Le recensioni della redazione QLibri

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    28 Gennaio, 2023
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Forzato e banalotto

Piergiorgio Pulixi è uno di quegli autori che mi hanno sempre incuriosito, considerato il suo discreto successo, e di cui mi ero prefisso prima o poi di leggere qualcosa. Quel momento è arrivato e, tuttavia, la sensazione è che mi ha dato questa lettura non è delle migliori. È sicuramente un libro che si lascia leggere, che mettendosi d’impegno si potrebbe finire anche in un giorno, ma… ci sono diverse pecche che non mi sento di ignorare.
Voglio partire, come sempre, dallo stile: come ho detto la prosa di Pulixi si lascia leggere con facilità, ma a questa fluidità si accompagnano spesso delle banalità quasi da principiante, delle frasi stereotipate che sanno di scrittore esordiente. È proprio questa la sensazione che si avverte nel corso di tutto il romanzo: di avere a che fare con l’opera prima di un autore, di quelle produzioni giovanili che si rileggono dopo anni e fanno sorridere per ingenuità e inesperienza. E questo non riguarda solo lo stile, ma anche lo scarso peso che viene dato agli eventi e alle relazioni interpersonali tra i personaggi: manca tutto di profondità, di sfumature, a volte anche di senso; come se i personaggi fossero costretti ad essere bidimensionali pur di rispettare il ruolo che l’autore gli ha affidato, senza lasciare spazio alla complessità. Giusto per fare un esempio sul protagonista, Marzio Montecristo, l’autore ha deciso che debba essere a tutti i costi un uomo burbero con gli adulti e con i clienti (è proprietario di una libreria) e dunque li manda indiscriminatamente tutti a quel paese, come se fosse qualcosa di inevitabile e matematico, al preciso scopo di strappare una risata al lettore. Qualche volta ci riesce, ma spesso si avverte la forzatura, si capisce quanto Pulixi sacrifichi la credibilità del personaggio al suo scopo comico. E questo non è piacevole né limitato al solo protagonista.
Sebbene l’idea di un gruppo di lettura a tema gialli che si trasformi in una piccola squadra investigativa sia molto carina, l’ho trovata poco sviluppata. Difatti, considerate le conclusioni alle quali giunge il gruppo, anche un uomo normale con un po’ di sale in zucca avrebbe potuto avere le stesse intuizioni, gettando un’ombra sulle capacità investigative della polizia.
La trama è davvero molto semplice e sorge più di qualche dubbio riguardo ai moventi, dell’assassino e non. Evito di dire altro per evitare spoiler, ma se leggerete il romanzo capirete. Oltre ciò, il problema continua a essere il peso: quando l’assassino viene scovato, viene trattato con i guanti e quasi com benevolenza. Va bene i traumi, va bene le ingiustizie, ma questo tizio ha ucciso a sangue freddo diverse persone: possibile che nessuno si spaventi o ne sia in qualche modo disgustato? È tutto troppo buttato lì, senza un barlume di complessità, né nell’intreccio né nella psicologia dei personaggi.
Penso che oltre a qualche buona idea (che come ho già detto è però poco sviluppata) e al fatto che si legga davvero in pochissimo tempo, si fatichino a trovare altri pregi a questo giallo; che consiglio solo agli amanti del genere che hanno come unica pretesa quella di passare un pomeriggio a leggere.

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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    03 Gennaio, 2023
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Cioccolato e vecchi merletti

