Trilogia della città di K. Trilogia della città di K.

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Donnie*Darko Opinione inserita da Donnie*Darko    05 Gennaio, 2022
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Una K di dolore

Tre romanzi scritti in periodi diversi e raccolti in un'unica fantastica opera: "La trilogia della città di K." è uno di quei libri che, a mio modestissimo parere, è peccato mortale non leggere. 
La prosa tagliente, asciutta ed efficace ci immerge in un primo capitolo ("Il grande quaderno") di rara durezza e crudeltà, in cui i giovani protagonisti raccontano il mondo circostante con implacabile distacco, accettando la violenza ed il sopruso come la normalità ed imparando ad usare queste deleterie armi per raggiungere gli obiettivi preposti. Un fardello immane che si porteranno nel futuro, vivendo esistenze distorte come efficacemente esposto nel segmento successivo ("La prova"). A seguire Kristof, con un colpo di classe inaspettato, ribalta ogni percezione e rielabora il punto di vista utilizzando una lente d'ingrandimento adulta, seppur attendibile fino ad un certo punto in quanto forgiata in un contesto corrotto. 
L'assenza di qualsivoglia edulcorazione ed il nulla emotivo in cui Lucas e Claus crescono rende conseguenza logica lo scenario maturo presentato dell'autrice, abile a partire da situazioni vissute sulla propria pelle (l'invasione tedesca in Ungheria, l'esilio in Svizzera) per dare sfogo ad un romanzo in cui la rabbia pronta a deflagrare in modo iperbolico viene celata sotto la coltre obnubilante dell''indifferenza. Il terzo romanzo ("La terza menzogna") si erge quindi a chiave di lettura imprescindibile, in cui la realtà dei fatti viene esposta senza più filtri infantili o fantasie distorte, lasciando ancora una volta il lettore a bocca aperta.

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andrea70 Opinione inserita da andrea70    29 Ottobre, 2021
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Gioco di specchi nel dolore

Togliete ai bambini lo scudo dell'innocenza e costringeteli ad imitare gli adulti per sopravvivere ed avrete distrutto l'uomo che saranno.
In un luogo volutamente indefinito sia a livello temporale che geografico, la città di K, imperversa la guerra.
I due gemelli di cui nella prima parte non conosciamo neanche il nome, vengono lasciati dalla madre in difficoltà presso la nonna materna, una vecchia megera arida, avara e fondamentalmente cattiva, non a caso per tutti è "la strega, sospettata di aver assassinato il marito anni prima.
Qui non ricevendo affetto ma costretti a dare per avere anche solo da mangiare, trattati come piccoli adulti, si comportano come tali, inquietanti le giornate a tema: esercizio di digiuno per abituarsi ai morsi della fame, esercizio di crudeltà e via discorrendo, tutto per non essere impreparati di fronte a nessun dolore e a nessuna privazione. I bambini imparano presto che tutto è corrotto e corruttibile, che non c'è nulla che non si possa ottenere senza la giusta dose di determinazione e dove non si arriva con la ragione c'è la violenza.
La prima parte del romanzo è come una secchiata di acqua gelata nella schiena, dura, violenta, l'autrice non ci risparmia niente delle violenze fisiche e morali a cui è sottoposta un'infanzia violata fuori e dentro il focolare domestico .
Inquietante l'"io" narrante che è sempre un "noi" al plurare, i gemelli vivono tutto in simbiosi e affrontano ogni crudeltà a cui assistono senza alcuna empatia, come accadimenti ineluttabili. Le pagine sulla tragica morte della madre e il nulla emotivo che ne consegue sono a dir poco scioccanti.
E' un libro dove è tangibile non l'assenza dell'amore ma la lotta quotidiana per far breccia tra le pietre dell'odio, della prevaricazione del più debole, del diverso.
Abbiamo una carrellata di personaggi sofferenti e tristi, imbruttiti dalla guerra e dalle miserie della vita, il vissuto sfocia spesso in un sesso malsano, triviale, volgare, un istinto quasi animale. Ci si vive accanto ma non si riesce a fidarsi e costruire qualcosa di duraturo e chi rimane ancorato ad un sentimento (per il marito perito al fronte ) è ugualmente un alieno solo e infelice.
Non mancano i gesti di generosità e d'amore, nella seconda parte scopriamo i nomi dei ragazzi che si erano separati in modo asettico e impersonale alla fine della prima parte.
Uno dei due va all'estero e l'altro, Lucas, si prende cura del figlio deformedi una ragazza incestuosa e lo ama come può il suo cuore a metà , ferito e che non sa definire l'amore . Questa è una parte importante , meno violenta, l'autrice dissemina indizi che ci aiuteranno a dipanare i dubbi che fa insorgere la terza parte in cui il fratello Claus (anagramma di Lucas) ritorna alla città natale per reincontrare il fratello e viene da questi disconosciuto. Con vari flshback viene narrata una vicenda dei ragazzi diversa da quella raccontata nella prima parte e che potrebbe confondere il lettore ma in realtà spiega cosa è realmente accaduto, non a negare il racconto iniziale ma a dargli al giusta prospettiva : forse una realtà distorta, dove la follia e l'immaginazione sono state solo un rifugio da una realtà troppo terribile per essere accettata ?.
E da bambini senza amore si diventa adulti che non credono nella vita e negli altri e vedono la morte come uno stato più auspicabile dell'essere una sorta di apolide non solo geograficamente ma anche dell'amore.
Crudo, duro, spietato, ingegnoso nella costruzione, si legge d'un fiato con la stessa veemenza che trasmette.

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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    05 Settembre, 2021
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STORIE DI ORDINARIA FOLLIA

