Auto da fé Auto da fé

Auto da fé

Letteratura straniera

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Da una parte un grande studioso, Kien, che disprezza i professori, ritiene superflui i contatti con il mondo e ama in fondo una cosa sola: i libri. Dall'altra la sua governante, Therese, che raccoglie in sé le più raffinate essenze della meschinità umana. Il romanzo racconta l'incrociarsi di queste due remote traiettorie e ciò che ne consegue: la minuziosa, feroce vendetta della vita su Kien, che aveva voluto eluderla con la stessa accuratezza con cui analizzava un testo antico.



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Auto da fé 2021-05-11 14:44:43 siti
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siti Opinione inserita da siti    11 Mag, 2021
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Dissoluzione dell' Io

La tripartizione del romanzo – “Una testa senza mondo”, “Un mondo senza testa” e”Il mondo nella testa”- è già una chiave di lettura, chiara, del contenuto di questo corposo romanzo, il primo lavoro di Canetti, in assoluto e anche il suo unico romanzo. Lo è perché contiene il riferimento ai due poli che entrano in collisione per tutta la durata della narrazione: la realtà e la rappresentazione della stessa. Una è data dall’elemento tangibile, qui chiamato il mondo, l’altra è l’insieme dei pensieri – la testa- , anche essi reali, si badi bene, che interpretano la realtà, per poi trasformarla a tal punto da farla precipitare nel piano dell’irrealtà. La fabula inoltre è racchiusa intorno alla dispercezione del personaggio principale, Kent, l’uomo dei libri, che , come una forza centripeta, in un disperato mulinello trascina tutti gli altri personaggi. Non sono tanti in verità, se non nella rappresentazione contenuta nella seconda parte, la meno fluida.

Si tratta, in poche parole, dell’esistenza di un sinologo che possiede una dotazione libraria invidiabile, avendo investito in essa la gran parte del lascito testamentario paterno. Lo incontriamo nell’unico momento della sua vita in cui si approccia gradevolmente e con cognizione di causa a un ragazzetto che lo intenerisce per la sua passione verso i libri a tal punto da invitarlo, abita nel suo stesso palazzo, a visitare la sua biblioteca. L’unico momento di relazione vera e genuina per le restanti cinquecento e passa pagine, perché una volta accompagnatolo sull’uscio del suo appartamento e aver varcato insieme a lui quella porta, non ci resta altro che assistere alla rappresentazione della sua follia. Gradualmente però, perché per una porzione di testo abbondante il lettore sarà completamente rapito da un semplicissimo meccanismo di immedesimazione che Canetti mette in atto con destrezza per poi farci prendere le dovute distanze dal caso patologico. La presentazione del protagonista è infatti quanto di più gradito possa leggere un lettore, uno come noi, che vive per ritagliarsi lo spazio vitale da dedicare alla lettura, che spende i suoi soldi per acquistare i libri e che smania per leggerli tutti, ben sapendo che una sola vita non gli basterà. Lo stesso lettore che qualche volta si sarà soffermato a pensare quanto l’atto egoistico del leggere lo estrometta dal consorzio umano, anche semplicemente nello spazio e nel tempo tutto ascritto alla famiglia. Terminata però questa prima parte che crea anche un interessante sviluppo narrativo - il protagonista si sposa - si apre una seconda parte in cui la rappresentazione del caos pare essere il tratto distintivo. Ho faticato parecchio a leggerla e non ho più ritrovato quella piacevolezza che lievemente era stata destata dalla prima parte. Tutto è diventato cupo, l’involuzione del personaggio senza speranza alcuna, il mondo che poi gli gravitava attorno sempre più complesso. Solo quando il povero Kien è tornato a domicilio, dopo una serie di surreali peripezie, ho potuto nuovamente godere della narrazione e gustarmi il finale, naturalmente anche esso frutto dell’ennesima ossessione. Sicuramente il romanzo si imprimerà nella mia memoria di lettore per la caratterizzazione straniante dei personaggi, per le loro ossessioni, per il loro agire in conseguenza di un’errata rappresentazione della realtà. Kent tra il possesso compulsivo dei libri e la sua incapacità di relazionarsi con chicchessia, la moglie dalla gonna blu a baluardo di una verginità che vorrebbe concedergli senza che le sia pretesa e la sua deriva compulsiva verso il possesso del denaro, infine il violento ex poliziotto ora guardiano di portineria e il suo spioncino verso l’esterno. Un romanzo ricco, corposo, a tratti pesante e prolisso a cui è difficile però dare un giudizio negativo.

