? Tutto questo è Everyman.
Ma il romanzo di Roth non è un libro solo sulla morte, lo stesso titolo ce lo suggerisce, certo ovvio se ne tratta, e anche abbondantemente, ma parlandone di riflesso è anche un libro sulla vita, sulla vita di un’ uomo qualunque e di ogni uomo, poiché di fatto una volta passati a fil di lama di quella grande uniformatrice che è la vecchia con la falce, siamo tutti uguali, siamo tutti identici e di noi nulla rimane se non quel che appunto siamo stati, la vita che abbiamo vissuto e come l’abbiamo vissuta. Dunque Everyman è anche un libro sulla vita, sui doverosi quanto banali ricordi dei parenti del defunto che partecipano al funerale, e sugli originali ricordi del defunto stesso che, con uno stratagemma concepibile solo in una sorta di surrealtà letteraria, ci racconta in una non ben precisata ultradimensione conicidente con quella del narratore assoluto, con quella di Roth, ci racconta dei suoi momenti di gloria e dei suoi momenti di infamia, di quanto di bello gli sia accaduto e di quanto di triste gli sia successo fino ad arrivare al culmine, al limite, dove la trasmigrazione dell’io narrante si fonde nella voce dell’autore che compie le sue riflessioni e poco dopo fa morire/muore il protagonista.
(Non è uno spoiler, se la scena d’apertura del romanzo è il funerale del protagonista è abbastanza prevedibile capire come vada a finire…)
E sono ricordi interessanti quelli di questo “Fu protagonista”, comuni, canonici, ma interessanti come le riflessioni, che in accordo con le rievocazioni, spaziano lungo tutto l’arco della sua vita; in questi si intravedono aspirazioni, desideri, piaceri, paure, rimpianti e dolori, ognuno particolare eppure ognuno normale: e se da bambino avessero sbagliato ad operarmi di appendicite?, se da giovane non avessi scelto quel lavoro?, se da adulto non avessi mollato mia moglie e non mi fossi risposato? E se ora da anziano mi trasferissi sulla costa?
Domande banali, verrebbe da pensare, eppure fondamentali nel corso di un esistenza, nel corso della propria esistenza, poiché sono quelle che definiscono una vita, poiché sono quelle che esemplificano la coscienza individuale, poiché nel romanzo traendo dal quotidiano acquistano la forza della realtà e sottraendo linfa alle reminiscenze di una vita si elevano a simboli del vivere stesso, al vivere di ogni uomo, appunto di Everyman.
E particolarmente ispirata è qui anche la narrazione di Roth, che raggiunge vette di incommensurabile tristezza pareggiate soltanto dalla splendente lucidità della sua riflessione, vette di potente angoscia (leggasi per esempio la descrizione dell’intervento chirurgico in anestesia locale) equiparabili solo alla purezza che l’autore riesce a conferire al potere della conoscenza, forse unico germoglio di salvifica consolazione per il protagonista, (leggasi per esempio “l’aneddoto” del becchino allorché descrive dettagliatamente il proprio lavoro ad un protagonista avido come non mai di conoscerne i particolari.) Una narrazione dunque viva ed incalzante, come solo può essere lo scorrere del tempo, come solo può essere la vita qual’ora ci si renda conto di esserne arrivati agli sgoccioli, e tuttavia una narrazione che potrebbe essere definita (o forse sarebbe meglio dire percepita) come l’ unico neo di un’ opera altrimenti perfetta.
Di fatti, malgrado tutto, è innegabile che lo stile con cui è scritto Everyman in diversi punti potrebbe essere chiamato in causa come prova dell’evidente eccessivo coinvolgimento dell’autore stesso nel suo romanzo: se il suo obbiettivo era quello di dipingere un quadro realistico della vita di un uomo, piuttosto che rappresentarne l’evoluzione della coscienza lungo il corso degli anni, sarebbe stato auspicabile un tono più distaccato, che conferisse identico peso e valore sia agli anni della giovinezza del protagonista, che a quelli della maturità, che a quelli della senilità e dunque che non fosse nettamente sbilanciato verso quest’ultima, ricca di nostalgici e deprimenti considerazioni; sarebbe stato auspicabile all’inizio uno stile che, traendo dalla istintiva vitalità della gioventù e dalla adulta consapevolezza della maturità, riuscisse a descrivere un’ esistenza in maniera più equilibrata. Tuttavia occorre ricordare, e anche realizzare, che è impossibile disgiungere la coscienza di un essere dalla sua stessa esistenza poiché l’una è il diretto prodotto dell’altra e viceversa, poiché l’evoluzione di una coscienza è quanto mai una delle principali caratteristiche dell’evoluzione di un esistenza e dunque anche i pensieri della giovinezza (e così le loro descrizioni) al limitare della vita del protagonista non possono essere che vissuti attraverso gli occhi nostalgici di colui che sa che ormai si tratta di tempi ormai lontani, poiché Roth stesso, anche lui non più esattamente un giovincello, non può esimersi dal far ricadere le sue attuali considerazioni personali raccontando di un uomo qualunque, alla luce della potenza parificatrice a cui neppure lui è esente, ovvero la morte, alla luce di quella potente e onnicomprensiva definizione dell’esistenza umana a cui neppure lui può sottrarsi, ovvero “Everyman.”
Un romanzo insomma convenzionale eppure, nel suo singolarissimo modo, particolare, che racconta di una storia comune eppure, eppure nella sua singolarissima eccezione, originale e la racconta con uno stile sbilanciato e tetro, eppure nella sua singolarissima universalità, lucido e vitale.
E una volta letto, tutti a fare scongiuri!

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