Gilead Gilead

Gilead

Letteratura straniera

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Il reverendo John Ames sta morendo. Non potrà crescere il figlio di soli sette anni, né educarlo, né offrirgli testimonianza di sé. Sceglie così di affidarsi a una lettera-diario, un po' confessione un po' omelia, che dica un giorno al bambino ormai adulto ciò che di suo padre è importante sapere. Gli racconterà del nonno abolizionista e del padre pacifista, delle rovine di un luogo già baluardo della libertà americana, delle sue convinzioni e dei suoi dubbi, di quanto abbia amato questa vita che si appresta a lasciare. In un discorso lucido e luminoso da padre a figlio, da padre a Padre, dove l'intelligenza e la speranza parlano la stessa lingua.



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Gilead 2018-08-06 11:17:15 kafka62
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    06 Agosto, 2018
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LE VISIONI E LA GRAZIA

“A volte mi sento come un bambino che apra una sola volta gli occhi sul mondo vedendo cose stupefacenti di cui non saprà mai il nome, e poi sia costretto a richiuderli. Lo so, non sono che apparizioni in confronto a quello che ci attende, ma non per questo sono meno incantevoli. Possiedono una bellezza umana. E non riesco a credere che, quando saremo tutti trasformati e avremo abbracciato l’incorruttibilità, dimenticheremo la nostra splendida condizione mortale e transitoria, il grande fulgido sogno di procreare e perire che fu importantissimo per noi. Nell’eternità questo mondo sarà Troia, penso, e tutto quello che è successo qui sarà l’epica dell’universo, la ballata che canteranno per le strade.”