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Auto da fé 2021-01-26 11:32:57 anna rosa di giovanni
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anna rosa di giovanni Opinione inserita da anna rosa di giovanni    26 Gennaio, 2021
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Trionfo della follia

AUTO DA Fè, di ELIAS CANETTI.

E’ L’UNICO ROMANZO SCRITTO DA CANETTI, essendo questi fondamentalmente un pensatore, peraltro estremamente eclettico, che studiò molteplici ambiti - dalla chimica alle religioni agli insetti -, alla ricerca costante, se non ossessiva, di ciò che egli chiama “massa”, di cui tratta nella sua opera principale: Massa e potere (1960). Ora, nella postfazione contenuta nell’edizione Adelphi di Auto da fé nonché in uno degli ultimi capitoli del romanzo stesso (p. 447), per “massa” lui intende - mi è sembrato di capire - la parte primigenia della specie (animale) umana, che emerge per esempio nelle situazioni rivoluzionarie. E lui Canetti ne visse una a Vienna da giovane, nel 1927, che lo marcò in modo determinante, come sempre spiega nella postfazione: l’insurrezione operaia, repressa nel sangue, nel corso della quale venne incendiato il Palazzo di Giustizia e a cui lui partecipò: “la massa mi assorbì in sé completamente, non avvertivo in me la benché minima resistenza contro ciò che la massa faceva”. Ora, il romanzo di Canetti, di famiglia ebraica oltre che socialista, esce nel ‘35, cioè due anni dopo i roghi di libri (Bücherverbrennungen) del ‘33 da parte dei nazisti in Germania (e l’auto da fé del titolo è il rogo di libri nel quale il suo protagonista si lascia uccidere dalle fiamme) e tre anni prima dell’annessione dell’Austria al Reich (marzo ‘38). Insomma, prima di leggere il romanzo mi aspettavo che ci potesse essere qualche allusione al nazismo, e invece no.

QUAL È LA TRAMA DI QUESTO ROMANZO MAGMATICO? Essa consiste essenzialmente nel susseguirsi degli equivoci che portano il sinologo Peter Kien prima a sposarsi con una megera e infine, dopo una serie di situazioni "cocasses", a dare fuoco a sé e ai suoi libri. Attenzione però! Questo finale non rappresenta la sconfitta della cultura o dello spirito in un mondo dominato dall'egoismo, perché fin dalle primissime pagine Canetti mostra bene come l'eruditissimo Peter Kien sia, rispetto alla realtà, del tutto incapace di interpretarla correttamente, e pure ingeneroso (vedi la scena iniziale col bambino). Ora Canetti dice nella postfazione di essere interessato alla follia, che - sempre se non ho capito male - è l’emersione della “massa”, cioè di quella parte dell’uomo che non si è liquefatta nella civilizzazione e che rende l’individuo unico, sottraendolo all’omologazione. Il suo progetto iniziale d'altra parte - scrive nel capitolo che segue il romanzo nell'edizione Adelphi- era di scrivere una “Commedia umana dei pazzi” (con riferimento alla Commedia umana di Balzac, che a sua volta si contrappone alla Divina Commedia di Dante). Ed effettivamente nel suo universo la follia trionfa perché tutti i personaggi sono dominati da un’idea fissa, la quale è la sola lente attraverso la quale essi leggono la realtà (spesso sembra già il mondo di certe farneticazioni social ...), perché in quest’universo non c’è spazio per alcun sentimento di bontà - e anche questo tradisce la realtà, credo - e perché, infine, la misoginia di Canetti va al di là di qualunque ragionevolezza (vedi soprattutto il dialogo tra il protagonista e suo fratello Georg lo psichiatra). Un personaggio "positivo" nella misura in cui è "normale" (non farnetica e interpreta per lo più correttamente i fatti e le intenzioni degli altri) nel romanzo c'è, ed è appunto lo psichiatra Georg Kien, il fratello di Peter, che è affascinato dalla follia dei suoi pazienti e che nonostante tutta la sua sagacia non riesce a prevedere e prevenire la decisione finale del fratello.