Questo è un libro duro, deciso, potente, di quelli che suscitano fortissime sensazioni, tra loro diverse, commuove e indigna, comunque emoziona e ci coinvolge in prima persona.
Perché è diretto, va diritto al punto già dalle prime righe, si vale di una prosa asciutta ed efficace, esauriente ed esaustiva, cruda e crudista, la sola che serve per sciorinare la vergogna di cui si scrive.
L’assoluta protagonista di questo testo è una sola, l’indecenza più infame di cui continua a lordarsi la razza umana: la guerra. E le sue perfide conseguenze.
L’iniquità più vile, quella di origine di Caino e Abele esportata in grande stile in ogni luogo, ancora più disdicevole allorché si tratta non di una guerra tra diversi per varie cause, ma di un conflitto interno, detto assurdamente civile, tra connazionali, di stirpe comune, fino a ieri sodali e poi in lotta tra loro in nome di una pretesa, e pretestuosa, pulizia etnica di sorta.
“…Le parole che definiscono i sentimenti sono molto vaghe; è meglio evitare il loro impiego e attenersi alla descrizione degli oggetti, degli esseri umani e di sé stessi, vale a dire alla descrizione fedele dei fatti.”
Vittime innocenti se ne contano a dismisura in una guerra, in qualunque guerra, in ogni tempo ed in ogni luogo, e sono per di più, paradossalmente, i non belligeranti, quelli non solo incolpevoli, ma anche i più esposti, fragili ed indifesi perché ancora in divenire, non posseggono cioè strumenti atti a proteggersi. Primi tra tutti, i bambini.
“…Dio Onnipotente, benedici questi bambini. Qualunque sia il loro crimine, perdonali. Pecorelle smarrite in un mondo abominevole, vittime della nostra epoca corrotta, non sanno quello che fanno...”.
Ma il fragore delle bombe è forte, fa saltare in aria una madre con la sua bimba da poco nata, figuriamoci, difficile anche per Dio riuscire a sentire questa richiesta.
I bambini, un termine questo che li comprende tutti: i cuccioli, i ragazzi, i minori, da zero agli anni della sopraggiunta maturità, che quando e se giunge e li trova ancora in vita, l’età adulta arriva comunque ben prima della maggiore età anagrafica. I bambini: quelli più innocenti di chiunque altro e paradossalmente proprio per questo destinati a subire soffrendo più di chiunque altro, fame, violenze, dolori nel fisico e, soprattutto, graffi indicibili nell’anima. Lividi spesso incancellabili. L’anima di un bambino, una volta infranta, si scheggia, i residui graffiano anche a distanza di tempo. Sono spunzoni di ferro arrugginito ben nascosti, ma acuminati, aguzzi, taglienti. I bambini imparano certo, in fretta e bene, come si usa dire quello che non ti uccide ti forgia, ma le macerie ormai esistono, la deflagrazione lascia solo pochi resti intatti, e solo con quelli ormai distorti e difficilmente ricomponibili possono porsi all’opera per ripartire una volta passata la buriana, ma si sa, ricostruire con i rottami non assicura mai la piena stabilità originaria.
Le fondamenta conservano intatte le crepe, nascoste ma profonde.
Insite nei pensieri reconditi, anche se non ci si pensa:
“…Non penso. Non posso permettermi questo lusso. La paura è in me sin dall’infanzia…”
Prime vittime tra tutti, sopra chiunque altro, sono allora specialmente i bambini: perché al di là dei disagi fisici, l’angoscia, la paura, il terrore, quello che li annienta davvero è l’anaffettività degli adulti.
Il disamore dell’uomo verso i propri cuccioli, l’incapacità di sottrarli agli orrori, di evitarne gli inevitabili abusi conseguenziali alla violenza, un atto che va contro ogni legge di Natura.
L’assenza assoluta di Amore, quello vero, con la maiuscola, a cui chiunque ha diritto, specialmente in tenera età, questo è quanto uccide l’infanzia. La distrugge, la divora, la insozza.
In tempi di guerra, ogni barlume di umanità si spegne, gli stessi congiunti sono indifferenti alla sorte dei minori, è un “ognuno per sé e Dio per tutti”, un “si salvi chi può” quanto mai diffuso e crudele.
La fame e la violenza, il dolore e la disperazione, superati certi limiti, malgrado l’amore ed ogni espediente possibile, ogni rinuncia ed ogni sacrificio a favore dei propri cuccioli, portano uomini e donne, genitori, nonni, tutti ad un punto di non ritorno, allorché esacerbati e inaspriti fino allo sfinimento, giocoforza ognuno può a stento salvaguardare sé stesso, e non altri.
E spesso nemmeno allora.
Un bambino resta solo, anche se ha ancora congiunti in vita, forse proprio allora è ancora più solo, deve cavarsela in proprio, sbrogliarsela al meglio delle sue capacità acuitesi d’improvviso, deve struggersi, arrovellarsi, disfarsi, consumarsi per porsi in salvo. Pagandone il prezzo, salatissimo.
In estrema sintesi, questo è il tema della “Trilogia della città di K.” di Agota Kristof: non è però, si badi, un comune libro che parla di bambini violati dalla turpitudine della guerra, abbandonati a sé stessi, e che tutto malgrado con intelligenza, ingegno, capacità riescono in qualche modo a cavarsela.
Affatto: questo è un testo insolito perché blasfemo, descrive l’Uomo a sua immagine e somiglianza, quando dà il meglio di sé, che coincide sempre con le sue azioni più infamanti, laide, lerce, quando cioè arreca danno all’esistenza dei suoi simili, con tutto quello che ne consegue.
Ecco quindi che la trilogia è un triplice racconto tre volte turpe perché parla di turpitudine, abietto alla tripla potenza perché descrive abiezioni, abominevole con esponente tre perché racconta di situazioni infami, meschine, spregevoli, è un romanzo che non nasce dalla fantasia dell’autrice ma è una cronaca di pazzia, la trilogia della Kristof riporta storie di ordinaria follia, quella che quotidianamente si avvera ogni giorno in qualche parte del mondo, talora neanche tanto lontano, e di cui siamo perfettamente al corrente, non facciamo più una piega, ne siamo indifferenti perché ormai assuefatti ad ogni forma di conflitto armato, di per sé stesso sciagurato, sozzo, sporco, e di cui ci sdegniamo fieramente vedendo i piccoli bimbi spauriti, sporchi, terrorizzati che si aggirano in lacrime tra le esplosioni…purché il tutto avvenga abbastanza distante da noi.
La Kristof non fa romanzi, sciorina un elenco di fatti: perciò la sua prosa è secca, asciutta, non perde tempo né sciupa pagine per arzigogolare o dare sfoggio di cultura o di sapienza narrativa.
Inizia raccontandoci di due bambini gemelli, perfettamente uguali tra di loro nel fisico e nell’animo, due metà speculari e complementari, uno yin e uno yang infantile, abbandonati a se stessi e costretti a cavarsela da soli in un mutuo soccorso che esclude giocoforza chiunque altro estraneo alla loro ristretta duplice cerchia genetica: non perché siano privi di empatia umana, tutt’altro, ma perché il rinchiudersi in sé stessi è un’arma, forse l’unico espediente possibile alla loro età per la propria salvaguardia fisica e mentale. Trovano unico rifugio, salvezza e conforto in sé stessi: non a caso l’autrice racconta di due gemelli, perché intende far risaltare in doppia copia tutta la brutalità la crudeltà, l’efferatezza a cui i due bimbi sono esposti, innalza al quadrato tutta la violenza e l’oscenità insita nella privazione dell’infanzia a cui sono costretti. Parimenti non a caso per tutta la prima parte i due bimbi non hanno un nome che li distingua, verranno citati molto in seguito, perché sono l’incarnazione a doppio esponente di tutta la sofferenza patita dai propri simili, e l’orrore di per sé è ad un tempo universale e indescrivibile, non necessita perciò di nomi propri.
Tutte le afflizioni, le angosce, i patimenti, sono uno strazio che gli stessi bambini non sanno esternare, per una forma di innocente ed ingenuo pudore, ne hanno fatto eventi usuali della loro esistenza che almeno in apparenza passano senza lasciare strascichi o turbe di sorta, può essere riportata solo in gran segretezza in un grande quaderno, gelosamente celato a chiunque.
La prova più grande a cui saranno sottoposti è la loro separazione, l’evento certamente più traumatico, violento e conturbante a cui possono essere sottoposti due metà di un’unica essenza: ma non esitano a compierla per assoluta necessità di sopravvivenza personale. Ad ogni costo, a qualsiasi prezzo: finanche passando per un campo minato nell’unico modo in cui è possibile farlo, facendosi precedere da altri e utilizzandoli come guide sacrificali per segnare il cammino sicuro. Fa niente che si tratti di congiunti stretti. Si separano: ognuno rinuncia ad essere il custode di suo fratello, ad un pezzo di sé.
Tutti questi choc non passano senza lasciare tracce, in qualche modo serve mentire a sé stessi per mantenere un minimo di sanità mentale: puoi allora costruirti una menzogna, poi una seconda, poi una terza. Per concludere con un unico assioma: gemelli o no, l’orrore è unico, individuale.
Perchè ognuno non ha che una sola esistenza, e quella vive: se è una vita segnata dalla violenza, prima o poi l’assurdità si trasmuta in verità, il delirio in chiarezza, l’anomalia in coscienza.
Lo dice Lukas al gemello Klaus:
“…Hai dimenticato quanto ci amavamo? Io non ti ho dimenticato, Klaus.”
E Klaus risponde altrettanto chiaramente al gemello Lukas:
“Nemmeno io. Ma non serve a niente rivederci. Non lo hai ancora capito?”
In sintesi, puoi divenire il maggior poeta del Paese, ma non trasmutare in candore e innocenza storie di ordinaria follia. Tanto vale andarsene. In treno.
“…Il treno è una buona idea.”

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Kvothe Opinione inserita da Kvothe    08 Mag, 2020
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AMBRA GRIGIA: QUADERNO GRIGIO, PROVA GRIGIA, MENZO

Non è un romanzo che si può rivelare in poche righe, né un romanzo che deve essere anticipato, si deve leggere e basta. Questo non è un semplice romanzo né una semplice riflessione sulla guerra ma molto di più. E’ incredibile come sia riuscita la Kristof con uno stile secco, senza amore e diretto a raccontare e a far provare così tanto, non è affatto facile farlo. Non c’è empatia e non c’è nulla, è tutto grigio. E’ Affascinante e tagliente come una lama affilata (arrugginita). Profondo come una ferita non rimarginata che continua a riaprirsi. Letale nella sua indifferenza e grigio come il cielo. E’ un libro che non può non mancare dalla propria mente, è un libro che un può mancare dal proprio cuore, è un libro che non si può scegliere di non leggere, è un libro che non ti lascia scampo e ti lascia interdetto. Da questo romanzo ci si deve far cullare dal grigio e nient’altro, senza porsi domande. Gli stili utilizzati nelle diverse parti sono perfetti, azzeccati e incalzano il racconto con psicopatica freddezza.

Le prime due parti sono magistralmente create per farti entrare dentro il grigio.

Il grigio pervade la terza che è diversa e meno potente ma che si incastra bene con il resto del racconto anche se meno riuscita per certi versi e meno scorrevole.
Capitoli brevi come piace a me ma con tanto contenuto e con tanta crudezza.
Penso proprio che la Kristof abbia fatto un grande lavoro e che ha dato delle precise impronte in ogni sua parte.. Dallo stile dei vari capitali, alla lunghezza dei capitoli e alla varie immagini forti che ci presenta davanti.
E’ un libro che non si dimentica, per me imprescindibile e che ho amato molto. Lo consiglio vivamente

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    22 Mag, 2019
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Lucas & Claus: vite spezzate.

«È una società fondata sul denaro. Non c’è spazio per le domande che riguardano la vita. Ho vissuto per trent’anni in una solitudine mortale»

Tre romanzi nel romanzo o se preferite, tre grandi capitoli tra loro esattamente suddivisi che lo compongono, reggono le fila de la “Trilogia della città di k” di Agota Kristof.
Apriamo il volume e iniziamo a scorrere le prime pagine di quello che è intitolato “Il grande quaderno”. La reazione è unica: sconvolgimento, dubbio, perplessità. La durezza, la crudezza e la violenza che vi sono insite lasciano nel lettore un profondo e ineguagliabile senso di desolazione. Com’è possibile, si chiede questo, che ciò accada? Perché i due giovani protagonisti vivono questa vita priva di affetti, bontà e altruismo? Non vi sono risposte se non quella che tutto è necessario e lecito pur di sopravvivere e andare avanti. Anche un rasoio in tasca. Perché quando perdi i tuoi genitori e vivi in un contesto di guerra, non sei altro che spettatore e la morte perde quei suoi connotati di naturalità e eccezionalità per diventare abitudine. A completare il quadro, capitoli brevi e caratterizzati da una penna altrettanto dura, asciutta, pungente e che nulla risparmia a chi legge.
A questo diario redatto dai fratelli, ragazzi in età scolare che si attengono a fatti vissuti quali normali perché soltanto quelli conoscono, segue il secondo episodio intitolato “La prova” e dove, questa volta, conosciamo della vita separata dei gemelli. Sono ormai uomini adulti, questi, e sono chiamati a vivere distaccatamente anche se costantemente obbligati a convivere con un passato che li ha marchiati, che li ha resi incapaci di ogni affetto e di ogni forma di legame durevole. In questo capitolo le carte vengono magistralmente mescolate dall’autrice, il lettore si trova di fronte ad un linguaggio meno duro e asettico, ma, tuttavia, è confuso perché tanti sono gli enigmi che si susseguono e che ancora non trovano risposta.
Infine, “La terza menzogna” ha il compito di chiarire le idee, di mostrare quel che davvero è accaduto, di far luce su verità e falsità, di ricostruire il sentiero di vite spezzate.
Il tutto attraverso il filo conduttore dell’esilio, attraverso salti temporali tra presente e passato, tra età adulta e età infantile; il tutto attraverso una volontà di ricostruzione dei fatti che è affidata al conoscitore che pian piano ricompone i tasselli del puzzle narrato e che è chiamato a scegliere quella che è per lui la vera verità.
Un libro che attrae, che rapisce, che incuriosisce e che destabilizza a più riprese. Un elaborato che è un pugno nello stomaco, che invita alla riflessione e che non si dimentica anche ad anni di distanza dalla lettura.

