Saggistica Storia e biografie La strega e i capitano
 

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La strega e i capitano

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Nel febbraio del 1617, a Milano, Caterina Medici, serva «carnosa ma di ciera diabolica», viene condannata al rogo. In apparenza, uno dei tanti casi di stregoneria depositati nei nostri archivi. Ma la scrupolosa, o meglio accanita, ricostruzione che all’atroce caso – ricordato da Manzoni nel XXXI capitolo dei Promessi sposi – dedica Sciascia in questo libro del 1986 ci mostra che non è così, giacché tutta la vicenda nasconde tra le pieghe interrogativi e zone d’ombra.



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La strega e i capitano 2017-12-06 13:22:52 Laura V.
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    06 Dicembre, 2017
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Tortura

Quando, tempo fa, venni a conoscenza dell’esistenza di questo libro, non immaginavo che avrei avuto occasione di reperirlo e leggerlo tanto presto. Ne trovai un accenno tra le note de “I promessi sposi” di Alessandro Manzoni, all’interno del capitolo XXXI per la precisione, mentre nella narrazione dilagava la peste.
Ed è proprio da questo capitolo che prende le mosse il libro di Sciascia, un ottimo saggio-racconto che riconsegna alla Storia una piccola e anonima vicenda destinata altrimenti, al pari di chissà quante altre, a restare sepolta nell’oblio. La piccola storia in questione è quella di Caterina Medici, “strega professa” dalle demoniache frequentazioni secondo chi la giudicò e condannò, ma più che avvezza a pratiche magiche e ad amplessi con Belzebù la donna era rassegnata a fare il bucato, strigliare i pavimenti e tenere aperta la porta della propria camera da letto per chiunque avesse voluto godere della sua intima compagnia, dal momento che la sua condizione di domestica sembrava autorizzare padroni e servi ad approfittare di lei.
Mentre al Manzoni bastò chiamarla semplicemente “povera infelice sventurata”, senza per nulla dilungarsi sul suo caso, a costei Sciascia ridà nome e dignità, ricostruendone, sulla base degli atti del processo istruito a suo carico, la triste e sfortunata vicenda umana terminata anzitempo su un patibolo in quel di Milano. Il 4 marzo del 1617, esattamente a distanza di un mese dalla fine del processo, Caterina venne strangolata e messa al rogo, dopo essere stata esposta al pubblico ludibrio e generosamente dilaniata con una tenaglia rovente a bordo di un carro che percorreva le vie e i quartieri principali della città. Inutile dubitare della partecipazione della folla milanese (e forse anche di quella della provincia) al terribile e diabolico (quello sì!) spettacolo; del resto, è presumibile che fosse intenzione delle autorità politiche dare un forte monito in materia di stregoneria professionistica e, nel contempo, non distaccarsi dal saggio dettato di romana memoria del “panem et circenses” (oggi si continua a non farci mancare almeno i secondi).
Sono rimasta colpita dall’accento posto sulla questione della tortura, argomento che mi porta ad accostare questo libro a un’altra nota pubblicazione del Manzoni ovvero “Storia della colonna infame”: streghe da una parte e untori dall’altra, tutti presunti e creati ad arte più che reali, creature forgiate dal pregiudizio, dall’oscurantismo e dall’ignoranza dei tempi; ma anche dagli stessi trattamenti coercitivi (e la mente umana sì che ne ha partoriti fin dalla notte dei tempi) che inducevano persino i più resistenti ai dolori del corpo a confessare crimini inverosimili mai commessi e chiamare in causa complici mai avuti. Possibile che di questo difetto della tortura nessuno fra coloro che la prescrivevano con tanto zelo, manco si fosse trattato di una medicina, fosse consapevole? Essa veniva davvero considerata un mezzo infallibile per scoprire la verità nient’altro che la verità?
Senza dimenticare che la tortura non è un vecchio e sbiadito ricordo del passato ed esiste purtroppo ancora oggi, per rispondere a tale quesito niente di meglio delle stesse parole dell’autore…
Ma “la tortura non è un mezzo per iscoprire la verità, ma è un invito ad accusarsi reo ugualmente il reo che l’innocente; onde è un mezzo per confondere la verità, non mai per iscoprirla”: e questo i giudici lo sapevano anche allora, si sapeva anche da prima che Pietro Verri scrivesse le sue Osservazioni sulla tortura, si è saputo da sempre. Nella mente e nel cuore, in ogni tempo e in ogni luogo, ogni uomo che avesse mente e cuore l’ha saputo: e non pochi tentarono di comunicarlo, di avvertirne coloro che scarsa mente e poco cuore avevano.