QUAL È IL SENSO DEL ROMANZO? Tenuto conto di come vi è rappresentata l'umanità e tenuto conto del finale, non riesco a interpretarlo che come l'espressione di un tragico “cupio dissolvi”, di un diluvio universale che spazzi via l'umanità e forse la purifichi col fuoco. Neanche Balzac aveva dipinto l’umanità con tinte più fosche, giacché nella sua rappresentazione del mondo c'è ancora spazio per l'idealismo e persino per l'ingenuità. Per come Canetti rappresenta gli uomini - avidi brutali di assoluta malafede del tutto incapaci di senso morale, ma anche e soprattutto incapaci di capire le intenzioni degli altri, stupidi insomma - a me sembra che lo scrittore più vicino a lui sia il contemporaneo Céline, il cui Voyage au bout de la nuit è del 1932. Quanto allo stile, Canetti come Céline fa scomparire l’autore dietro il personaggio: il lettore non conosce tanto i fatti, quanto la percezione, regolarmente distorta come dicevo più sopra, che ne hanno i personaggi. Per quanto riguarda la lingua, però, Canetti è più trasgressivo di Céline (che “trascrive” i pensieri del suo Bardamu così come essi affiorano nella mente), più influenzato dal gusto surrealista Dada e dal teatro dell’assurdo, che destrutturano i personaggi e il linguaggio, non perseguendo più innanzitutto la verosimiglianza. Insomma i personaggi di Canetti sono grotteschi come quelli del suo amico pittore Grosz o come quelli di Ionesco e di Beckett.

Quanto al sentire del lettore, per quanto il romanzo sia eccessivo, ridondante, feroce, volutamente sgradevole, è molto difficile non riconoscere nei mostri di Canetti – Therese, il nano gobbo, il portinaio, lo studioso Kien ecc. - qualcosa di noi stessi, per cui questo romanzo, così come tutti i grandi classici, può essere altamente edificante per chiunque non abbia un pregiudizio positivo nei propri confronti.

Ci sono però delle cose che non mi spiego e su cui sarei grata che mi si desse qualche ragguaglio:
1. come mai Canetti non fa nessun cenno al nazismo? a meno di non voler considerare come denuncia indiretta della Germania nazista e in generale di molta Europa del Ventennio la sua rappresentazione così disperante dell’umanità (sorta di cupido dissolvi?), il che però è prenderla un po’ alla larga e poi comunque uno dei suoi mostri è il nano gobbo dal naso adunco ... che è ebreo! ;
2. in mezzo a tanti pazzi come si spiega la presenza di Georg lo psichiatra? C'è dunque spazio per la "normalità " nell'inferno di Canetti?

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Auto da fé 2018-06-28 06:09:28 kafka62
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    28 Giugno, 2018
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NEL LABIRINTO DELLA FOLLIA

“A questo punto il giaguaro di destra estrae una selce acuminata e la pianta nel cuore della vittima. Uno spigolo apre nel petto uno squarcio profondo. Kien chiude gli occhi inorridito. Pensa che il sangue sprizzi al cielo e biasima una simile barbarie medioevale. Aspetta fino a quando pensa che il sangue abbia cessato di scorrere e poi apre gli occhi. Orrore: dal petto squarciato salta fuori un libro, poi un secondo, un terzo, una moltitudine. Non accennano a finire, cadono per terra dove vengono avvolti da fiamme striscianti. Il sangue ha appiccato il fuoco al rogo, i libri bruciano. «Il petto!» grida Kien al prigioniero «chiuditi il petto!». Gesticola con le mani, così deve fare, ma presto, presto! Il prigioniero capisce; con un violento strattone si libera dei legami e si porta le mani al cuore; Kien respira sollevato.
Ma ecco, la vittima si allarga lo squarcio nel petto, libri su libri rotolano fuori. A dozzine, a centinaia, impossibile contarli; il fuoco lambisce la carta; ogni libro implora aiuto, grida stridule si levano da ogni parte. Kien protende le braccia verso i libri che bruciano… Kien lancia un urlo e si sveglia”