«- Morirà presto, il mio albero. Dice: Non faccia il sentimentale. Tutto muore.»

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Bipian Opinione inserita da Bipian    01 Aprile, 2018
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Vite spezzate

Le prime pagine della trilogia sono un pugno allo stomaco. Davvero mi è capitato raramente di leggere qualcosa di più crudo, violento e desolante.

E' la storia di un'infanzia violata di due gemelli, a causa della guerra e della perdita dei genitori.
I bambini diventano spettatori e protagonisti di un mondo crudele e spietato, dove la morte è quotidianità, l'essere umano è privato di una qualsiasi umanità, la bontà è merce rara e preziosa e l'amore non esiste.

Lo scenario è descritto nel primo libro in maniera magistrale con un linguaggio a dir poco scarno e asettico: è il diario tenuto segretamente dai gemelli, che sono troppo giovani per esprimere giudizi, si attengono solo ai fatti, che per loro sono normali.
Il loro agire, cinico e rigoroso, preso forzatamente in prestito dalle persone adulte, è perfettamente coerente con la realtà in cui sono immersi. E' la dimostrazione che la violenza genera violenza, che in regime di guerra sopravvive solo il più forte, che quando le condizioni di vita si spingono al limite, l'umanità e l'amore vengono sacrificati in nome della mera sopravvivenza.

La forza e il progredire di questo esordio verso vertici di immane brutalità valgono da soli la lettura di quest'opera. Poi i toni si stemperano nelle successive due parti, in cui vengono narrate le vite separate dei due protagonisti, ormai adulti. I capitoli si allungano, quasi a voler rappresentare il tempo dell'età adulta rispetto agli anni dell'infanzia.
I due uomini affronteranno per tutta la vita i fantasmi del passato, saranno incapaci d'amare e di essere felici, vivranno una condizione di miseria spirituale e di solitudine estrema, imparando a metabolizzare ulteriori lutti e infine perdendo gradualmente il contatto con la realtà che li circonda.

Il tema dell'esilio, caro all'autrice ungherese, fuggita e vissuta fino alla sua morte in Svizzera dopo l'invasione sovietica del'56, è il filo conduttore degli ultimi due libri, dove peraltro la narrazione a mio parere perde in coerenza e in efficacia.
Qui Agota Kristof confonde volutamente le carte, opera nel terzo libro una narrazione a ritroso, che con più salti ritorna all'infanzia dei gemelli, modificando però completamente la storia narrata nel primo libro.
L'effetto è molto destabilizzante per il lettore, che deve decidere qual è la realtà e quale la finzione (non a caso l'ultima parte s'intitola "La terza menzogna").

Il tutto rimanda a Kafka, al teatro dell'assurdo, all'espressionismo, alla musica dodecafonica, che servono egregiamente allo scopo ma possono essere molto irritanti.

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martaquick Opinione inserita da martaquick    15 Marzo, 2018
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TRE RACCONTI PER DUE(?) PERSONE

Un racconto, anzi tre, scritti in maniera dura, asciutta e fredda, la storia di due gemelli alle prese con la guerra.
Un romanzo davvero particolare che lascia l'amaro in bocca ma anche molto di più perchè affronta l'argomento della guerra in modo quasi superficiale, ma in realtà è una presenza costante nella città, nelle persone, nell'atmosfera.
Lo stile della Kristof in questo libro è perfetto e le tre storie diverse con gli stessi protagonisti sono accattivanti, il testo scorre che è un piacere.
Quello che non è mi piaciuto del romanzo è la confusione che si ha dalla seconda parte in poi; sebbene mi siano piaciuti tutti e tre i racconti, l'ultimo l'ho trovato non all'altezza del primo, ma forse rispecchia la vita perchè molto spesso la verità non è piacevole come la menzogna. Io ho interpretato "la Terza menzogna" come l'unica vera storia di questo libro e putroppo non mi è piaciuta.
è indubbiamente un libro unico e mi spinge a leggere altre opere della scrittrice quindi ne consiglio la lettura.

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    16 Aprile, 2016
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Nella lontana K

Interessante perdersi tra i vortici creati ad hoc da Agota Kristof tra le pagine di “Trilogia della città di K”.
Un romanzo duro, amaro, a tratti crudele, dove la tragedia non viene mai edulcorata, ma graffia come una belva furiosa. Da immagini di guerra, bombe, morte, ad immagini di annientamento psichico, di ottenebramento e sdoppiamento.
L'arma vincente è lo schema narrativo adottato, ricco di effetti destabilizzanti per il lettore, condotto attraverso un rincorrersi di sogni e realtà, un gioco degli specchi, di tunnel spazio-temporali in cui perdersi.
Una maniera alternativa per scrivere degli orrori della guerra, senza necessità di focalizzare su città e nomi precisi, perché le tragedie sono multiple e si intrecciano seguendo strade diverse.
Un romanzo sulla memoria, sulla fugacità, sulla solitudine imposta dal destino e non scelta, sull'importanza dei rapporti umani.
Grande e implacabile il senso di vuoto e desolazione che si innalza al termine del lungo viaggio.

Un impianto narrativo ad effetto, studiato dal suo incipit alla sua conclusione, orchestrato con maestria stilistica, punteggiato da istantanee destinate ad imprimersi nella pupilla e nel cuore del lettore.
Un vortice finale di speranza e disperazione avvinghiati e inseparabili.

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Cristina72 Opinione inserita da Cristina72    08 Mag, 2015
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“Per favore, signora..."

Atmosfere cupe, linguaggio scarno, contenuti duri e a volte scabrosi: questa è la scrittura della Kristof, pacata e rabbiosa, deprimente e mai banale.
In questa Trilogia realtà e sogno ad occhi aperti sono sapientemente intrecciati e poi sciolti - lo stesso lettore viene più volte tratto in inganno dalla fantasia dei protagonisti - e mentre i fatti emergono in tutta evidenza ci si accorge che il tentativo di alterarli non è andato a buon fine: da un destino di dolore e solitudine non si può comunque fuggire.
“Dall'altra parte della piazza, le vecchie case sono rimaste intatte. Sono restaurate, ridipinte di rosa, giallo, blu, verde”: è uno scorcio della “piccola città”, luogo che fa da sfondo a buona parte del romanzo e che con i suoi colori vivaci si associa più alla variazione cromatica di una serie di lividi che alla gioia.
Se nella prima parte si indugia quasi nell'onirico e nella perversione sessuale vissuta da occhi ingenuamente complici, nelle ultime due l'innocenza infantile ci riserva i passaggi più struggenti, raccontando infanzie spezzate:
“Vai a piangere davanti alla tua casa vuota, non è vero?”.
Per chi ha perso da bambino la strada di casa non c'è alcuna speranza (“Per favore, signora, che autobus bisogna prendere per andare alla stazione?”), e malgrado il coraggio, malgrado la volontà di andare avanti, non fosse altro che per forza d'inerzia, resterà per sempre un adulto smarrito.
La lettura del libro è agevole ma non allieta certo lo spirito: anche l'immagine suggestiva di un cielo al tramonto dai colori “radiosi e belli” lascia un retrogusto amaro.
La fine del tormento, la speranza di ritrovare la pace, arriva solo con la sarcastica negazione della vita:
“Il treno è una buona idea”.

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Riccardo76 Opinione inserita da Riccardo76    20 Dicembre, 2014
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UN MONDO, IN UN MONDO, IN UN MONDO……

In una qualunque città K, martoriata da una guerra qualsiasi, ci sono due gemelli che vivono le più grandi atrocità che la guerra e l’occupazione possano “offrire”. La freddezza e la piattezza dei personaggi, il punto di vista praticamente univoco dei due fratelli, rendono il romanzo abbastanza singolare e sicuramente originale sin dalle prime battute. Il punto di vista cambia continuamente fino alla fine del racconto, rendendo la storia ancora più interessante. La crudezza e la violenza alla quale i gemelli sono sottoposti è a tratti insopportabile, ma credo non troppo lontana dal vero. Si percepisce la sensazione che si può vivere dopo grandi lutti, grandi sofferenze, una sensazione di alienazione e di distacco dalla realtà, è un romanzo freddo e “aggressivo”, molto forte.
L’unione quasi simbiotica dei fratelli sembra quasi surreale da principio, ma il dolore e la violenza che devono vivere può giustificare questa vicinanza, quasi a volersi far forza l’un l’altro. La nonna che se ne prende cura è una figura altrettanto surreale, un iceberg arcigno e insensibile, almeno per quello che ci è dato sapere dal romanzo e quindi dal punto di vista utilizzato per raccontarlo. Ma certo si può trovare una “giustificazione” a tutto questo, c’è una guerra, si soffre e l’animo umano può deteriorarsi.
La stessa guerra trasforma una unione simbiotica in una dissociazione radicale e quasi schizofrenica, due vite separate a cercare due strade differenti verso la sopravvivenza. La storia si fa via via più articolata e meno lineare, si fa fatica a non essere travolti da una logica che è sempre sul filo del rasoio, si confondono realtà, immaginazione e credo anche malattia.
E’ sicuramente un libro da leggere, che lascia alquanto sconcertati, ma fa riflettere sulle ferite che possono essere inflitte alle menti e ai cuori di poveri bimbi costretti a vivere i drammi e le violenze delle guerre, di faide e tragedie famigliari. Non voglio entrare troppo negli avvenimenti raccontati in questo romanzo per non rischiare di rovinare il piacere della lettura, e per non fornire una chiave di lettura personale che potrebbe condizionare il vostro giudizio su questa opera. Posso solo dirvi che si fa fatica a staccarsi dalla lettura, almeno questa è stata la mia esperienza.