Di lettere di un padre a un figlio si trovano parecchi esempi nella storia della letteratura. Tutti – credo – avranno letto almeno una volta la poesia “Se” di Rudyard Kipling; molti avranno sentito parlare delle lettere di Antonio Gramsci scritte dal carcere o di quelle di John Steinbeck (sull’amore) e di Lord Chesterfield (sui comportamenti appropriati da adottare in società); più recentemente sono apparsi nelle librerie “Il razzismo spiegato a mio figlio” di Tahar Ben Jelloun, “Lettera a mio figlio sulla felicità” di Sergio Bambaren, e altri che al momento mi sfuggono di mente. “Gilead”, opera seconda di Marylinne Robinson, sposta questa tematica dalla sfera autobiografica a quella romanzesca, mettendo al centro della narrazione John Ames, il vecchio reverendo congregazionalista di una minuscola cittadina dell’Iowa (la Gilead del titolo), il quale, ormai prossimo alla morte, decide di lasciare al proprio figlio di sette anni, che non potrà vedere crescere, una lettera-testamento in forma di diario, nella speranza che un giorno questi possa conoscere in forma per così dire autentica, non mediata cioè dai propri ricordi o dalle testimonianze altrui, chi era il suo genitore, quali erano i suoi pensieri e le sue idee, quale la sua filosofia di vita. E’ l’occasione per l’anziano pastore di raccontare le proprie esperienze di vita più toccanti, come l’incontro con la giovane Lila, destinata a farlo diventare a quasi settant’anni, contro ogni speranza, marito e padre, di riesumare le memorie familiari, risalendo per mezzo delle passate generazioni la corrente della storia americana fino ad arrivare alla Guerra di Secessione, e soprattutto di tirare le somme della propria lunga esistenza giunta ormai sulla soglia dell’Eternità. Forte era il rischio di trovarsi di fronte a un lungo pistolotto predicatorio (vista anche la professione del narratore) con insopportabili intenzioni educative (come chi, dall’alto della saggezza concessa dalla veneranda età raggiunta, voglia mettere a disposizione delle giovani generazioni i consigli resi possibili dall’esperienza e da anni di frequentazione delle Sacre Scritture). Per fortuna nulla di tutto questo si respira nell’opera della Robinson. Attraverso lo spezzettato monologo del reverendo, emerge al contrario un appassionato e sconfinato amore per la vita e per tutte le sue espressioni più semplici e naturali (l’acqua, la luce, il viso delle persone), con un atteggiamento di stupefatto incantamento che pertiene più all’infanzia che all’età senile. Riflettendo sulla morte imminente, pur non facendosi mai sopraffare dalla paura dell’ignoto e del mistero divino, il vecchio si lascia cullare dalla nostalgia per le piccole e spesso sottovalutate sensazioni di questo mondo, preziosi spiragli che la vita, pur in mezzo a guerre, povertà, lutti e malattie, riesce sempre a concedere a chi le si abbandona. Di visioni parla spesso il protagonista. Visioni sono quelle sperimentate dai mitici antenati, come l’omonimo nonno, per i quali poteva apparire addirittura normale essere fisicamente toccati da Dio; ma visioni sono anche quei momenti capaci di stagliarsi nella memoria con impressionante vividezza, come quando molti anni prima la chiesa battista era andata a fuoco e la comunità si era radunata per dare una mano: niente di apparentemente indimenticabile, eppure la pioggia che scendeva tra i ruderi fumanti, gli uomini che seppellivano le bibbie rovinate ai piedi di un albero, le donne con i capelli sciolti che aiutavano muovendosi con estrema delicatezza e cantavano inni religiosi e il padre che aveva porto al piccolo protagonista una focaccia macchiata di fuliggine, come un’ostia durante l’Eucarestia, è rimasta impressa nella mente del vecchio pastore passando indenne attraverso decenni di esistenza. “Ci sono migliaia e migliaia di ragioni per vivere questa vita, e sono tutte sufficienti, dalla prima all’ultima”, scrive al figlio, aggiungendo altresì “quanto mi mancherà questo mondo!”. La grazia di cui il reverendo ha parlato spesso nelle sue omelie altro non è in fondo che la capacità di accogliere con gratitudine i piccoli doni misconosciuti della quotidianità.
Non c’è però solo pace e dolcezza nell’animo del protagonista. La parola “rabbia” ricorre infatti spesso in “Gilead”, e questo può sembrare paradossale in un romanzo delicato come una ragnatela. Il fatto è che sotto la superficie apparentemente imperturbabile del memoriale si celano inquietudini e turbamenti, sensi di colpa repressi e tensioni sociali e razziali. John Ames è l’ultimo di una famiglia di predicatori, ma nonostante in casa si sia per così dire sempre respirata l’aria della Bibbia egli rammenta l’aspra conflittualità esistente tra il nonno vetero-testamentario, che si presentava in chiesa con la pistola sotto la cintura ed incitava i parrocchiani ad arruolarsi, e il padre pacifista, e lo stesso suo mite genitore anni dopo era entrato in forte disaccordo con la sua scelta di rimanere fedele a quello sperduto paese del Midwest anziché viaggiare e allargare i suoi provincialissimi orizzonti. Nella seconda parte, poi, il ritorno a Gilead di Jack, suo figlioccio nonché figlio del vecchio amico Boughton, scuote fortemente la tranquillità del narratore. Immaginando ambigue e pericolose intenzioni in questo “figliol prodigo”, geloso per quelle che egli interpreta come subdole manovre per prendere il suo posto in seno alla famiglia non appena sarà morto, John Ames diventa preda di angosciosi dubbi e tormenti. Non saranno i sermoni da lui scritti nella sua lunga carriera di oratore e scrupolosamente conservati in soffitta, non sarà cioè la fredda teologia in cui la sua mente, quasi per riflesso condizionato, continua ad arrovellarsi (al punto che non è infrequente imbattersi nel libro in riflessioni sulla predestinazione, sulla remissione dei peccati o sul posto da assegnare al quinto comandamento all’interno del Decalogo), non sarà tutto ciò a restituirgli la serenità, bensì l’umanissima capacità di mettersi nei panni del proprio prossimo e condividere con lui la vergogna e la sofferenza, scoprendo quanto c’è di nobile e bello anche in anime apparentemente scellerate. Quelle della benedizione concessa a Jack prima della sua partenza da Gilead sono tra le pagine più belle del libro, e lo riscattano dalla fatica che la sua struttura frammentaria e divagante impone spesso al lettore.
Attraverso il monologo del protagonista non si delinea solo la storia della sua vita ma, indirettamente, anche di un’intera comunità, quella di Gilead, un paese sperduto e fuori dal mondo che Edward, il fratello, definisce una “palude”, ma che racchiude una umanità appartata e selvatica cui alla lunga non ci si può che affezionare. La figura che si staglia su tutte le altre è sicuramente quella, mitica, del nonno con un occhio solo, personaggio eccentrico, somigliante più a un profeta dell’Antico Testamento che a un predicatore dell’Ottocento, il quale viveva il Vangelo alla lettera donando tutto quello che poteva ai bisognosi, al punto che la figlia, per non vedersi depredare la casa, era costretta a tenere i soldi avvolti in un fazzoletto sotto il vestito e a far girare il nipote con il vestito della domenica per paura che regalasse anche quello. Molti sono gli aneddoti di cui è costellato “Gilead”, alcuni sorprendentemente comici (come il racconto dell’automobile, una delle prime mai apparse in quei paraggi, che il giovane Jack aveva rubato e che, dopo essere stata abbandonata per strada, nei due mesi seguenti praticamente metà della contea si era illegalmente passata di mano in mano, barattandola con fucili da caccia, giovenche o cose simili). Quella della Robinson è una narrazione fuori dal tempo, che non sembra appartenere ad alcuna epoca in particolare: è per questo motivo che quando il reverendo cita Eisenhower e le imminenti elezioni presidenziali, o il figlio disegna gli Spitfire della Seconda Guerra Mondiale, l’effetto è straniante e quasi anacronistico. E’, ancora di più, una scrittura capace di scendere con leggerezza nei recessi profondi dell’animo umano e probabilmente destinata, dopo aver vinto la sfida di una innegabile difficoltà di approccio, a crescere col tempo nel cuore del lettore.

