Saggistica Religione e spiritualità Il conto dell'Ultima Cena
 

Il conto dell'Ultima Cena Il conto dell'Ultima Cena

Il conto dell'Ultima Cena

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La tradizione ebraica della kasherut indica i cibi che si possono consumare perché conformi alle regole della Torah. Ma oltre a questo, il cibo ebraico ha prodotto un'enorme mole di storielle, divieti, ricette e prescrizioni che Ovadia ripercorre con la consueta miscela di umorismo e santità: cullandoci tra pasti e digiuni, tra falafel, molokheya, hommus e altre leccornie, tra antiche osterie e contaminazioni culinarie, e una musica che accompagna l'ospite a tavola, con l'ironia tipica dell'ebreo errante. Per un viaggio che guarda al cielo con il gusto della terra. Un viaggio dalla manna del deserto, il cosiddetto «pane degli angeli», fino a Pesakh, la Pasqua, dove un Gesú ebreo mangia agnello, pane azzimo, erbe amare e dessert.



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Il conto dell'Ultima Cena 2015-08-13 17:46:00 FrancoAntonio
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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    13 Agosto, 2015
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Ed il resto? Manc(i)a

Pare che esista una antichissimo rituale che viene ripetuto rigorosamente con gli stessi gesti da millenni all'elezione di ogni nuovo pontefice: il rabbino capo di Roma si presenterebbe in Vaticano scortato da una rappresentanza della comunità ebraica romana e, con aria interrogativa, porgerebbe al nuovo Papa una vetusta pergamena sigillata che il Sommo Pontefice sdegnosamente rifiuterebbe facendo accompagnare fuori la delegazione. Solo una volta un Papa, ignoto alle cronache, spinto dalla curiosità, si sarebbe accordato con il Rabbino per sbirciare in gran segreto, terminato il rito, l’antichissima pergamena. Aperti i sigilli, questa si sarebbe rivelata essere… il conto dell’Ultima cena.
Esordisce così con questa specie di witz (storiella umoristica ebraica) questo volumetto di Moni Ovadia dedicato al cibo, come cultura e come espressione stessa di un popolo, segnatamente, quello ebraico.
La struttura è abbastanza insolita, infatti si parte dal commento di un film greco: “Politikì kuzina” (in Italia “Un tocco di zenzero”) che, per chi non l’ha visto, tratta dei difficili rapporti della comunità greco ortodossa nella Turchia moderna tra difficoltà di integrazione e astiosa segregazione ed esilio, tutto visto attraverso il filtro della tradizione culinaria di quel popolo.
Si passa, poi, ad un lunghissimo capitolo intermedio nel quale Ovadia cerca di tratteggiare la psicologia e cultura ebraica in relazione al cibo, attraverso una serie di witz postillati e collegati gli uni agli altri con la tecnica che lo ha reso famoso in teatro.
Il volume prosegue con una ricostruzione delle tradizioni gastronomiche ebraico-sefardite, attraverso una intervista a distanza di una amica dell’autore e si chiude con una sorta di ricettario commentato di piatti della tradizione.
Opera insolita, quindi e solo parzialmente riuscita. La discontinuità della narrazione è il principale pregio del libro, ma anche il difetto sostanziale. Sicuramente, infatti, se Ovadia si fosse limitato ad inanellare una serie interminabile di witz - alcuni dei quali di yiddish, consentitemelo, hanno assai poco, trattandosi niente altro che di vecchissime barzellette rimasticate in innumerevoli salse - ne sarebbe uscito un libro stucchevole da leggere. D’altra parte il cambiare continuamente marcia da un capitolo all'altro, disorienta e non fa capire quale sia lo scopo ultimo dell’autore. Se, cioè, abbia inteso trattare seriamente la questione della civiltà in cucina o se si sia limitato a utilizzare la culinaria come scusante per parlare di tutto un po’ senza approfondire nessun tema.
Ovadia confessa in finale di non sentirsi portato alla scrittura e c’è sicuramente del vero in ciò: il siparietto dei witz, in teatro sarebbe risultato sicuramente più gradevole, condito con l’istrionica abilità dell’autore, ma qui ha soprattutto il sapore di un barzellettiere. Gli altri argomenti, poi, sarebbero più adatti ad una conversazione “colta” da salotto buono, ma forse sono un tema insufficiente per attrarre l’attenzione di un lettore.
Peccato, perché l’argomento in sé aveva una sua attrattiva ed avrebbe potuto/dovuto essere trattato con maggior rigore in ossequio alle tesi che si desiderava sostenere e che sono solo accennate all’inizio del libro: davanti al buon cibo, in fondo, gli uomini si dovrebbero tutti sentirsi fratelli dismettendo ogni forma di rancore reciproco.

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Consigliato a chi apprezza Moni Ovadia (soprattutto come uomo di spettacolo) o ha letto gli altri suoi libri: Oylem Goylem, L'ebreo che ride, Ballata di fine millennio, etc.
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Il conto dell'Ultima Cena 2011-01-15 16:51:23 Jan
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Jan Opinione inserita da Jan    15 Gennaio, 2011
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Una tristezza.

Moni Ovadia è diventato la caricatura di se stesso.
Sono come Gad Lerner, abbraccio in pieno le parole del buon giornalista:"Ormai per qualcosa di ebraico, in Italia, si viene rappresentati unicamente da Ovadia. Io questo non lo concepisco".
Salomone Ovadia ha veramente rotto: questo libro ne è la prova.Di Santo l'ha scritto e lui l'ha colorato di banalità: notizie sulla kasherut note anche ai gentili, barzellette ripetute mille volte, la solita infernale prosopopea.
Ancora è convinto di risultare intelligente.
Il libro è stato concepito come prodotto commerciale,del resto il buon uomo di sinistra Ovadia non disdegna il denaro, anzi. Naturalmente odia Israele, e questo scaturisce addirittura dalle pagine delle ricette!!!
Ma lo fa perché in fondo...come ebreo (cioé intelligente...perché è questo l'autogoal industriale che fa passare per collettivo)lui se lo può permettere.
Impara lo yiddish, Ovadia!
Ai tuoi spettacoli l'argot non basta più!

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