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L'amica geniale
 
L'amica geniale 2015-05-08 17:32:36 giuse 1754
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giuse 1754 Opinione inserita da giuse 1754    08 Mag, 2015
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L'amica geniale, diventare grandi nella Napoli deg

L’amicizia non è fatta solo di intese, di affetto, di condivisione. È un sentimento complesso, dove trovano posto anche piccole invidie, antagonismi, la necessità di definire la propria identità attraverso la sensazione della propria superiorità o, al contrario, l’amarezza per una sconfitta; anche confrontandosi con le persone che scegliamo per amici, si cresce, si diventa donne, uomini.
Di questo racconta Elena Ferrante ne “L’amica geniale”, dell’amicizia forte e conflittuale tra Lila ed Elena (Lenù), la voce narrante. Le due ragazze si trovano a vivere in uno dei quartieri degradati della Napoli degli anni ’50, dove vige la legge della giungla, quella del più forte o del più ricco. Lina e Lenù decidono che diventeranno ricche scrivendo un libro e affrontano il progetto con grinta e determinazione, studiando e leggendo. Lila lo fa senza alcuno sforzo, la sua intelligenza pronta e intuitiva le permette di stare al passo dell’amica, anzi di esserle superiore, anche quando smetterà di andare a scuola, subito dopo le elementari; Elena con l’applicazione costante.
Intanto crescono, e la trasgressiva creatività di Lila la porterà a compiere una scelta diversa da quella di Lenù. Abbandona i libri per sposare appena diciassettenne un commerciante di qualche anno più vecchio di lei. A quel punto l’amica rivolge le sue attenzioni a Nino, che con la famiglia si è allontanato anni prima dal quartiere e che frequenta l’ultimo anno di liceo. Nino, impegnato socialmente, intellettuale, comincia a essere la pietra di paragone per la crescita professionale e umana di Lenù. Al matrimonio dell’amica sente di far parte della varia umanità del rione, tutta ben rappresentata, “la plebe” come l’aveva definita la maestra Oliviero. “La plebe eravamo noi. La plebe era quel contendersi il cibo insieme al vino, quel litigare per chi veniva servito per primo e meglio, quel pavimento lurido su cui passavano e ripassavano i camerieri, quei brindisi sempre più volgari.” Ma Lenù sente anche di essere diversa: la cultura, i libri, l’hanno cambiata per sempre.
Sta proprio in queste insicurezze adolescenziali, nella continua ricerca della propria identità e del proprio destino, nella solitudine di una situazione intermedia, il sentirsi né carne né pesce, la bellezza del libro. Elena Ferrante mi ha conquistata anche con la sua scrittura fluida e piena, apparentemente mutuata dal parlato, esattamente come fa Lila nella lettera che invia a Lenù, in vacanza a Ischia: “…non lasciava traccia di innaturalezza, non si sentiva l’artificio della parola scritta. Leggevo e intanto vedevo, sentivo lei”. Sul finale l’autrice lascia in sospeso la questione di un paio di scarpe, che rivestono un ruolo importante nella storia. Magari riuscirò a leggere anche il resto della quadrilogia prima che con l’ultimo romanzo vinca lo Strega, sperando che intanto qualcuno scopra l’identità di questa misteriosissima scrittrice che si firma con uno pseudonimo. Qualcuno ha sospettato che si tratti della di Anita Raja, moglie di Domenico Starnone, o di Starnone stesso. Io non so; sono quasi certa, però, che si tratti di una donna, legata a Napoli, sui sessanta, e per il momento mi sentirei di escludere la Laurito.

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02 Marzo, 2022
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Devo fornire un commento controcorrente. La Ferrante presenta una Napoli che, in un arco temporale pluridecennale, è ricca dei soliti stereotipi attribuitegli. Camorristi, delinquenti, poveracci, arrivista, smaniosi di ricchezza fine a sé stessa, ecc. ecc.. Per l'autrice non c'è un solo napoletano che si riscatti da una condizione conforme ad un rione povero privo di tutto. È mai possibile che nessuno, proprio nessuno riesce ad avere, perseguire, raggiungere obiettivi di riscatto sociale, sentimentale, economico. Lila che non vuole avere nulla a che fare con la delinquenza finisce invece nelle sue grinfie per bramosia di denaro (quando accetta la proposta di Solara lavora alla IBM e quindi non più in stato di bisogno), Lenù che è capace di vivere solo la vita altrui o che altri vogliono per lei. Pasquale e Nadia finiscono con l'apparire aderenti ad un gruppo di terroristi. I Solara non ne parliamo. Stefano Carracci che vive solo allo scopo di fare soldi. Si potrebbe continuare per tutti. È mai possibile che per la Ferrante non esista un napoletano onesto, di sani principi, capace di riscattarsi da una condizione socio-economica che non si è scelto? Sarà pure un capolavoro letterario ma questa visione solo negativa di Napoli e dei suoi abitanti dewualifica il lavoro dell'autrice.
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