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Gilead 2017-12-10 22:32:34 Mario Inisi
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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    11 Dicembre, 2017
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Coraggio e grazia

Marylinne ci racconta la stessa storia di Casa e anche di Lila (in parte) cambiando l'angolazione cioè la voce narrante che qui è il reverendo Ames. Anziano e moribondo scrive per lasciare un'eredità spirituale al figlio. Scrive delle cose che per lui contano, quindi parla molto di Dio, della sua vocazione e della moglie Lila. Scrive con una punta di gelosia, dato che la moglie e il figlio, forse, nella sua bontà glielo augura, proseguiranno la loro vita con qualcun altro al loro fianco. Questa sottile gelosia si trasforma in gratitudine per la grazia e i doni ricevuti da Dio, dei quali il più grande è l'amore. Questo amore che il reverendo Ames ha ricevuto tardi lui lo augura agli altri, compresa la giovane moglie.
Il libro è una riflessione sulla grazia e sulla bellezza dei doni di Dio. Doppia grazia, nel senso che Dio dona anche il coraggio necessario per accettare i doni che fa. Il finale del libro è all'insegna della fede e della gratitudine e è anche un inno al coraggio.
Come lettura forse non è per tutti. Ma la Robinson ha la capacità, quasi la definirei la grazia, di farti entrare in un mondo migliore, lontano anni luce dal nostro e molto più umano e armonioso per quanto nel testo si accennino a problemi sociali quali la difficoltà a trovare lavoro e a portare avanti matrimoni misti (bianchi con neri). Ma sembrerebbe alla luce delle parole di Ames che se uno avesse solo un po' di fede e coraggio ogni problema troverebbe soluzione.
Il finale mi ha ricordato la chiusura del Diario del curato di campagna di Bernanos, con la stessa luce che viene dalla grazia.

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Lila e Casa
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Gilead 2017-06-26 08:40:35 siti
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siti Opinione inserita da siti    26 Giugno, 2017
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Un padre