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diogneto Opinione inserita da diogneto    26 Settembre, 2014
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non c'è due senza tre... ma forse questa volta era

La scrittura fredda di Agota Kristof ti congela piano piano le vene fino ad arrivare a farti respirare nuvole di brina!
La vicenda dei gemelli durante l'occupazione, la liberazione e la nuova "occupazione" della città di K. ti porta a toccare con mano gli orrori della quotidianità della guerra. Lontana dal fronte la vita procede solo con scaltrezza e dolore, la morte diventa compagna di vita e il dolore si mescola al cibo di fortuna raccolto nelle giornate di lavoro.
La lontananza dai genitori, i gemelli sono affidati alla nonna, lascia vuoto lo spazio emozionale emotivo dei gemelli che si amplia, ancora di più, durante il secondo libro dove, la "prova" che i gemelli devono superare, sembra insormontabile.

Il terzo libro sembra una rilettura dei primi due in chiave psicologica mostrandone le paure, le follie e le scelte come frutto della mente dei gemelli o del gemello.... alla fine, per me, rimane un inutile appendice a due libri che, già di per se, regalano dolore e gelo a sufficienza!

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Vincenzo1972 Opinione inserita da Vincenzo1972    08 Settembre, 2014
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Effetti collaterali: amaro in bocca e senso di sma

Questa è la trilogia del terrore, del dolore e della rassegnazione, nello stesso ordine in cui li ho citati.
L'impatto iniziale è tremendo; ci ritroviamo sin dalla prima pagina catapultati in un paese di frontiera nel mezzo di una guerra qualsiasi, non meglio individuata ma, come tutte, senza vinti né vincitori, solo vivi o morti.
Periodi brevi, gelidi, asettici, completamente ripuliti da ogni traccia di sentimento o di emozione e per questo sicuramente più efficaci nel descrivere le brutture maggiori, le violenze fisiche e psicologiche a cui due gemelli sono sottoposti sin da piccoli durante la loro permanenza in questo paesino, abbandonati dalla madre alla custodia della nonna che li accoglie amorevolmente come 'figli di cagna'.
Uno stile di scrittura duro, senza pietà, così come duri ed aridi diventano i due gemelli che si allenano alla fame, al dolore, all'offesa per non dover più piangere, per non dover più soffrire.
Persino la morte della madre tornata per riprenderli e portarli via con lei non li scuote più di tanto e la scena viene descritta con la stessa freddezza del resoconto di un'autopsia:

"L'ufficiale va a sedersi sulla camionetta ed accende il motore. In questo preciso istante avviene un'esplosione nel giardino. Subito dopo vediamo nostra Madre a terra. L'ufficiale corre verso di lei. Nonna vuole allontanarci. Dice:
-Non guardate! Rientrate in casa!
L'ufficiale bestemmia, corre sulla camionetta e parte a tutta velocità. Guardiamo nostra Madre. Le viscere le escono dal ventre. E' tutta rossa. Anche il bambino. La testa di nostra Madre penzola nel buco provocato dalla granata. I suoi occhi sono aperti, ancora umidi di lacrime'
Nonna dice: -Andate a cercare il badile!
Posiamo una coperta sul fondo del buco, vi corichiamo sopra nostra Madre. Il bambino è sempre stretto a lei. Li avvolgiamo in un'altra coperta, poi riempiamo il buco.
Quando nostra cugina torna dalla città, domanda:
-E' successo qualcosa?
Diciamo:
-Sì, una granata ha fatto un buco in giardino."

Il secondo racconto è quello del dolore: il dolore della separazione tra i due gemelli, il dolore della perdita della donna amata, dell'amico più caro e di un figlio desiderato e mai avuto. Il terrore adesso si è trasformato in angoscia, in paura, in solitudine... gli orrori della guerra, sinora assorbiti con impassibile freddezza, vengono fuori lentamente mostrando il lato più umano e fragile dei protagonisti.
Infine l'ultimo racconto è quello della rassegnazione, pessimistica rassegnazione di fronte alla tragica realtà della vita che nessuna menzogna, nessun tentativo di mascheramento potrà mai celare del tutto:
"la vita è di una inutilità totale, è nonsenso, aberrazione, sofferenza infinita, invenzione di un Non-Dio di una malvagità che supera l'immaginazione".

Nota a margine: il secondo racconto, 'La prova', è una prova anche per il lettore, nel senso che si ha la sensazione di perdersi, di non aver capito, di aver tralasciato alcuni particolari... gli stessi protagonisti del primo racconto, i due gemelli, si confondono, si uniscono per poi dividersi nuovamente... sarà 'La terza menzogna' a chiarire tutto. O quasi tutto.

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Minuscola Opinione inserita da Minuscola    21 Agosto, 2014
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a metà

Un libro che mi è piaciuto a metà. Ho faticato a capire la seconda parte, ma avevo intuito che la prima era invenzione. La terza parte mi ha rivelato il tutto. Non posso dire che non mi sia piaciuto, ma l'ho trovato complicato. Troppo strano in alcuni punti e troppo atemporale. Senza tempo, senza connessione soprattutto all'inizio.
La scrittura non mi è piaciuta affatto, non amo lo scrittore che annuncia chi parla "nonna dice" epoi "io dico". Inoltre il testo è formato da frasi brevi, costituite da: soggetto, verbo. A volte il complemento. No, troppo semplice scrivere così!
Ero curiosa di sapere e l'ho concluso, ma non è il mio genere.

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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    06 Mag, 2014
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Dalla favola alla realtà

La trilogia della città di K è fatta di tre romanzi distinti: il grande quaderno, la prova, la terza menzogna. I primi due libri sono bellissimi per il modo dell'autrice di raccontare per frasi essenziali, incisive, dirette che colpiscono in profondità il cuore e la fantasia del lettore. La storia risulta strana, forse sbagliata, per il tipo di reazione che ogni avvenimento suscita nei due protagonisti, due fratelli gemelli identici, Lucas e Claus i cui nomi sono l'uno l'anagramma dell'altro. Il fatto che la storia sembri strana e sbagliata ne accresce enormemente il fascino creando un clima di sospensione e di miracolo in cui tutto è possibile e in cui anche il lettore vive la storia in un sogno svincolando i fatti ascoltati da ogni giudizio morale. Il modo di percepire le cose dei gemelli ha qualcosa di stonato: non sono nè sordi, nè ciechi, nè stupidi. Hanno un'intelligenza sorprendentemente vivace, molto sopra la media. Ma il loro modo di apprendere le cose appare difettoso : mancano di affettività, di emotività, di capacità di attaccamento al di là del loro reciproco e simbiotico rapporto.
Sembrano fare esperienze per sentito dire, per provare quello che che gli altri raccontano di avere provato. Si abituano addirittura con esercizi a questa impassibilità emotiva. Del resto la guerra provoca di queste storture: c'è chi è intelligente ma cerca di non pensare e chi è buono e cerca di non soffrire. I due fratelli rientrano in quest'ultima categoria, forse meno frequentata della prima.
Il secondo libro sembrerebbe raccontare anche della guarigione di Lucas da questa anaffettività, grazie al legame con il bambino deforme Mathias che considera suo figlio e che in certi momenti sembra un terzo clone dei due fratelli. Strano il rapporto con le donne, anche questo caratterizzato dall'incapacità di provare sentimenti. Il rapporto con Clara ad esempio, sembra iniziato da Lucas come uno dei soliti esercizi di comprensione del mondo: Clara assomiglia a sua madre e lui ha appena elaborato il profondo e incestuoso legame tra la madre di Mathias e il proprio padre.
Tutti i personaggi principali scrivono.
I primi due libri sono bellissimi perchè i fatti raccontati e le reazioni dei fratelli sono sorprendenti, intensi, toccanti. Alla fine del secondo libro si iniziano a nutrire dei dubbi sulla storia raccontata nel grande quaderno, sulla esistenza dei due fratelli. La confusione aumenta nel terzo libro. Claus e Lucas sono la stessa persona? Lucas soffre di una forma di schizofrenia? Il ritorno alla realtà e la spiegazione dei fatti realmente accaduti avviene nel terzo libro in modo un po' caotico. Sinceramente avrei preferito farne a meno, restare nella favola e avere una conclusione da favola.

