Il figlio Il figlio

Il figlio

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Il figlio ripercorre centocinquant'anni di storia, dai raid dei Comanche nell'Ottocento al boom petrolifero del ventesimo secolo, attraverso le vicende della famiglia McCollough. Tre generazioni, tre personaggi intrecciano le loro voci in una narrazione che è al contempo affresco epico e ritratto intimo: Eli, "il colonnello", né indiano né bianco, che scoprirà di non appartenere ad altri che a se stesso; Peter, colto e riflessivo, che nelle pagine del suo diario fa i conti con il passato violento del padre; e infine Jeannie, nipote di Peter, figura straordinaria di donna sola e fortissima. Grazie a lei i McCollough conosceranno la ricchezza e il potere, ma anche lo spettro terrorizzante della fine.



Recensione della Redazione QLibri

 
Il figlio 2014-03-21 18:53:59 annamariabalzano43
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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    21 Marzo, 2014
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Il figlio di Philipp Meyer

Che l’intellettuale americano abbia sempre sentito l’esigenza di consolidare le origini e le radici della giovane nazione che gli ha dato i natali è cosa nota. Basti pensare al disagio più o meno evidente in autori come Henry James, nato a New York e morto a Londra, o T.S.Eliot nato a S.Louis e morto anche lui a Londra, che elessero l’Europa e l’Inghilterra, in particolare, a patria culturale di riferimento.
Il romanzo di Philipp Meyer, “Il figlio”, persegue l’obiettivo di ripercorrere la storia dell’America nelle sue tappe più significative, attraverso l’epopea di una grande famiglia di cui si seguono le vicende dalla metà dell’ottocento ai giorni nostri giorni.
L’autore si serve di tre diverse tecniche narrative: il racconto in prima persona dove narratore e protagonista coincidono come nel caso di Eli, che può essere considerato il vero effettivo capostipite della famiglia, il racconto in forma diaristica che ha diversi precedenti nella tradizione americana, ma che richiama il più popolare classico inglese Robinson Crousoe di Defoe nel caso di Peter, e la narrazione in terza persona, relativa al personaggio di Jeanne Anne, tentativo quest’ultimo di esposizione obiettiva e imparziale dei fatti.
Un romanzo avvincente che tradisce una profonda voglia di storia, che dia dignità all’uomo e all’intellettuale americano, anche se dai fatti troppo spesso traspaiono ombre ed eventi poco edificanti.
La tematica affrontata in questo romanzo non è certamente nuova, basti pensare all’opera di Thomas Berger, più nota per la trasposizione cinematografica di Athur Penn “Il piccolo grande uomo” o al film “Il gigante” diretto da George Stevens, o ancora a “Balla coi lupi” di Kevin Kostner tratto dal romanzo di Michael Blake. Tutte storie ambientate nel Texas.
Il personaggio che assume maggiore spessore è senz’altro Eli, che dopo aver visto sua madre, sua sorella e suo fratello trucidati dagli indiani, viene da questi rapito e portato nei loro accampamenti dove trascorrerà alcuni anni. La vita a contatto con una natura aspra e ostile, a fianco di uomini il cui comportamento spietato risponde quasi sempre a una logica e a una morale primitiva, ma non priva di senso né di lealtà, rende Eli un giovane ardito e pone le basi per l’uomo senza scrupoli che sarà.
Attraverso il suo racconto seguiamo parte della storia del Texas, dalla lotta contro i pellerossa, a quella contro i messicani, dalla guerra di secessione all’esproprio dei territori per lo sfruttamento dei pozzi petroliferi. Una storia dura, che mostra l’altra faccia dell’american dream e che spiega la nascita delle grandi ricchezze e dei centri di potere.
Il diario di Peter, uno dei discendenti di Eli, che si trova ormai a essere parte di una famiglia diventata potente, mostra, al contrario, il disagio di chi non sente di condividere scelte prive di scrupoli che spesso inducono all’omicidio e all’odio razziale. Peter è il discendente considerato debole, in una società in cui consapevolezza e coscienza sono sinonimi di fragilità. Ma la sua fragilità si trasformerà in coraggio nel momento in cui avrà la forza di abbandonare una famiglia nei cui valori non si riconosce e di rinunciare alla ricchezza, per vivere con la donna messicana, la cui famiglia aveva contribuito lui stesso a sterminare.
Il personaggio di Jeannie, descritto da un’anonima voce narrante esterna alla storia, è interessante per l’evidente conflitto interiore che la anima: da una parte il desiderio di emancipazione e di parità di genere, dall’altra l’istintiva propensione verso un ruolo femminile tradizionale . Ella vive traumaticamente il suo passaggio dalla condizione di “mater familias” a quella di manager. Tutta la sua vita è condizionata dalle sue scelte, anche l’amore, il sesso e il rapporto con i figli.
Un romanzo, questo di Meyer, molto ben articolato, il cui titolo, “Il figlio”, al di là di un riferimento specifico a questo o a quel personaggio diviene la metafora dell’uomo americano nei suoi molteplici aspetti: egli può essere audace e coraggioso, prepotente e violento come Eli, sensibile come Peter, desideroso di emancipazione e tradizione come Jeannie.

