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I fratelli Ashkenazi
 
I fratelli Ashkenazi 2017-06-17 14:30:58 catcarlo
Voto medio 
 
4.0
Stile 
 
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Contenuto 
 
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Piacevolezza 
 
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catcarlo Opinione inserita da catcarlo    17 Giugno, 2017
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Una parabola borghese

Molti sono gli argomenti che si intrecciano nel lento fluire di questo vasto romanzo, tanto che in conclusione non si sa da dove cominciare per un riordino delle intense emozioni che il testo sa generare. Il fratello del premio Nobel Isaac racconta con estrema energia e una chiara visione d’insieme un secolo nella storia di Lodz, dalla trasformazione da borgo rurale in operosa città grazie allo sviluppo dell’industria tessile nella prima metà dell’Ottocento fino alla decadenza completatasi nel primo dopoguerra percorso da spettri che si materializzeranno di lì a poco. Dai telai a mano alle grandi fabbriche: due comunità immigrate, quella tedesca, ma soprattutto quella ebrea sono alla base di una simile fioritura, peraltro basata sullo sfruttamento feroce di una manodopera che solo con lentezza e dopo molti lutti riesce a far valere i propri diritti, almeno in parte, sulla spinta delle idee socialiste. A simboleggiare la parabola di una borghesia rampante, ma la cui carica è di breve durata stanno i fratelli del titolo, gemelli diversissimi figli di un pio studioso delle sacre scritture, ma pronti a dimenticarne gli insegnamenti per gettarsi nel nuovo secolo giungendo fino a cambiarsi di nome. Simcha Meyer (poi Max) si deve sudare il successo e per raggiungerlo non si fa scrupoli di sorta, tra matrimoni di convenienza per non parlare dei divorzi (le vessazioni alla prima moglie sono di efferata cattiveria) e pratiche commerciali poco corrette, mentre a Jacob Bunim (Yakub) le fortune e l’amore cadono in grembo quasi non cercate in una vita da gaudente. Da qui il sentimento livoroso del primo per il secondo che però non esiterà a rischiare in proprio per recuperare il fratello travolto dalla rivoluzione sovietica,:ultima evoluzione delle dinamiche di famiglia che sono descritte con altrettanta abilità di quelle sociali, ben restituendo la veloce mutazione dei rapporti interpersonali che si concretizza nel giro di un paio di generazioni (chissà che avrebbe pensato il vecchio Rev Abraham apprendendo che uno dei suoi rampolli sarebbe convolato a nozze in un turbine di passione con la figlia dell’altro…). Singer non si limita a seguire le vicende degli Ashkenazi e delle altre famiglie che si sono arricchite: la sua attenzione è rivolta con pari interesse alle masse operaie sfruttate, fra le quali spiccano figure dedite alla causa fino allo stremo delle energie con una (forza della) disperazione che solo a tratti lascia spazio a una comicità amara. Del resto, il tocco sorridente che alleggerisce un buon numero dei capitoli iniziali, in special modo quando l’autore rievoca gli usi polverosi che contraddistinguono le relazioni familiari e personali nel giudaismo chassidico, si va via via spegnendo non solo per l’accresciuta tragicità dei comportamenti dei singoli, ma anche per l’avvelenarsi di un ambiente che peggiora con il passare del tempo. A dispetto (e in certa maniera a cagione) del successo e del tentativo di integrazione, gli ebrei diventano vittime di un antisemitismo che rialza la testa nei momenti di difficoltà: ogni volta che la quotidianità si inceppa scatta il pogrom istigato soprattutto dalla parte polacca della popolazione, tanto che il rigido e detestabile dominio tedesco sulla città nella prima guerra mondiale risulta per la comunità israelitica meno doloroso dell’avvento della Seconda Repubblica in Polonia

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