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Opinione inserita da Donnie*Darko    02 Mag, 2014

L'amaro piatto della vita

Stupendo viaggio tra realtà, bugie e finzione. Agota Kristof riferisce le vicende di due fratelli gemelli con stile asciutto, quasi spiazzante eppure mostruosamente incisivo. In tre segmenti racconta della loro avvincente storia, ribaltando a sorpresa ogni prospettiva nell'ultimo atto.
Le certezze del lettore vengono annientate, ad un convincimento corrisponde implacabile la relativa smentita. Uno scritto incredibile, cervellotico eppure mai respingente, mentre l'orrore della guerra fa da scenario tragico, lasciando uno strascico malinconico di tragedia incombente.
Claus e Lucas, nomi anagrammati, personaggi interscambiabili in un rapporto dapprima morboso poi incredibilmente distaccato. Una simbiosi totale in partenza, poi avvelenata dalla vita stessa; una vita che forse non è mai stata doppia, o forse non è mai stata e basta.

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Acherontia Atropos Opinione inserita da Acherontia Atropos    10 Aprile, 2014
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Storia sulla perdita (prima di innocenza e alla fi

Sulla quarta di copertina il commento di Giorgio Manganelli è illuminante per chiunque voglia sapere il contenuto di questo libro:
"Una prosa di perfetta, innaturale secchezza, una prosa che ha l'andatura di una marionetta omicida".
Forse una così bella e precisa recensione non avrebbe bisogno di ulteriori commenti, ma infatti la mia recensione è più una nota personale.
Il libro è composto da 3 parti, ognuna come un lungo racconto. La prosa, secondo me, di cui parla Manganelli riguarda essenzialmente la prima parte (Il grande quaderno).
Il libro inizia con una narrazione in seconda persona plurale svolta nel presente. Gli enunciati sono brevi, secchi, e di una crudeltà che, sebbene assurda è decisamente credibile. Ogni frase è un colpo di rasoio (tra l'altro un'arma che appare nella prima parte) e tutto il libro tratta di una cosa sola (secondo me): la separazione, o meglio, il dolore nella separazione, nel taglio (di sentimenti, rapporti, memoria). Una violenza 'necessaria' per vivere in tempo di guerra. La prosa della seconda e terza parte cambia decisamente (accade qualcosa alla fine della prima parte che si può dire essere 'il climax' della trilogia).
Un affresco bellissimo che personalmente ha rimandato a un altro grande capolavoro del genere 'Il Tamburo di Latta' (di Gunter Grass) dove Oskar Matzerath è interpretato da due gemelli fusi in una sola azione. Una seconda persona plurale che è un 'io' prebellico. E' la com-passione, la complicità, la fratellanza, la solidarietà.
'La Prova' e 'La terza menzogna' sono la miseria, la disperazione, la follia, lo smarrimento di un senso, di una realtà. Il lettore rimane sospeso, non sa quale sia la verità, non sa se la narrazione è un racconto di un sogno, ma è 'ora'. Il presente indicativo fa sprofondare il lettore in sabbie mobili di dubbi e domande. I colpi di rasoio sono finiti, ora è solo il sangue che sgorga. Un po' macabro forse, ma la mia impressione è stata questa. Un libro che ha avuto entusiasmi e moti di disgusto in egual misura presso coloro con cui ne ho parlato. Un libro che non lascia indifferenti.
Un omaggio secondo me a Kafka e alla sua letteratura è la lettera K. della città.

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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    14 Marzo, 2014
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Favola nera

La visione cupa e pessimistica dell'autrice riguardo alla vita e al mondo permea ogni pagina, ogni frase, ogni singola parola di questa favola nera in cui a farla da padroni sono l'odio, la violenza e ogni sorta di bassezza morale. Agota Kristof scandaglia le zone più nere e limacciose della natura umana, servendosi di sagaci figure simboliche, di palesi riferimenti storico-politici e di una prosa scarna, ombrosa, fatta di frasi brevi, secche, lapidarie, senza preziosismi e raffinatezze. Uno stile perfetto per trasmettere al meglio i contenuti dell’opera. I gemelli Lucas e Claus sono ancora bambini quando il loro paese è coinvolto in una guerra sanguinosa e affamatrice e la madre, per farli sfuggire a morte certa, li affida alle cure per niente amorevoli della nonna. Legati tra loro in maniera viscerale e dotati di un'intelligenza fuori dal comune, i due protagonisti si ritrovano già in tenera età a condurre un'esistenza fatta di fatica, freddo, fame, insulti e percosse che forgerà i loro caratteri fino a renderli impermeabili alla paura e al dolore ma anche ai buoni sentimenti, facendoli diventare cinici e spietati come il mondo con cui hanno a che fare. Insieme sapranno affrontare e superare ogni difficoltà, arriveranno perfino ad autoinfliggersi pesanti esercizi per imparare a sopportare meglio i mali fisici e mentali, finché si troveranno di fronte alla prova per loro più dura: la separazione. Claus abbandona un paese uscito finalmente dalla guerra ma soggiogato da una pesante dittatura imposta dall'occupazione straniera, lasciandoci a seguire la vita del solo Lucas, dall'adolescenza all'età adulta, in un crescendo di solitudine e depressione in cui aleggia costante e ineluttabile il vuoto lasciato dalla partenza del gemello. Ma ad un certo punto, come un improvviso uragano che travolge ogni cosa, ecco che entra in gioco l'elemento fondamentale della storia, la menzogna, rimettendo in discussione quanto letto fin qui e prospettando un torbido prosieguo. Questo sorta di incubo claustrofobico è un duro e spietato processo ai mali dell'umanità: avidità, prepotenza, arroganza, odio, violenza, invidia, indifferenza sono caratteri imprescindibili dell'uomo e fattori scatenanti di calamità deleterie come le guerre, portatrici di sangue e fame, e i totalitarismi, oppressivi e soffocanti. La condanna è totale e si estende a tutti gli uomini, ad ogni nazione, ad ogni ideologia e a qualsiasi epoca storica. Niente, neanche la speranza sembra salvarsi dalla penna inquisitrice dell'autrice: “…Gli dico che se è morto, beato lui, e che vorrei essere al suo posto. Gli dico che gli è toccata la parte migliore e che sono io a dover reggere il fardello più pesante. Gli dico che la vita è di un’inutilità totale, è nonsenso, aberrazione, sofferenza infinita, invenzione di un Non-Dio di una malvagità che supera l’immaginazione.”

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Marco Caggese Opinione inserita da Marco Caggese    01 Marzo, 2014
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La vita al tempo dei regimi totalitari

Una lettura dolorosa e faticosa, quella di quest'opera. In tutti i sensi.
I protagonisti sono due bambini che vivono una scioccante esperienza di vita, legata alle vicende politiche del paese nel quale è ambientato.
Su tutto domina la pesante e opprimente ombra di una guerra interminabile che porta con se regimi sempre più oppressivi e dittatoriali.
L'aspetto doloroso di questo romanzo è dato proprio dalla miseria dei protagonisti, dalla bassezza morale di alcuni personaggi e dalla spoetizzante visione della sessualità, sempre sporca, oscena e disturbante, utilizzata come semplice "sfogo istintivo" e mai come atto d'amore.
Ma questo pessimismo che pervade il romanzo ne costituisce anche l'elemento caratterizzante, che lo rende accattivante e credibile, in quanto ci mostra quanto una dittatura, accompagnata dalla mancanza di libertà di espressione degli individui, possa togliere alla popolazione che la subisce, ogni forma di affermazione personale.
Nella seconda parte il libro vira verso una decostruzione del racconto, scopriamo quindi che molte delle cose raccontate nella prima parte costituiscono delle menzogne, forse anch'esse dettate dal dolore con il quale hanno convissuto i protagonisti.
A mio avviso è qui che il racconto perde smalto, l'autrice crea una serie di scatole cinesi e ci propone vari episodi visti da angolazioni differenti, ma finisce per rendere talmente complesso il gioco delle parti, da far perdere al romanzo l'attraente ed immediata vivacità che lo aveva caratterizzato nella prima parte.
Su tutto il racconto domina, dalla prima all'ultima pagina un forte sentimento che finisce per condizione nel bene e nel male l'intera opera, l'assoluta mancanza di speranza. I protagonisti si lasciano scorrere la vita addosso e non fanno assolutamente nulla per mutare il proprio destino, in quanto non hanno la minima fiducia nel loro valore ed in ciò che sta loro attorno.
A mio avviso, quindi, un romanzo estremamente bello in certe parti, deludente in altre parti per la machiavellica costruzione del racconto nell'ultima parte.

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giuse 1754 Opinione inserita da giuse 1754    03 Dicembre, 2013
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Come un vento gelido