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La strega e i capitano 2011-02-10 08:37:58 Renzo Montagnoli
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    10 Febbraio, 2011
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Storia e letteratura

“… nel giro di tre settimane ne è venuto fuori questo racconto. Come un sommesso omaggio ad Alessandro Manzoni, nell’anno in cui clamorosamente si celebra il secondo centenario della sua nascita.”



La storia, o meglio le piccole storie che sono espressioni di un’epoca e di una società, hanno sempre appassionato Sciascia, al punto da alternare la sua attività di narratore a quella di saggista, e in entrambi casi con eccellenti risultati.
Gli spunti gli venivano da carteggi esaminati nel corso di ricerche, ma in questo caso, invece, l’origine dell’opera sta nel lavoro di un altro autore assai conosciuto, Alessandro Manzoni.
Infatti, nel capitolo 31° de “I promessi sposi” si possono leggere queste righe, a proposito del protofisico Lodovico Settala, professore di medicina e autore di opere di rilievo, meriti però che non impedirono al popolo milanese di vedere in lui un untore:
“Un giorno che andava in bussola a visitare i suoi ammalati, principiò a radunarglisi intorno gente, gridando esser lui il capo di coloro che volevano per forza che ci fosse la peste…”. Manzoni altresì spiega che riuscì il Settala ad evitare il peggio e a riacquisire il prestigio e il rispetto allorché, con suo “deplorabile consulto, cooperò a far torturare, tanagliare e bruciare, come strega, una povera infelice sventurata, perché il suo padrone pativa dolori strani di stomaco”.
E di questa sventurata strega, di nome Caterina dei Medici, si interessa Leonardo Sciascia al punto di raccogliere in questo libro (La strega e il capitano) la triste vicenda che la vide protagonista suo malgrado, vittima ovviamente innocente, e che finì la sua esistenza strangolata e bruciata in piazza il 4 marzo 1617.
Come è consuetudine dell’autore siciliano il suo lavoro è volto a far chiarezza e a ricercare la verità, con una puntigliosa ricostruzione, nel più piccolo dettaglio, del processo per stregoneria evitando di omettere i nomi dei prestigiosi personaggi coinvolti, che invece Manzoni tralascia, per una sorta di omertà, come spiega Sciascia, conseguenza di una deferenza verso famiglie talmente altolocate da ritenere indispensabile non associarle a una così orrenda vicenda, benché a distanza di molti anni.
La povera Caterina, dalla vita assai infelice, fra l’altro era convinta di essere una strega, dal che si deduce che fra giudici e imputata si venisse a instaurare un legame di reciproco rispetto, ma forse la sua sorte sarebbe stata più benigna se i suoi accusatori non avessero avuto il notevole peso politico che invece era proprio dei familiari del senatore Luigi Melzi.
Come è possibile comprendere, quindi, i motivi per un interesse di Sciascia sono stati più d’uno e infatti lui ha scritto un saggio storico che finisce con l’essere un libro contro l’intolleranza e la malapolitica, realizzando un lavoro di sicuro interesse su qualche cosa del passato, ma con gli occhi sempre rivolti al presente, un monito quindi, o meglio un avvertimento.
Da leggere, indubbiamente.

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