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Il figlio 2015-06-26 13:03:53 Anna_Reads
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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    26 Giugno, 2015
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Il Vecchio, il Giusto e l'Esclusa

Il Figlio – Philipp Meyer – 2013

«Pete, sapessi quante cose avrei voluto salvare: gli indiani, i bisonti, le praterie dove allungavi lo sguardo per venti miglia senza incontrare uno steccato. Ma ormai sono cose superate.»

SPOILER

Lettura iniziata impulsivamente dopo la recensione atomica di un amico; devo dire non solo di non essere delusa, ma, anzi, di aver cercato altro di questo autore, quasi mio coetaneo.
La storia è di quelle che piacciono a me. Molto evocativa e molto “show don’t tell”.
Viene narrata attraverso la voce di tre personaggi appartenenti alla stessa famiglia, quella dei McCullough ed è ambientata in Texas.
Le tre voci sono quelle di Eli/Tiehteti McCullough, nato nel 1836, suo figlio Peter (nato nel 1870) e della sua bisnipote Jeanne Anne (detta Jeannie), nata nel 1926.

Eli, ragazzino che diverrà centenario, assiste all’assalto degli indiani Comanche della sua casa, allo stupro e all’uccisione della madre e della sorella e poco dopo a quella del fratello Martin (a causa della sua mancanza di volontà di adattamento alla vita della tribù che li aveva rapiti).
Eli invece si adatta. Con fatica e sofferenza all’inizio, ma con crescente senso di ammirazione ed infine di appartenenza. Osserva ed assorbe la filosofia dei Comanche e contemporaneamente ne scorge gli elementi che ne porteranno la rovina. È prima un ragazzo, poi un uomo che vorrebbe salvare tutto, ma non salverà niente, se non sé stesso e la sua indipendenza.
La grandezza di questo personaggio (che sarà anche quella della bisnipote Jeannie) è quella di avere uno sguardo “oltre”.
Oltre le contingenze e oltre la vita, anche.
Eli sa di essere un ospite negli abbacinanti paesaggi texani.
Sa di essere di passaggio fra i bianchi, fra i Comanche, di nuovo fra i bianchi, fra i coloni, fra i cacciatori, fra gli allevatori e persino fra i petrolieri.
Forse, come Jeannie, sa anche di essere solo, in fondo.
Ma sa anche che a stare soli si muore.
«Aveva ragione Toshaway: dovevi amare gli altri più di quanto amavi il tuo corpo, se no finivi distrutto, dall’interno o dall’esterno, non c’era differenza. Potevi massacrare, saccheggiare, ma finché lo facevi per le persone che amavi non contava. I Comanche non avevano mai secondi fini – non c’era niente di quello che facevano che non fosse per proteggere gli amici, la famiglia, la banda. Il morbo della guerra affliggeva solo l’uomo bianco, che combatteva negli eserciti, lontano da casa, per gente che non conosceva, e c’è un mito a proposito dell’Ovest, dicono che venne fondato e governato da uomini solitari, ma la verità è un’altra: il solitario è un malato di mente, e come tale era visto, e trattato con sospetto. Non campavi a lungo senza qualcuno che ti guardava le spalle, ed erano davvero pochi, sia fra i bianchi sia fra gli indiani, quelli che vedevano uno sconosciuto di notte e non lo invitavano davanti al fuoco.»
Come dirà molto felicemente proprio il figlio Peter, Eli è un uomo che non ha mai una scelta.
È così immerso nel fluire della vita e delle cose che non ha mai scelta, se non nell’assecondare quanto accade. Senza opporre un’inutile resistenza, ma anche senza raccontarsi storie.
Sa benissimo che, prima o poi, questo fluire che ha travolto prima gli Indiani e poi i Messicani travolgerà anche la sua famiglia:
« Fatto sta che è successo. È così che i Garcia hanno avuto la terra, spazzando via gli indiani, e così dovevamo averla noi. E così un giorno ce la toglieranno. E ti invito a non dimenticartelo.»
È un personaggi quasi ferino nella sua asciuttezza e lucidità. Ma non è mai crudele. Quello lo si può essere solo per scelta.
E questo lo fa ricordare.