Non mi soffermerò a lungo sulla descrizione del complicato rapporto tra i gemelli Lucas e Claus ( anche i nomi sono anagrammi l’uno dell’altro), morbosamente simbiotico e nello stesso tempo conflittuale, né sui loro esercizi di sopravvivenza, elaborati dal “noi” narrante per affrontare e superare il dolore, la sopraffazione, la guerra, la solitudine, la morte.
Lo scenario della narrazione, specialmente ne “Il grande quaderno” è cupo e angoscioso, da favola noir (persino la nonna è detta “la strega”. La città in cui si svolge la vicenda è occupata da un esercito straniero, la prevaricazione e la violenza sono realtà quotidiane per i due fratellini.
Nel secondo libro della trilogia, “La prova” Lucas tenta di sopravvivere alla partenza del fratello, che ha deciso di attraversare la frontiera, reinventandosi come libraio, e tenta di ricostruire una famiglia. Accoglie una giovane donna con il suo bambino, frutto d’incesto, che porta la traccia del peccato nella propria deformità; ama un’altra donna, instaura un forte legame affettivo con il bambino, che crescerà come se fosse suo .
Fin qui il percorso narrativo sembra essere lineare, siamo sicuri che il protagonista è uno dei due gemelli che abbiamo imparato a conoscere nel primo libro.
Agota Kristof (Csikvánd, 30 ottobre 1935 – Neuchâtel, 27 luglio 2011) invece, ne “La terza menzogna”, il terzo libro, si diverte a spiazzarci, a suggerire percorsi alternativi e letture diverse della vicenda che ci ha appena narrato.
I nomi dei protagonisti e dei fratelli sono sempre quelli, ma la storie sono leggermente diverse, i personaggi subiscono traversie che non ricordavamo. Alcuni piccoli, ma fondamentali particolari, non collimano.
Il lettore si chiede se sta sbagliando a ricordare, se ha interpretato male la precedente narrazione. Sentendosi in parte in colpa per non aver prestato la dovuta attenzione ai dettagli, in parte preso in giro dall’autrice, si sforza di darsi delle spiegazioni.
Forse i gemelli erano una persona sola, forse uno era solo il proprio doppio elaborato dall’altro, forse non sono nemmeno mai esistiti.
Ecco, credo che sia proprio qui la chiave: quei personaggi non sono mai davvero esistiti. Essi sono solo una proiezione dell’autrice che ne fa ciò che vuole, ne manipola la storia, cambiando impercettibilmente la trama.
“La terza menzogna” è la letteratura, rappresentata proprio da quel misterioso quaderno manoscritto che attraversa il libro senza svelarsi mai del tutto.
Penso che, al di là del dolore per l’esilio impostole dal marito al momento dell’occupazione sovietica dell’Ungheria, che la Kristof esprime con una prosa secca e affilata come un’arma da taglio, all’autrice interessi riflettere sul valore della scrittura in sé, sulla capacità generatrice delle parole. Così come inventano per il lettore un mondo, nello stesso modo sono in grado di distruggerlo subito dopo.
“Sono convinto, Lucas, che ogni essere umano è nato per scrivere un libro, e per nient'altro. Un libro geniale o un libro mediocre, non importa, ma colui che non scriverà niente è un essere perduto, non ha fatto altro che passare sulla terra senza lasciare traccia. (Victor, p. 210 ed.Einaudi)
Un libro per cui Victor arriverà a uccidere la sorella perché la sua presenza gli impediva di scriverlo, un “grande quaderno” che passerà come un testimone da un protagonista all’altro della trilogia.
E’ un libro duro, un libro che come un vento gelido si insinua sotto i vestiti, a contatto con la pelle, e non ti lascia. Devi metabolizzarlo per qualche giorno, aspettare che torni il sereno, prima di poterne parlare.

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Mariiik Opinione inserita da Mariiik    21 Ottobre, 2013
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I drammi non finiscono mai

Mi verrebbe da dire che nemmeno vorrei recensirlo un romanzo così, ma non perché l'abbia trovato brutto, anzi. Mi è difficile spiegarlo perché racchiude in sé moltissime emozioni e situazioni che lasciano inevitabilmente l'amaro in bocca.
Innanzitutto, come da titolo, è diviso in tre parti: il grande quaderno, la prova e la terza menzogna. I protagonisti sono due gemelli, Lucas e Klaus, che nel corso della storia cresceranno affrontando le difficoltà da prima della guerra, poi della rivoluzione e successivamente della stabilizzazione di un intero Paese. Le dinamiche sono crude e spietate nella prima parte, la guerra fa da padrona e ci mette dinnanzi un panorama tragico, fatto di lotte per la soppravvivenza, nessuno escluso; nella seconda parte la lettura si fa più veloce, ci sono degli spiragli di speranza, intervallati da momenti di tremenda tristezza; nella terza ed ultima parte, appunto il momento di ristabilire gli equilibri, ci si sente sempre sul filo del rasoio, dove un piccolo spiraglio di vento può cambiare la situazione a favore o no.
Un punto focale del libro è questa unione fra i due fratelli gemelli, secondo alcuni data appunto dal fatto che siano gemelli, ma che secondo me va oltre: è un essere l'uno e l'altro allo stesso tempo anche se agiscono diversamente, è un equilibrio fra le due parti che non si dissolverà mai.
Spero di aver dato una panoramica abbastanza semplice, seppure non lo sia affatto.
E' un libro difficile, non da leggere, né da capire, è difficile da provare. Lascia addosso l'amarezza delle disgrazie altrui, sembra quasi ti prenda per mano in silenzio e ti accompagni attraverso le vie della città di K e della capitale per farti vedere cos'è la guerra, cosa fa alle persone e quanto sia difficile tirarsi su.
Ammetto che nella parte finale è stato difficile capire, ho riletto più volte e a libro finito ho dovuto ricercare un passaggio, ma quando "arrivi" (tra virgolette perché non sono certa di aver compreso davvero tutto fino in fondo) a capire, ti lascia molto forse proprio perché ti ha mostrato la crudeltà della vita.

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Claudia Falcone Opinione inserita da Claudia Falcone    18 Ottobre, 2013
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un libro crudo e spiazzante

Fare una recensione a caldo di questo romanzo non è facile, perché in realtà andrebbe digerito, bisognerebbe ripensarci ed elaborarlo, tentare di comprenderlo meglio. Che dire? E' geniale nella sua costruzione, crudo ed asciutto nel suo stile, amarissimo e doloroso per la storia che racconta. Il dolore, la guerra, la solitudine, ma anche l'amore, la follia, la capacità di sopravvivere al dolore. In questo libro c'è tutto, ma purtroppo non c'è mai uno spiraglio di speranza. Non c'è salvezza, il finale è spietato. Delle tre parti ho preferito la seconda; la prima l'ho trovata troppo asciutta, la terza a tratti difficile da seguire. Non riesco ad accodarmi completamente alle recensioni entusiaste che ho letto, perché qualche perplessità questo libro me la lascia, ma indubbiamente è un libro magnetico e disarmante. Da leggere.

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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    31 Luglio, 2013
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Sopravvivenza e scarnificazione

Non c’è speranza , non c’è redenzione, non c’è bellezza, soltanto disperazione. La guerra, fantasma assillante e concreto, assorbe la serenità, avvolge il mondo in un fumo denso, grigio: nel dissolvimento dei colori, la gemellarità, la nitidezza, l’inconciliabilità tingono il mondo del contrasto tra bianco e nero. L’amore non è rosso, non trionfa, anzi, perde miseramente. Ossessioni e demoni si emergono dagli abissi dell’animo a disgregare le mura della razionalità, a tentare di aggrapparsi alla serenità. E se la moneta di cambio è la verità, se il prezzo da pagare è l’invenzione poco importa: nell’ Europa in guerra pensare di vivere è soltanto un’utopia lontana che nemmeno sfiora la mente. L’unico anelito è quello alla sopravvivenza. Nel processo di scarnificazione cui la realtà è sottoposta, la brutale legge della sopravvivenza, l’intuizione di Darwin, si fa paradigma per analizzare il mondo, per difendersi, per riuscire a non soffrire. Scarnificazione delle emozioni, della libertà dell’infanzia, del gioco, dei pranzi pantagruelici, dell’intelligenza.

Non è apatia, non è crudeltà: è logica, pura fredda e solida consequenzialità. Se la guerra fa soffrire, allora è necessario abituarsi al dolore. Se l’uomo è costretto a vivere nella realtà, allora bisogna abituarsi alla verità. Se il mondo tenta di sopraffarti, allora bisogna essere crudeli. È l’intelligenza di due gemelli, lo sguardo penetrante e straordinariamente maturo di due giovani a descrivere la loro lotta in un mondo deserto, sterile. E se Dio è morto, allora bisogna apprendere cosa sia la vera solitudine.
Due gemelli a riscoprire le loro radici, ad inseguire un passato, una ricerca dolorosa in cui gli inganni dell’uomo sono secondi soltanto a quelli della ragione. Nella città di K., nel mondo martoriato da deflagrazioni e pallottole furenti, uomini, donne e bambini e vecchi sono carne da macello: salvezza è l’imperturbabilità, è la furbizia. Soffrire significa soccombere e non conoscere. Nel desolante panorama della città, nessuno è risparmiato e la penna si sofferma con inesausta crudezza su bimbe stuprate da soldati dimentichi del rispetto, su uomini dilaniati dalle mine, sulla follia, su animali impiccati o annegati. La guerra deturpa l’uomo, lo fa regredire alla ferinità.

Al Grande Quaderno (primo capitolo della trilogia) dell’infanzia, si sostituisce “La Prova” della solitudine, in un parossismo crescente che culmina nella vertigine improvvisa di una nuova bugia, “La terza Menzogna”. La linearità della prima parte, le frasi così brevi da morire sotto il fuoco di trincea dei punti fermi, così affilate da ferire per la crudeltà, così abilmente soppesate per colpire là dove la carne è più debole, si sciolgono in un periodare più complesso, ma mai complicato, che mantiene intatta una brutalità inestinguibile. Alla crescita dei gemelli corrispondono pensiero più sofisticati: a prezzo dell’immediatezza iniziale, si acquista profondità. Il delirio del conflitto si ripercuote nello stile convulso: alla prima persona plurale, punto di vista originario, si sostituisce la terza singolare, poi la prima singolare, in un dialogo serrato con un “tu” immaginario con cui il lettore s’identifica. E in questo gioco di sguardi, nella mostra impietosa di umanità che si dispiega nella grottesca risposta alle deflagrazioni, la chiarezza del primo scritto sembra annebbiarsi poco a poco, fino a dissolversi nella confusione dell’ultimo capitolo. Eppure il processo è contrario, alla fine è chiaro, ma ormai è troppo tardi. Lo scorticamento dell’anima che sembrava ormai concluso esige una nuova muta, una nuova metamorfosi nella consapevolezza triste, ma evidente, che l’unica possibile verità è l’inesistenza di una verità assoluta. Non è relativismo, non è nichilismo, ma semplice e pura sopravvivenza. Quando l’uomo raggiunge l’orlo del baratro i dettami morali si palesano in tutta la loro effimera consistenza: non si può giudicare, né si deve farlo. Alla fine la pelle si perde definitivamente a diventare scheletri appesi per l’eternità ad un desiderio morto, privi di difesa di fronte a un mondo che si manifesta in tutta la sua crudeltà.