La sua recente scomparsa ha destato impressioni, emozioni e sentimenti vari, magari opposti tra loro, in tutto il mondo. A lungo se ne è parlato, malgrado l’età avanzatissima la sua dipartita ha sorpreso tutti, perché vedete, per generazioni succedutesi negli anni, lei è stata una icona inscalfibile, un vero e proprio testimone dei tempi trascorsi.
Insomma, di eventi in circa un secolo, e che secolo, se ne sono succeduti tanti, veri e propri fatti storici e memorabili che si studiano nelle scuole di ogni ordine e grado, e lei c’era, li ha vissuti tutti, li ha gestiti talora in prima persona, era presente in prima fila. Una presenza rassicurante per il suo popolo, talora controversa, una figura particolare di cui tanto si è detto e di cui ancora tantissimo si dirà e si studierà, lei era la Regina, sapete, non di quella delle fiabe, una sovrana reale, lei era l’Inghilterra.
Parliamo come avrete intuito della Regina Elisabetta II del Regno Unito d’Inghilterra, più precisamente regina del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord e degli altri reami del Commonwealth dal 6 febbraio 1952 all'8 settembre 2022: oltre 70 anni, per cui è stata direttamente o indirettamente testimone di eventi indimenticabili della Storia. Iniziando, giusto per dire, dai conflitti mondiali con le loro conseguenze su genti e territori da lei amministrati, e proseguendo via via con i cambiamenti degli anni ‘60 e ’70, mutamenti epocali tra i quali la devoluzione del potere nel Regno Unito e la decolonizzazione in Africa, poi la guerra nelle Falkland negli anni ’80; ancora, sempre come semplice esempio, ricordiamo che ha assistito alla caduta del Muro di Berlino e al disfacimento del regime comunista sovietico, il sorgere dell’epoca digitale, l’avvento di pc, internet e cellulari, per giungere all’entrata del suo paese nella comunità europea fin dal primo sorgere dell’UE, e finanche alla sua successiva fuoriuscita con la Brexit, fino a giungere ai drammatici recentissimi eventi della pandemia da covid-19, il lockdown e tutto quanto ne è conseguito e tuttora incide sui nostri giorni.
Il tutto, destreggiandosi allo stesso tempo abilmente con le problematiche familiari private, di necessità pubbliche per simili personalità, come valga per tutto l’esempio del disastroso matrimonio del proprio primogenito erede al trono con la principessa Diana, la principessa del popolo amatissima dagli inglesi, scomparsa in drammatiche circostanze in un incidente di enorme impatto emotivo per i suoi sudditi.
Tutto quanto ciò premesso è per dire che “Bournville” di Jonathan Coe né più né meno è, come Elisabetta, un testimone della storia inglese degli ultimi decenni, un romanzo di testimonianza diretta, altamente descrittivo delle emozioni popolari sorte in coincidenza con i fatti più eclatanti della storia inglese.
Questo è un libro dove l’autore assume a modello del suo dire un microcosmo, una comune cittadina della provincia inglese, Bournville appunto, con tanto di classica topografia cristallizzata:
“…un intero villaggio…Case, negozi, una chiesa. La chiesa è l’edificio principale, proprio al centro dell’abitato. Il campanile è così alto…Accanto ci sono il macellaio, il fornaio…il calzolaio…Tutti i negozi sono sulla stessa strada, una lunga via alla fine della quale c’è la piazza del villaggio, con la torre dell’orologio e il palco per la banda.”
Città naturalmente con la topografia per quanto statica tuttavia in evoluzione, come è giusto che sia, per cui i protagonisti stentano a riconoscerla dopo tanto tempo trascorso da quando se ne sono allontanati, come succede a chiunque.
Tutta la cittadinanza, come succede in simili piccole realtà, ruota intorno alle alterne vicende della più importante fonte di reddito del posto, una fabbrica di cioccolato, con i protagonisti che in quella lavorano a vario titolo e ruolo nel corso delle discendenze familiari, e Jonathan Coe ne fa lieto racconto, lo snoda attraverso gli anni seguendo le vicende dei primi attori sulla scena e poi i loro figli e nipoti, quindi è una descrizione attenta dell’evolversi di tradizioni, modi di pensare, di essere, usi e costumi, rivelati proprio dal vivere comune dei vari personaggi. Anche, e soprattutto, della morale corrente, basta vedere come erano ancora visti gli omosessuali appena pochi decenni or sono, detto da voci autorevoli:
“…Gli uomini come quello sono la feccia della feccia. Ricordati solo questo. La feccia della feccia.”
Non a caso il romanzo inizia la sera dei festeggiamenti per la fine dell’ultimo conflitto mondiale, termina ai nostri giorni con la paura del nuovo morbo, le restrizioni e le reclusioni a cui obbliga i protagonisti, fino ad un epilogo placido e naturale, esattamente come è il corso dell’esistenza di ognuno.
Un racconto normale, anche ben scritto, in pure stile britannico, con tanto di atmosfere british stile arsenico e vecchi merletti, anzi più precisamente cioccolato e vecchi merletti. Ecco, forse il limite del romanzo è proprio questo: certamente non è un libro sovranista o nazionalista, tutt’altro, però ha troppo un’impronta locale. Voglio dire, piacerà sicuramente ad un inglese, che ritroverà certamente l’evolversi della mentalità britannica nel corso del tempo, e il che è interessante, attrae, si fa leggere con piacere, ma credo piacerà un po' meno al lettore non anglosassone. Come chi scrive.
Certamente è un testo ironico, piacevole, a tratti divertente, ed è interessante leggere le reazioni e la partecipazione emotiva popolare il giorno dell’incoronazione della Regina Elisabetta II, giusto lei; e poi, la vittoria della nazionale inglese nel campionato mondiale di calcio del 1966, manco a farlo apposta battendo in finale la Germania, acerrima nemica nell’ultimo conflitto mondiale. E poi ancora, il matrimonio tra Carlo e Diana in una atmosfera fiabesca, fantastica, irreale, fuori del tempo, e l’altrettanto grandioso funerale della sfortunata Principessa. Come il ciclo della vita, non a caso ma per precisa e significativa scelta artistica di Coe, il romanzo termina in piena epoca appena post covid nel settantacinquesimo anniversario della fine della guerra, esattamente come il giorno in cui è iniziato.
Un testo che parla dell’Inghilterra, e del suo popolo, abbiamo detto; e però Jonathan Coe è scrittore di razza, in certe pagine riesce a farsi leggere, a farsi apprezzare, da ogni lettore; come, ad esempio, quando racconta dei giorni in cui infuria il Covid:
“…La pandemia, di cui forse stiamo vedendo soltanto gli inizi, ha già creato situazioni di grande crudeltà. Famiglie separate da enormi distanze, impossibilitate a vedersi per molto tempo…E naturalmente milioni di morti improvvise, premature. Milioni di vite spezzate, quando la gente pensava di avere davanti a sé ancora molti anni, forse decenni…”
E poi, con tono sempre più toccante, va oltre, è qui e ora che diviene scrittore universale, perciò di valore:
“…gli ultimi mesi della vita, li abbiamo vissuti attraverso lo schermo di un computer…Questi schermi, queste finestre sono le barriere di vetro, silicone, plastica che la pandemia ha innalzato tra noi. Siamo stati costretti a separarci e a comunicare con modalità che sono solo una pallida imitazione, a volte una parodia, di ciò che è un autentico contatto tra le persone… “
In sintesi, Jonathan Coe in “Bournville” parla della vita, e di noi tutti.
Perché per tutti noi l’esistenza è un mantra:
“Tutto cambia e tutto resta uguale”
Solo che Coe, tra le righe, fa risuonare le prime note di “God save the Queen”, o the King che dir si voglia. Ma non tutti sanno cantarla benissimo quanto un inglese.