Profondamente diverso dal padre, è Peter.
Come lo zio Martin, ucciso dagli indiani poco dopo il rapimento, anche Peter incarna una tipologia di uomo molto diversa da quella di Eli.
Amante dei libri, della lettura, profondamente giusto e retto, Peter è un personaggio che cerca sempre di scegliere il bene e non si adatta mai.
È quello con cui si dovrebbe empatizzare perché incarna la giustizia, la razionalità e la riflessione. È l’uomo perennemente fuori dal coro, l’unico che vede le cose come stanno e che cerca di opporsi.
Senza riuscirci mai.
Profondamente segnato da un episodio (l’uccisione e relativo saccheggio della tenuta della famiglia Garcia, vicini da generazioni, stimati e considerati fino a pochissimo tempo prima) a cui è costretto a prendere parte, per pagine e pagine è l’unico a manifestare memoria e compassione. A ricordare i morti e lo squallore dei vivi.
Il fallimento di Peter (di cui non spiego la natura e la modalità per non spoilerare troppo) è una presa di coscienza molto dolorosa, una piccola frase scritta nel suo diario, attraverso il quale viene narrata la sua vicenda.
« Bisogna impedire a questa famiglia di continuare.»
Quasi un’ineludibilità del male che porta con sé l’atto stesso di sopravvivere.

Terzo e ultimo personaggio e, per certi versi il più innovativo e “fresco”, è Jeanne Anne McCullough; sicuramente del ceppo del bisnonno Eli, piuttosto che di quello del nonno Peter, fin da bambina è un’eterna fuori sintonia; una per cui non c’è posto.
Annoiata dalle femmine e rifiutata dai maschi, impara, proprio dal bisnonno lo “sguardo oltre”.
La incontriamo anziana, in una situazione molto particolare (non spoilero) e ripercorriamo la sua vita e la sua sostanziale solitudine. Molto precocemente la nonna paterna (Sally, l’odiata moglie di Peter) la mette di fronte alla scelta che ogni donna di quel tempo (?) doveva fare:
« Sua nonna posò coltello e forchetta, li sistemò con cura e lisciò la tovaglia, prese un sorso di sherry. – L’ho sempre saputo che mi trovi noiosa, – disse. – Pensi che io sia così per natura, per indole, o probabilmente non ci hai nemmeno pensato. Ma quando ho deciso di trasferirmi qui, ho scoperto che potevo scegliere se essere benvoluta oppure avere voce in capitolo. La stessa scelta che dovrai fare tu. Sarai amata ma non ti rispetteranno, oppure ti rispetteranno ma non sarai amata.
– Le cose stanno cambiando.
– È un’impressione, ma finita la guerra gli uomini torneranno, e tutto riprenderà come prima.
– Vedremo, – ripeté lei.
– Questo posto, – disse la nonna. Agitò la mano, insofferente non solo a Jeannie ma a tutto: la casa, la terra, il loro buon nome. – Appartengo alla famiglia più ricca di quattro contee, eppure quando vado a votare mi guardano storto.»
Jeannie è un Eli nata 90 anni dopo e, per somma disgrazia, pure femmina.
Come il bisnonno condannata alla sostanziale solitudine non perde occasione per demolire i grandi miti dell’educazione femminile (maternità, famiglia, matrimonio, religione) con quella che definisce la sua più grande dote: «vedere la realtà senza raccontarsi storie.»
E sarà che è una dote che ammiro, anche lei si è fatta volere bene.
Per lo stesso motivo, dal momento che anche Meyer sembra avere la stessa caratteristica, il
romanzo è potente e scorre senza noia attraverso pagine, paesaggi e situazioni spesso indimenticabili.
Su tutte, giusto per un assaggio, io consiglio il capitolo XXVIII, l’epidemia di vaiolo nell’accampamento dei Comanche (racconta Eli).
Da leggere (tutto, obviously).

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McCarthy
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Il figlio 2014-10-01 12:58:47 Donnie*Darko
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Donnie*Darko Opinione inserita da Donnie*Darko    01 Ottobre, 2014
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Petrolio e scalpi