Un padre morituro scrive al figlio che non vedrà crescere oltre, con l’intento di lasciargli una più marcata conoscenza di sé, quella che la vita avrebbe potuto concedere se non ci fosse stato il divario anagrafico a separarli. John Ames ha 76 anni, il figlio appena sette. Il suo testamento letterario si trasforma in un bilancio della propria esistenza fatta di storia familiare, di rapporti interpersonali, in un ripercorrere eventi, emozioni, limiti individuali tendenti quasi a ridimensionare la memoria che la sua morte invece consegnerà al figlio con la complicità della comunità di Gilead della quale egli è il pastore.
Gli preme pertanto evidenziare le delicatezza dei rapporti in seno alla famiglia, raccontare del suo rapporto con il padre e ricordare il nonno, figura rasente quasi il mito, le difficoltà attraversate a causa delle lacerazioni apparentemente create da figli dissidenti, e non solo per motivi religiosi, e fomentate dalla rigidità dei padri in un eterno scontro generazionale. Fratture che portano a partenze e a ritorni ma anche a prematuri e necessari abbandoni. Parla al figlio del suo primo matrimonio e del duplice lutto che lo colpì, morte moglie e figlioletta in seguito al parto, della conoscenza della sua Lila , la sua mamma appunto, e della sua prima esperienza di genitorialità vissuta in modo indiretto con il figliolo ribelle del suo più caro amico consegnatogli come figlioccio.
Tutto lo scritto è scandito da pause narrative coincidenti con il sonno, riaprono la narrazione la descrizione del risveglio e del riposo stesso , faticoso e disturbato nell’anziano, dando modo di prendere coscienza quotidianamente della difficoltà del risveglio stesso mentre la mente sta, nel tempo dilatato di questo limitare di vita, concedendosi alla rivalutazione del proprio vissuto, riappropriandosi di una lettura più lucida e coerente del proprio vissuto, quella che non è concessa mentre si vive.
I genitori, l’amicizia, la religione, i luoghi della vita, la luce negli occhi di chi sa vedere, la lettura del mondo, le delusioni, i limiti personali, la possibilità di sperimentare amore si sono impressi nella mia memoria a sintesi di questa lettura densa di riflessioni personali. È stata anche un’occasione conciliante una più serena e proficua rivalutazione della mia esperienza religiosa molto limitata e purtroppo limitante ogni qual volta si scontra con sovrastrutture che fatico ad accettare. Il messaggio evangelico mi appartiene e questo libro me lo ha ricordato insieme alla grande sfida che esso contiene: essere disponibile all’amore. Mi è piaciuto perché infonde speranza all’insegna della grazia e della gratitudine assolvendo il limite che non necessariamente coincide con la cattiveria.

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Le cure domestiche
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Gilead 2017-06-10 07:53:58 Elena72
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Elena72 Opinione inserita da Elena72    10 Giugno, 2017
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“Ti amo soprattutto perché esisti”

“Lo scopo per cui ti sto scrivendo è quello di dirti cose che ti avrei detto se fossi cresciuto con me, cose che a mio avviso dovrei insegnarti come padre” (p. 139)
A scrivere queste parole è il pastore congregazionalista John Ames, un uomo provato dal lutto e dalla solitudine, padre anziano di un bambino che non potrà vedere crescere; decide dunque di consegnare alla carta i suoi più intimi e sinceri pensieri, l'eredità che vuole lasciare a suo figlio per poter dialogare con lui anche quando fisicamente non potrà più essergli accanto.
La vicenda è ambientata negli anni Cinquanta a Gilead, una sperduta cittadina dello Iowa; Ames nelle sue memorie alterna le osservazioni sul presente ai ricordi del passato: della sua infanzia rievoca il conflittuale rapporto tra suo padre, pastore pacifista, e suo nonno, abolizionista militante tra i guerriglieri di John Brown.
Del momento attuale, invece, osserva e commenta le vicende relative a Jack Boughton, figlio ribelle dell'amico Robert, anch'egli pastore ormai anziano e debilitato dalla malattia. Jack, ritornato alla casa paterna dopo una vita dissoluta e fallimentare, con il suo atteggiamento ambiguo e talvolta provocatorio inquieta le giornate di Ames che lo percepisce come un pericolo per l'incolumità della moglie e del figlio. Solo dopo diversi incontri e una confessione da parte del giovane Boughton, Ames capirà che anche Jack è un'anima tormentata alla ricerca di un'oasi di salvezza, un figliol prodigo caduto in disgrazia a causa delle sue debolezze, ma anche una vittima di assurdi pregiudizi religiosi e razziali. Solo allora John riuscirà finalmente a cogliere in Jack quello spiraglio di redenzione di cui fino a quel momento aveva dubitato, proverà per quell'uomo una sincera compassione e riuscirà ad impartirgli il suo perdono e la sua benedizione.