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Jonathan Coe
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Romanzi storici
 
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    31 Dicembre, 2022
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Kaweka e Lita

Sono passati già tre anni da quando Falcones deliziò il suo pubblico in libreria con un’opera corposa e stratificata quale “Il Pittore di anime”. Uno scritto, questo, capace di trascinare il lettore tra colpi di scena e fatti storici realmente accaduti che difficilmente deludono le aspettative e che anzi sono capaci di trattenere con il fiato sospeso. Ma Falcones non si ferma e in questo 2022 torna in libreria con un altro romanzo storico intrigante e interessante. Questa volta l’autore si sposta e ci riporta in un continente diverso e in un’epoca ancora più diversa e remota. È infatti Cuba il luogo di destinazione di quella nave carica di anime e volti in quel 1856. Quando la nave attracca presenta a bordo un carico non fatto di merci quanto di donne e bambini considerati tali. Il peggio sembra essere ormai finito dopo un viaggio estenuante e fatto di stenti, pensano, ma si sbagliano di grosso e ben presto lo scopriranno e a caro prezzo.

«Lei stessa capì che quel momento non si sarebbe affatto concluso con il dolore delle frustate: comportava anche il superamento di una tappa nella vita di una ragazzina innocente che come tutte loro era capace di sorridere di fronte alle disgrazie, di giocare nello stesso posto dove poco prima un nero era crollato esausto. Mamma Ambrosia si era presa cura di Kaweka cercando di fare per lei ciò che facevano le altre madri con le proprie figlie.»