Texas occidentale, regno incontaminato cui l'uomo comincia ad interessarsi intorno ai primi del 1800. Ne "Il figlio" si racconta proprio il periodo che va da questo momento, collimante con l'inizio della brutale conquista della frontiera, sino a raggiungere quasi i giorni nostri.
L'epopea è quella della famiglia McCullough; da semplici pionieri ad allevatori, quindi petrolieri capaci di domare (in parte) la selvaticità di quei territori generosi ma anche aspri e pericolosi, di conviverci e trarne massimo profitto sino a costruire un vero e proprio impero economico. Meyer tratteggia un parallelo tanto semplice quanto sacrosanto: il raggiungimento del potere e del benessere spesso fa tappa presso la prevaricazione e la violenza. L'autore inquadra lo stato embrionale del capitalismo sfrenato sino a raggiungerne l'apice attraversando di gran carriera duecento anni di storia americana, in cui vengono gettate le basi non solo di una famiglia, bensì di un paese che sul sopruso ha fondato la propria ragion d'essere. Secondo Meyer ciò è connaturato, ogni impero ha agito in tal modo: è un passaggio basilare dettato dalla stessa essenza umana. I nativi americani in guerra tra loro, poi derubati delle loro terre dai messicani a loro volta schiacciati dai bianchi. Un'equazione naturale alla quale è impossibile sottrarsi. Non ci sono contratti scritti nè strette di mano, solo scalpi e massacri, omicidi, stupri e ruberie, ogni firma è apposta col sangue.
Meyer scrive molto bene, ha un afflato epico che possono vantare pochi scrittori moderni, non ha il dono dell'abbreviazione ma raramente stufa.
Tre i personaggi in gioco a cavallo di epoche diverse. Si va dalla conquista della frontiera alla guerra civile americana, continuando con la scoperta del petrolio, per poi imbattersi nell'orrore della prima guerra mondiale, quindi l'avvento prepotente dell'oro nero e la scoperta dei pozzi in Medio oriente, sino all'invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein.
C'è il patriarca Eli, soprannominato il Colonnello. Rapito poco più che bambino e costretto a vivere per anni con i comanche dopo aver assistito al massacro della sua famiglia. Incarna gli spiriti dominanti di quelle terre, è belluino ed arrivista, forgiato da esperienze di vita impossibili da dimenticare che uniscono l'uomo "civile" agli istinti più primitivi. I capitoli a lui dedicati sino indiscutibilmente i migliori, i più appassionati e in linea con certa narrativa avventurosa consacrata al vecchio West.
Abbiamo poi Peter, figlio del Colonnello. I suoi pensieri impressi sul diario personale. Un uomo mite, privo di carattere e quindi in eterno conflitto con il padre e il selvaggio mondo circiostante. Nel suo cuore la macchia di un tremendo delitto ed il bisogno di espiare che dura tutta la vita.
Quindi Jeanne Anne (la figura meno interessante e più monocorde), la sua vita scorre nel ricordo mentre ormai anziana si ritrova morente distesa sul pavimento. Amori, affari, figli, per una donna che è voce fuori dal coro e mai convenzionale per l'epoca, una ribelle per farla breve.
A tratti si rischia un po' di scadere in dinamiche da soap opera ma il ritratto d'insieme funziona alla grande, la storia dei McCullough si affianca a quello di una nazione (allora) in crescita instancabile dove è bene mettere a tacere la proprie coscienze.

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Il figlio 2014-07-31 16:45:45 Pelizzari
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Pelizzari Opinione inserita da Pelizzari    31 Luglio, 2014
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Cavalli e scalpi

Saga familiare che si snoda attraverso l’ultimo secolo di storia americana e che ci viene raccontata attraverso i tre punti di vista di personaggi peculiari della famiglia McCullough. Famiglia di pionieri prima, di allevatori poi e di petrolieri ora. Ambientata nel Texas, in atmosfere western di un secolo fa, di decenni fa e di qualche anno fa. Pagine intrise di elementi tipicamente americani, come ad esempio cavalli, indiani, scalpi, archi, frecce, comanche, praterie. Però la cosa che ti rimane più impressa è il racconto della violenza dei diavoli rossi e dei messicani. E’ un libro secco, che non ho amato tanto, proprio per il contenuto troppo violento. C’è solo tanta morte e tanto sangue, fini però a se stessi. Mi è piaciuta la scelta dei tre punti di vista dei racconti e mi è piaciuto il personaggio femminile più dei giorni nostri, perché lei vive per dare vita a qualcosa a partire dal nulla. Sono in piena controtendenza, ma sono gli unici aspetti per cui vale la pena di leggerlo.

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Il figlio 2014-04-16 15:47:38 bucintoro
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bucintoro Opinione inserita da bucintoro    16 Aprile, 2014
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Da leggere

considero questo libro molto interessante. ripercorre una buona parte della storia del Texas , dai conflitti con i pellerossa per seguire con i messicani, per poi arrivare agli espropri delle terre, un volta "scoperto" il petrolio. vi sono molti personaggi legati dalla stessa famiglia ,nonni ,madri, figli ,nipoti...nel lasso di tempo di circa un secolo. uno dei personaggi più importanti è senz'altro Eli, un uomo che da piccolo è stato rapito dagli indiani e ha visto morire in modo atroce madre , sorella e fratello. molto bella la descrizione della sua vita con i pellerossa, descrivendo usi e costumi a volte molto crudi, per il nostro ben pensare, ma non privi di regole, rispetto e amore verso la natura.

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