E alla fine, ben ripensando, qualche dettaglio stilistico, la lieve parabola discendente degli scritti può essere perdonata, ma il primo capitolo rimane il migliore, il più doloroso e magnetico. Il ritmo placido e misurato che anima un mondo altro e nuovo dai confini imprecisati è struttura portante di una favole nera che è come una “marionetta omicida”. Sopravvivere e scarnificare: l’uno l’oggetto, l’altro il soggetto che lo plasma. Tra i due il verbo combattere.

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Hope Opinione inserita da Hope    20 Febbraio, 2013
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Potenza della tristezza

Aggiungere qualcosa dopo le svariate recensioni fatte dai miei “colleghi” è veramente arduo, quasi superfluo, però non potevo esimermi dall’esprimere un giudizio su quello che reputo uno dei migliori libri che abbia mai letto.
L’autrice è veramente brava a gettare letteralmente il lettore in una spirale di oscurità e depressione, mai banale, anzi lascia spazio alla speranza che le sorti dei protagonisti possano migliorare e invece pagina dopo pagina ci si rende conto che la vita è proprio amara per i due fratelli.
Ogni pagina è uno schiaffo, e da perfetti masochisti si divorano sempre più pagine, più di una volta mi è capitato di andare a rileggere capitoli precedenti, è stato quasi necessario, ma non per confusione della scrittrice, ma per capire meglio ogni parola. E’ sicuramente un libro profondo.
I tre libri che compongono il romanzo (Il grande quaderno 1987, La prova 1989, La terza menzogna 1998) sono scritti in maniera quasi infantile, questo è dovuto a due motivi: il primo è che sono sotto forma di diari e trattandosi all’inizio di bambini lo scivolare della storia è molto azzeccato, difatti gli episodi vengono raccontati con un’innocenza unica e molto toccante.
Il secondo motivo è dovuto dal fatto che la Kristof scriveva in una lingua non sua, quindi il vocabolario è molto limitato ma questo non limita affatto la storia!
Un libro che consiglio vivamente a chi vuole impegnarsi in una lettura piacevole e complicata.
La frase che mi ha più colpito - da scrittore - è stata questa:

"Sono convinto, Lucas, che ogni essere umano è nato per scrivere un libro, e per nient'altro. Un libro geniale o un libro mediocre, non importa, ma colui che non scriverà niente è un essere perduto, non ha fatto altro che passare sulla terra senza lasciare traccia."

Agota Kristof - Trilogia della città di K.

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mariaangela Opinione inserita da mariaangela    14 Giugno, 2012
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"il treno è una buona idea."

Pochi romanzi riescono così bene ad evocare tanti diversi sentimenti; pochi riescono davvero a creare quell'empatia con i protagonisti a un punto tale che alla fine vuoi capire, ricostruire gli accadimenti a prima vista così ingarbugliati e complessi da farti dire...ma allora..? quindi..? ma non ho capito io, oppure...E quell'oppure ti opprime, ti fa rabbia e senti tutto il peso della disperazione e dell'incolmabile solitudine. Perchè è proprio lei la protagonista di questa narrazione. La ritrovi in ogni passo.. "Rientrando, gettiamo nell'erba alta che costeggia la strada le mele, i biscotti, il cioccolato e anche le monete. La carezza sui capelli è impossibile gettarla."
E alla fine del racconto, "il treno è una buona idea" mi aiuta; non dovrebbe essere così invece lo è, perchè vuoi liberarti da quella disperazione che senti. Perchè giunti alla fine è tutto chiaro, tutto lineare, logico, in fondo l'unica verità possibile. E anche io penso senz'altro che, per fortuna, "Il treno è una buona idea."

...."Il bambino dice: Non crescerò, lo sai bene. L'ha detto il dottore.
Hai capito male....Crescerai. Meno rapidamente degli altri bambini, ma crescerai.
Il bambino chiede: Perchè meno rapidamente?
Perchè ognuno è diverso, Tu sarai meno alto degli altri, ma più intelligente. L'altezza non è importante, conta solo l'intelligenza."

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Hypo Opinione inserita da Hypo    18 Febbraio, 2012
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Sagace Matrioska nella città di K.

Appena si inizia a leggere "Trilogia Della Città K." non sappiamo ancora dove si andrà a finire, si avverte però una certa "puzza di bruciato" nella prima delle tre parti. Capitoli secchi, cruenti, estremamente drammatici dove tutto è il contrario di tutto, del niente o della più cruenta realtà.
Veniamo da subito calati in una dimensione onirica per quanto sia poi effettivamente reale (soprattutto nelle due parti che seguono) in ogni suo piccolo frammento. Non vengono specificate date, luoghi, avvenimenti, alla Kristof basta narrare la storia di due città e la presenza di una terribile guerra per suscitare le emozioni volute.
Una narrazione secca, sublime, piena di punteggiatura e ancor più piena di dialoghi. E' una disarmante facilità di lettura quella che ci prende, una lettura così semplice che cozza con gli avvenimenti tragici continuamente narrati, il risultato è quello di venire disorientati e con lo svolgere della storia in qualche modo ingannati per la ricorrenza e sovrapposizione di nomi ed avvenimenti. Ingranaggi ben oliati che vengono resi fluidi da una terza parte "rivelatrice".
Alla fine si rimane un poco di sasso, si pensa all'inizio e a metà libro, si torna indietro di alcune pagine per essere sicuri di aver letto bene (credo sia questo in fondo l'obiettivo della scrittrice) un preciso passaggio.

Personalmente reputo un piccolo "capolavoro/trip" il "Grande Quaderno" al quale non servono ghirigori per colpire il lettore con cruenta e fiabesca crudezza. Con la "La Prova" si assiste ad indizi più precisi e la storia prende mano a mano forma concreta per trionfare poi nel finale dal nome "La Terza Menzogna". Dove sta lo spartiacque? Dove stanno follia o semplice invenzione? Starà a voi decidere dove.

Questo libro può attirare a se diverse tipologie di lettore, chi cerca dramma e semplicità ne diventerà ubriaco, alla stessa maniera di chi saprà cibarsi con veli d'insensata incompiutezza. "Trilogia Della Città K." è un libro destinato a farsi rileggere, su questo non ci piove.

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erlebnis Opinione inserita da erlebnis    03 Febbraio, 2012
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Interessante ma sopravvalutato

L'indubbio merito dell'autrice è quello di aver realizzato un intreccio con grande sapienza, senza sacrificare alla laboriosità di tale operazione il potente impatto emotivo che investe il lettore sin dalle prime pagine dell'opera.
Il punto debole del romanzo è, per chiunque, come me, ami l'armonia tra le scelte stilistiche, il contenuto e le finalità dell'autore/autrice, la mancanza di equilibrio tra una narrazione che vuole denunciare la spietata drammaticità della guerra ed una sperimentazione stilistica esasperata. Certo, molti esaltano proprio la crudezza dello stile della Kristof. Eppure, a ben guardare, ci sono due considerazioni da fare a tal proposito. La prima concerne l'abuso dell'aggettivo "innovativo". Uno stile secco, crudo, estremamente realistico, violento, non è stato inventato dalla Kristof che, quindi, a voler essere precisi, non ha "innovato" la letteratura contemporanea. La seconda è conseguente la prima. Al di là del gradimento del romanzo (questione soggettiva), bisogna comprendere se lo stile è adeguato al contenuto e alle finalità dell'autrice. Contrariamente a quanto sostenuto da più parti, ritengo che la ricerca affannosa di una scrittura "sperimentale-a-tutti-i-costi" rischi non solo di creare delle aspettative sproporzionate nel lettore (il finale è molto meno sorprendente di quanto si creda), ma, soprattutto, di depotenziare con affettazione e artificiosità una denuncia che conserva la propria forza e la propria sincerità, più per merito della sensibilità del lettore che per la forma in cui è incanalata.
Comunque, è un romanzo che, al di là di questo "squilibrio" tra contenuto e forma, indubbiamente coinvolge il lettore.

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Opinione inserita da Alessandro    28 Dicembre, 2011

Immancabile nella libreria personale di ognuno

Un libro intenso, una storia cruda che apre la mente alle riflessioni sui danni provocati dalla guerra, sulla inadeguatezza della parola "Liberta'".
Un'autrice di livello che ci trasmette nelle pagine del suo libro esperienze e ricordi che sicuramente arrivano dall'Ungheria invasa dai russi.
Libro da non perdere.