“Auto da fé” provoca fin dalle prime pagine un curioso effetto di identificazione. Il lettore di Canetti non può infatti fare a meno di rispecchiarsi istintivamente nel protagonista, il professor Kein, e nelle sue ossessioni: l’amore morboso per i libri, l’esaltazione solipsistica che dà l’erudizione, il disprezzo per la volgarità e le meschine occupazioni della gente, l’isolamento esclusivo nella torre d’avorio della cultura, la biblioteca come microcosmo perfetto e rifugio contro le irruzioni del mondo esterno. Tutto questo è presente in Kein in forma patologica e maniacale, ma è innegabile che, magari in piccolissima parte, in modo più o meno consapevole, appartenga anche al lettore più smaliziato. Chi ama la letteratura (o la musica, la filosofia, il cinema,…) è snobisticamente indotto ad anteporre l’arte alla vita, sebbene probabilmente solo per il breve lasso di tempo riservato alla lettura di un libro, all’ascolto di una sinfonia, alla visione di un film: in quei momenti, che faccia piacere o no, egli è Kein e tutto il resto, vale a dire quella porzione di realtà esterna da cui non è possibile evitare di farsi lambire e in maggior o minor grado coinvolgere, è incarnato dalla governante Therese. Il rapporto tra Kein e Therese diventa pertanto la metafora di un rapporto più complesso: quello dell’io del lettore (o più in generale del fruitore dell’opera d’arte) con la vita banale e prosaica di tutti i giorni che, con il ricorso sublime all’arte (di cui i libri di Kein sono un simbolo esemplare), ci si sforza di eludere.
Il fenomeno di identificazione del lettore in Kien, certo, non va oltre i primi capitoli, quelli in cui l’autore analizza in termini ancora prevalentemente realistici, sia pure connotati da un gusto sottilmente perverso e beffardamente sado-masochistico, la lotta senza esclusione di colpi tra i due sessi cui il ménage matrimoniale conduce, con il progressivo sacrificio dello spazio della biblioteca che la razionalità intellettuale deve subire di fronte alla rozza e prepotente avanzata dell’istinto ferino. Ma quando, in maniera inattesa, Kien viene cacciato di casa ed è costretto a rinunciare alla propria biblioteca, Canetti dimostra, oltre di non voler rinchiudere la propria narrazione entro il claustrofobico perimetro di un appartamento, anche di puntare a qualcosa di più di una satirica requisitoria contro il matrimonio o contro l’intellettualismo fine a se stesso, ampliando il suo discorso in una chiave eminentemente metaforica. “La cultura è un salvagente dell’individuo contro la massa che è in lui”, afferma lo scrittore austriaco. Ed è così che, gettato fuori dal suo mondo ovattato e rassicurante, Kien diventa il protagonista di una vera e propria discesa negli inferi della condizione umana, finendo in balia di una moltitudine di bizzarri e strampalati personaggi (veri e propri freaks di una Vienna rappresentata in maniera espressionisticamente inedita, quasi surreale), i quali sono la proiezione a un livello generale di quella parte selvaggia e belluina dell’io (la “bestia nell’uomo”) rappresentata, come si è visto, da Therese o dal portiere Pfaff. Essi danno vita a una sarabanda folle, frenetica, vertiginosa, in cui la logica deraglia miseramente e la caricatura, la burla, il riso iniziali sfuggono progressivamente ad ogni controllo e finiscono per strozzarsi in un muto grido di orrore. L’umanità di Canetti è popolata di piccoli imbroglioncelli, furfanti di mezza tacca, invalidi fasulli che vivono di accattonaggio, laidi vagabondi e impiegatucci senza un soldo in tasca, ruffiani e prostitute, tutti quanti affannati a garantirsi, l’uno in lotta contro l’altro, un illusorio spicchio di benessere nell’improba lotta per la sopravvivenza che è la loro vita. Questa è la fauna, stracciona, anarchica, opportunista e pusillanime, che popola la stramba “comédie humaine” canettiana e in cui si imbatte Kien quando finalmente esce nel mondo e, novello Don Chisciotte, intraprende, fidandosi ingenuamente della lealtà del suo Sancho Panza, ossia il nano Fischerle, la sua folle crociata per salvare i libri contro l’incuria e l’ignoranza con cui vengono usualmente trattati (e il Theresianum, il Monte dei Pegni, assume un po’ il ruolo – proseguendo nell’analogia cervantesca - dei mulini a vento dell’eroe spagnolo). Questa umanità viene ritratta con uno spassoso e colorito gusto caricaturale, ma dietro la superficie farsesca si cela un giudizio impietoso, ancorché alieno da ogni moralismo, per quelli che, a livello individuale, sono patetiche marionette sballottate dal destino, ma che, convertiti in folla, diventano una marea incontrollabile e impetuosa di pulsioni primitive e irrazionali, pronta a degenerare in men che non si dica nella violenza e nel caos (come infatti avviene nel capitolo “Il ladro”). “Auto da fé”, nonostante le apparenze di apologo fuori dal tempo e dalla storia, diventa perciò, visto in questa ottica, un clamoroso atto di accusa verso quella situazione sociale gravida di rivendicazioni deluse e di fanatismo, di populistica grettezza e di razzismo, che sfocerà di lì a poco nell’avvento del nazismo.