John Ames è un personaggio magistralmente delineato a tutto tondo: l'autrice ne fa percepire ogni moto interiore evidenziandone dubbi, paure, risentimenti e gelosie. Ames è un uomo che gioisce di fronte all'alba che inonda di luce ogni cosa, che si commuove al tocco dei capelli di suo figlio, che si incanta nel contemplare i gesti premurosi della giovane moglie. Il suo sguardo sulla realtà è pieno di stupore e gratitudine:
“Ci sono due occasioni in cui la sacra bellezza del Creato diventa di un'evidenza abbacinante, e queste si presentano contemporaneamente. Una è quando sentiamo la nostra mortale inadeguatezza rispetto al mondo, e l'altra è quando sentiamo la mortale inadeguatezza del mondo rispetto a noi.” (p.225)

In questa lunga lettera l'autrice dà voce ad un teologo e il filo conduttore, il rapporto padre-figlio, è analizzato in un orizzonte di fede che non può prescindere dalla relazione che l'uomo ha con Dio; attraverso le parole di Ames, l'autrice affronta questioni quali il peccato, la grazia, il perdono, la predestinazione, la salvezza. A brevi annotazioni sulla quotidianità si alternano meditazioni e citazioni su passi e figure bibliche: la lettura di questo testo potrebbe pertanto risultare, in certi passaggi, piuttosto impegnativa.
La scrittura della Robinson ripaga però da ogni fatica: una prosa apparentemente semplice che cura ogni dettaglio stilistico regalando splendide descrizioni di ambiente e creando un'atmosfera dal tono sommesso che infonde nel lettore un senso di pace e tranquillità.

Ho molto apprezzato questo testo perché l'autrice, priva di qualunque intenzione di indottrinamento, sa toccare argomenti molto lontani dalla nostra quotidianità come il peccato, il pentimento, il perdono con grande autenticità, senza retorica e senza fanatismi. Inoltre, da genitore, sono rimasta colpita dal profondo sentimento di Ames per suo figlio, un amore che non pone condizioni, disposto a perdonare ed accogliere, fiducioso e pieno di speranza.

“Pregherò perché tu diventi un uomo coraggioso in un paese coraggioso. Pregherò perché tu trovi un modo per renderti utile” (p. 257)



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Gilead 2017-05-15 07:38:35 Emilio Berra TO
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Emilio Berra  TO Opinione inserita da Emilio Berra TO    15 Mag, 2017
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Lettera al figlio

Secondo me, questo libro è un dono, assolutamente non compensabile con denaro o diritti d'autore. Un lettore può domandarsi se è meritevole di avere tra le mani un testo così ; ma la saggezza impone ancora maggiore umiltà : "alla grazia si deve rispondere con la gratitudine", per usare una frase del The Boston Globe.

Marilynne Robinson è perla rara nel panorama dell'attuale letteratura americana contemporanea. Ha saputo emanciparsi dagli stereotipi mentali e linguistici diffusi. E' giunta a quella libertà di non essere né conformista né anticonformista, ma di essere semplicemente se stessa al livello più alto.

"Gilead", titolo che allude al luogo d'ambientazione del romanzo, presenta la struttura di una lunga lettera-testamento che un Pastore d'Anime scrive al proprio bambino per quando sarà grande, perché lui ha ormai 76 anni ed è malato ; il figlio, appena sei.
La scrittura, bellissima, ha una delicatezza e una dolcezza, i cui riflessi possono richiamare alla mente la prosa di "Stoner" (di Williams).

E' un testo traboccante d'amore, senza enfasi alcuna, nel quale pensieri, ricordi, riferimenti a storie profondamente umane si alternano e si compenetrano in un fluire sereno e rasserenante. Vi compaiono le vicende del padre e del nonno ; grande rilievo hanno la giovane moglie e una famiglia amica, personaggi che saranno protagonisti degli altri due romanzi che compongono la trilogia.
L'amore paterno è una presenza costante; una forza e una tenerezza che confortano : "sono certo che diventerai e spero tu sia un uomo eccellente, e se non lo sarai ti amerò senza riserve" ; "se mai ti chiederai che cosa hai fatto nella vita (...), ebbene, sei stato la grazia di Dio per me, un miracolo (...). Se solo riuscissi a trovare le parole per dirtelo".

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