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1984 di G. Orwell
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Marghe Cri Opinione inserita da Marghe Cri    08 Mag, 2011
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Un libro da leggere

Non svelerò la trama perché quello che accade ed i personaggi stessi vanno visti in diretta, percorrendo i tre capitoli di questo racconto triste, disperato, rassegnato, violento, sentimentale, fiabesco, un po’ folle.
I tre capitoli hanno quasi una loro vita autonoma, pur proseguendo un unico racconto.
Nel primo (Il grande quaderno) sembra quasi di trovarsi nell’Emile di Rousseau: due gemelli, ancora nell’infanzia, crescono totalmente liberi in una piccola fattoria allargando i propri confini di esplorazione al mondo tutto intorno, ma al posto del precettore col compito di aiutarli ad elaborare le esperienze c’è una nonna ignorante cinica e malevola che li rafforza nella loro volontà e nello sforzo di diventare insensibili a tutto, al dolore come ai sentimenti, e a diventare una cosa sola, un unico essere quasi inscindibile.
Nella seconda e nella terza parte la storia viene riscritta e portata a termine con una serie di colpi di scena ed invenzioni che non è davvero possibile presagire.
Lo stile di scrittura nel primo capitolo è secco incisivo e quasi piatto, la maggior parte dei personaggi è volutamente priva di profondità e la prosa è quasi acerba: frasi brevi e capitoli brevi. Il motivo di questa scelta stilistica sarà chiaro più avanti, proseguendo la lettura.
Nei capitoli successivi lo stile cambia, i personaggi acquistano anima e sentimenti e la storia comincia ad acquisire complessità.
Quello che colpisce maggiormente è il senso di solitudine, di cui sono intrise tutte le pagine, che si arricchisce a volte di sfumature di amore, a volte di rabbia, a volte di odio.
La prosa è magnetica: impossibile lasciare da parte questo libro, difficile staccarsene quando lo si finisce. Sono quasi quattrocento pagine, ma volano via, lasciando la sensazione di essersi immersi in una favola triste in cui tutti i personaggi pare si impegnino a soffrire quanto più possibile.
Riporto una frase del libro, che appare verso la fine:

“La vita è di un'inutilità totale, è non senso, aberrazione, sofferenza infinita, invenzione di un Non-Dio di una malvagità che supera l'immaginazione.”

Lo consiglio: è un libro da leggere, un libro bello, un libro che resta dentro.

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orny Opinione inserita da orny    28 Novembre, 2010
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Una magnifica durezza

Un libro che di certo non lascia indifferente il lettore.
La prosa è severa e magnifica. Frasi brevi, incisive, chiare, dirompenti, dure, laconiche. Che vanno diritte al punto descrivendo senza pietà e senza pietismi tutti i dolori che accompagnano le vite dei 2 gemelli protagonisti Claus e Luca.
Nessuno spazio a elucubrazioni, ragionamenti, riflessioni argomentate. Solo fatti e talvolta qualche considerazione sintetica e spietata.
La bellezza del libro, oltre che nella storia ben congeniata in 3 parti, sta, secondo me, soprattutto nella prosa.
Delle 3 parti, la migliore, a mio avviso, è la prima.
Un piccolo appunto: il titolo del libro nella traduzione italiana di Einaudi non mi è sembrato molto allettante.
Ed una curiosità: la traduzione spagnola (non mi ricordo l'editore) porta come titolo, semplicemente, "Claus e Luca".

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Pier Paolo Pasolini, Peter Hoeg
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Nené Opinione inserita da Nené    07 Agosto, 2010
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Un ritratto fedele del dolore e dell'amarezza

Lo schema della trilogia si applica perfettamente alla storia narrata. Tre tappe di formazione di due gemelli, Lucas e Claus, che tentano di sopravvivere nella disperazione della guerra prima e nelle asperità della dittatura poi.

Nei primi due racconti il lettore viene condotto in una vicenda surreale, quasi macabra, in cui è difficile distinguere il vero dal falso, i personaggi reali da quelli di pura fantasia. Finché poi i personaggi non si rincontrano nella terza storia, più lucida e lineare, seppur nel rispetto dello stile e della prosa dei primi, e tutto si fa più chiaro. Le vicende surreali narrate nelle prime due storie vengono raccontate sotto una luce diversa, sicuramente più
realistica, ma che nulla toglie a quel profondo senso di dolore che è filo conduttore l'intera trilogia.

Una storia cruda, a tratti crudele, sicuramente toccante, che a suo modo apre una pagina di storia, seppur vicina, spesso dimenticata.

Un voto in meno alla piacevolezza, ma solo perchè "piacevole" non mi sembra l'aggettivo adatto a questa lettura. Consigliato vivamente.

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gracy Opinione inserita da gracy    06 Giugno, 2010
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Un vortice....un labirinto...

Il grande quaderno - La prova - La terza menzogna.

"....Un libro, per triste che sia, non può essere triste come una vita."

Il grande quaderno - La prova - La terza menzogna.

Una lettura spigolosa, lacerante e spietata, con una prosa assolutamente semplice e diretta. Una doccia fredda. Parola d'ordine di tutto il libro è il "dolore". Il dolore che devono sopportare tutti indistintamente i protagonisti e il dolore che prova il lettore durante la lettura di tutto il libro. Pagina dopo pagina è come se un ragno delicatamente costruisse la sua tela per meglio imprigionare tutti, consapevoli e rassegnati che l'evoluzione del dolore è la morte. La guerra, la disperazione, l'odio, la malattia, l'amore, l'indifferenza e il cinismo sono gli elementi dominanti che permangono costantemente nella narrazione della storia dei due principali protagonisti Lucas e Claus, due gemelli, un’anima e due corpi che si confondono a partire dal nome, l’uno l’anagramma dell’altro. L'infanzia dei due è vissuta accarezzando da lontano il sentimento "amore", cresceranno in un mondo crudele che li porterà a smarrirsi e a ritrovarsi in una realtà distorta e a tratti inestricabile, ribaltando tutta la storia che sembrava assodata.

"Il grande quaderno" e "la prova", mi hanno colpito maggiormente, sono stati raccontati come una favola raccapricciante e urticante, si sussegono le storie disumane e ignobili di bambini che si adattano alle disgrazie e diventano più forti degli adulti.

Intorno a Claus e Lucas ruotano personaggi emblematici come La Nonna strega, Labbro leporino, Mathias, Yasmine, Clara, Peter e molti altri.

"Il dolore diminuisce, i ricordi si attenuano".

"E quando avrai troppa pena, troppo dolore, e se non ne vorrai parlare con nessuno, scrivi. Ti aiuterà."

"Il verbo amare non è un verbo sicuro, manca di precisione e di obiettività."

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Cecità di J.Saramago, 1984 di Orwell
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Opinione inserita da Maristella    04 Febbraio, 2008

" Certe vite sono più tristi del più triste dei

Con una prosa cruda, diretta ed essenziale, pervasa da sfumature di surrealismo ed allucinazione, Agota Kristof, scrittrice ungherese naturalizzata svizzera, ci trascina nel dolore, nell’orrore e nell’assurdità della guerra con questo drammatico ed originalissimo libro.



Come si comprende dal titolo, il libro è diviso in tre parti legate fra loro da un filo quasi invisibile di sofferenza e solitudine che, intrecciando la mente e l’anima del lettore lo conduce, in un coinvolgimento totale, a percepire i sentimenti dell’estrema incertezza e della malinconica solitudine della vita, soprattutto quando sopraffatta da un’ impietosa realtà.



La prima parte, intitolata “ Il Grande Quaderno”, narra la storia di due fratelli gemelli, Klaus e Lukas, che durante una guerra ( non meglio definita, ma si pensa l’ultima) e in un paese (anch’esso mai nominato, ma si presuppone dell’Est), vengono per necessità abbandonati dalla propria madre a casa della nonna, una vecchia malvagia e dispotica. I ragazzi porranno in atto tutte le strategie di sopravvivenza possibili, fino a veri e propri esercizi di dura autopunizione, per poter prevaricare il male che nonostante tutto li sovrasta inesorabilmente, facendoli crescere con una mentalità distorta, la quale, sfiorando spesso la pura perfidia, apporta loro un’infelicità esistenziale profonda e ben radicata nel tempo.



Nella seconda parte, intitolata “ La Prova”, i gemelli effettuano un’ultima terribile e suprema prova: la loro separazione. Essa sara’ possibile solo con l’attuazione di uno spietato e calcolato parricidio. Da questo momento, Lukas, il fratello rimasto, vive una vita disadattata e cupa, in un paesaggio desolante, denso di personaggi stillanti devastazione e abbandono. Conosciamo così Victor, il libraio alcolizzato con l’ossessionante pensiero di scrivere un romanzo, Peter l’omosessuale funzionario di Partito, Clara che lo inizierà all’amore adulto, Yasmine con cui convivrà e suo figlio Mathias, a cui farà da padre, un ragazzo di straordinaria intelligenza e sensibilità, con una malformazione alla quale non sarà in grado di reagire e che lo condurrà verso una straziante decisione.



La terza parte, intitolata “ La Menzogna” sarà il luogo delle destabilizzazioni, sia per i protagonisti della storia sia per il lettore.



Tutto ciò che è stato letto in precedenza viene ripercorso, distorto, rimesso in discussione fino al disorientamento totale che condurrà perfino al dubbio dell’esistenza di una gemellarità, la quale, potrebbe essere stata soltanto l’aggrapparsi ad un’ intima invenzione, per appropriarsi di quella forza indispensabile ad affrontare un mondo tanto disincantato e brutale.



La Kristof, con una straordinaria costruzione narrativa, ci costringe ad attraversare il danno e l’indelebile segno che la mostruosità della guerra può portare, soprattutto negli animi infantili, costringendoli a vederne e subirne gli orrori, a non cedere al dolore ricacciando le lacrime, a rinunciare ai loro bisogni primari, alla dolcezza e alla tenerezza necessari per una giusta crescita.



Un romanzo di grande impatto emotivo, dove la menzogna è correlata alla verità più di quanto sia possibile immaginare, dove l’intuizione per gli avvenimenti raccontati, sfuma in altre infinite forme e consegna al lettore tutto il suo carico claustrofobico di indeterminatezza e di perdita di confini concreti, un carico di sofferenza che gli trasferisce dentro il raccapriccio verso l’iniquità e la disumanità di ogni guerra.

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