Uno dei tratti più caratteristici del romanzo di Canetti è il frequente, ancorché indiretto, ricorso che egli fa alla psicanalisi e alla psichiatria. Non è un caso, forse, che il fratello di Kien, Georg, sia un famoso alienista che dirige una clinica di malattie mentali. E a un manicomio fa spesso venire in mente questa pantomima tragicomica, in cui tutti i personaggi sono in preda alle ossessioni e alle manie più diverse: non solo i libri per Kein, il quale vive chiuso nel suo angusto universo mentale e che, quando esce per la strada, confronta tutto ciò che vede con quello che ha in precedenza letto e che ritiene sia il solo garante di verità ed autenticità (finendo inevitabilmente per essere depredato, truffato, malmenato e ridotto in schiavitù, pur conservando intatta la sua spocchiosa alterigia, incapace com’è di far tesoro delle esperienze che non derivino dalle asettiche pagine di un testo antico); ma anche i soldi per Therese, che tormenta il marito con il testamento, il costo della vita (“i prezzi aumentano di giorno in giorno, le patate costano già il doppio” è il suo tormentone preferito), le meschine aspirazioni a un benessere piccolo-borghese (a cui si affida autoconvincendosi di essere una donna giovane e piacente, grazie soprattutto alla ridicola gonna inamidata che esibisce davanti a tutti come un simbolo di magnificenza); i pugni per il portinaio, che si vanta di aver picchiato per anni la moglie e la figlia e si cruccia di non poter più menare le mani con nessuno; gli scacchi per il nano Fischerle, che sogna di riscattarsi e diventare famoso battendo il campione del mondo in una utopica America, destinata a svanire beffardamente proprio quando sembrava essere a portata di mano; e ancora le donne grasse per il mendicante cieco, le cravatte per l’ispettore di polizia dal naso piccolo, ecc. ecc. Le ossessioni reali dei protagonisti finiscono addirittura per sovrapporsi a quelle che, freudianamente, fuoriescono dal subconscio durante il sonno, generando per essi una curiosa confusione tra immaginazione e realtà: così Kien si convince che la moglie è morta di inedia nell’appartamento da lui lasciato, e confessa successivamente alla polizia tutti i dettagli (compresi quelli del funerale) che lui stesso ha costruito con la sua fantasia, credendoci poi come fatti incontestabili; e Fischerle, analogamente, crede di essere già il campione del mondo di scacchi, e non solo immagina la sua futura vita fatta di fama, onori e ricchezze, ma anche i suoi progetti e i suoi comportamenti pratici vengono influenzati da questa chimera, spacciata come cosa vera e incontrovertibile. Il risultato di questa commistione tra sonno e veglia è che l’intero romanzo assume la forma propria di un incubo. I personaggi si muovono infatti come sonnambuli, le leggi della realtà funzionano solo saltuariamente, e in scene come quella dell’interrogatorio, che sembra uscita da un racconto di Kafka, ognuno può agevolmente accusare tutti, sfidando qualsiasi verosimiglianza logica, e contemporaneamente sentirsi in colpa per qualcosa che non ha commesso.
E’ evidente che l’unico sbocco possibile per il romanzo è la follia. Il precario equilibrio iniziale di Kien, tenuto a stento insieme per mezzo delle severe regole di vita che questo vero e proprio anacoreta della cultura si è dato, vacilla con il matrimonio, e la sua progressione verso la pazzia è inarrestabile: egli arringa la sua biblioteca incitandola alla resistenza contro l’invasore, si costringe alla cecità per non vedere i mobili nel suo studio, impara a diventare una statua di pietra per opporsi a Therese, quando è cacciato da casa si trascina parte dei suoi libri dentro la testa e, la sera, giunto nella stanza d’albergo, li ripone con cura a pile sul pavimento. Quando, al Theresianum, vede riapparire la consorte da lui considerata defunta, è convinto che si tratti di un inganno dei sensi e non esita a tagliarsi un dito per dimostrare a se stesso di essersi sbagliato. L’inatteso arrivo a Vienna del fratello Georg sembra essere il coup de théâtre che ristabilisce come per magia l’ordine e l’equilibrio che sembravano turbati per sempre. Ma l’intervento del deus ex machina parigino è solo l’ultima beffa che Canetti riserva al suo lettore. Infatti l’esito del libro è inevitabile, e tutti i segnali disseminati numerosi dall’autore fin dalle prime pagine – ad esempio, il sogno del giaguaro o quello del gallo rosso – avrebbero dovuto renderlo palese: l’ultimo, fatidico atto della follia di Kien è l’incendio della sua biblioteca, il sacrificio supremo, la catarsi definitiva, che suggella in maniera spettacolare, con le fiamme che crepitano come in un rogo medioevale, il gesto estremo, eppure perfettamente conseguente con ciò che è stata l’intera sua vita, di una mente smarritasi nel labirinto della follia.

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