Madri anno 2007. Maria Regla Blasco, Reglita da bambina e ora Lita, è una giovane donna finita a lavorare per la banca Santadoma per avere un’entrata stabile per sé ma anche per la madre sempre più prossima alla pensione. Tuttavia, ella ama l’arte, la cultura, le lettere, è specializzata in queste e mai avrebbe pensato di far altro. La madre, a sua volta, è domestica sempre i Santadoma ed è tramite la conoscenza diretta che anche la figlia può “usufruire” dei benefici lavorativi di cui diventa destinataria ma anche debitrice.
Tornando indietro nei secoli conosciamo anche Kaweka che con la sorellina poi morta fa parte di quel carico scaricato sulle spiagge cubane. Ad attendere Kaweka ci sono anni di privazioni, umiliazioni, violenze fisiche e psicologiche, soprusi. Ha difficoltà ad ambientarsi, sente il peso di questo mondo a lei sconosciuto di cui non conosce la lingua ma nemmeno gli usi e le consuetudini, subito si ferisce nelle piantagioni di canna da zucchero, subito viene comprata e sempre in tempi rapidi scopre e realizza di avere un legame con le divinità. Queste prendono possesso di lei che ha anche doti e capacità curative, sfidano l’uomo bianco per mezzo del loro possedere. Il corpo della donna è punito per l’impudenza, non mancano le frustate, non mancano le punizioni e le violenze da parte di chi pensa di poterla possedere. Ciò la rende una diversa agli occhi degli stessi schiavi con cui divide i luoghi e i tempi dello scandirsi della sua vita.
Torniamo al presente più prossimo e osserviamo come per Lita sia difficile accettare che la madre continui ad essere trattata come l’ultima ruota del carro ma anche come per lei sia difficile vivere in quel contesto sociale fatto di coordinate che non le appartengono. Tra Lita e Kaweka esiste, inoltre, un legame. Sarà un viaggio a Cuba a portare Lita a riscoprire della sua storia e dei segreti della sua famiglia. Segreti che la riporteranno indietro e le faranno riscoprire anche se stessa.

«Lita danzò, trascinata da una forza incontrollabile, alternando, come la giovane che l’aveva preceduta, un ritmo frenetico a movenze più delicate. Sentiva il mare vicino a sé e le onde lambivano il suo spirito, ma, a differenza dell’altra ballerina, Lita cantava… E lo faceva con una voce che non era la sua…»

Pagina dopo pagina Falcones ricostruisce un puzzle fatto di mille sfaccettature e mille volti. È un romanzo solido e stratificato “Schiava della libertà”, un romanzo ricco di temi e riflessioni sottese. Al contempo gli stessi personaggi sono vividi e ben caratterizzati, il lettore li percepisce quali realistici e non fatica a farne proprie le aspettative, le paure, le ingiustizie, i desideri. Ad avvalorare il tutto vi è uno stile narrativo curato, minuzioso, arricchito da ricerche e ricostruzioni storiche. Un libro che sa far riflettere sul concetto di libertà, un qualcosa che oggi tendiamo a dare troppo spesso per dovuto e/o per scontato quando in realtà non lo è ed è frutto di lotte, ribellioni, sacrifici, contestazioni e tanto altro ancora da parte di chi, in passato, è dovuto sottostare alle angherie dei più forti per essere nato nella condizione sociale “sbagliata” o nel paese “sbagliato”.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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sonia fascendini Opinione inserita da sonia fascendini    30 Dicembre, 2022
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Una scia di vittime

Quando leggo romanzi come questo mi viene da pensare che ci siano in circolazione talmente tanti libri, che siamo arrivati al punto in cui non ci sia più nulla di nuovo da raccontare. E allora che cosa fare se non prendere storie già raccontate, personaggi che già conosciamo e rivestirle con nuovi panni. Peccato però che col tempo questi panni diventano sempre di più e che la storia diventa sempre più incredibile. Detto questo, do comunque una valutazione positiva al romanzo, perché pur nella consapevolezza che quanto ci raccontano gli autori è del tutto inverosimile, l'ho letto con gusto. La storia riprende personaggi già noti ai seguaci di Lars Kepler: Saga Bauer e e Joonna Linna. Anche se deceduto già alcuni romanzi fa, è ben presente in tutte le pagine anche il serial killer Jurek Walter. II protagonisti di questo libro infatti sono tutti delle sue vittime. chi è stato imprigionato dal criminale, che lo ha visto torturare qualche suo familiare, altri ne sono stati affascinati e ne hanno seguito le orme. Insomma questo è il caso emblema di qualcuno capace di lasciare un segno, anzi molti segni. La vicenda inizia con la morte di un capo della polizia, al quale seguono altri assassini feroci, che sono preceduti dall'invia a Saga Bauer di una statuina di stagno accompagnata da indizi che dovrebbero farle capire in anticipo chi sarà la prossima vittima, dove sarà catturata e dove abbandonata. Inizia da lì una corsa per arrivare qualche minuto prima del killer e fermarlo prima che porti a termine il suo complicato piano. Come già detto l'autore ci ha messo parecchia fantasia, attribuendo al colpevole motivazioni, certamente dettate dalla follia, ma comunque del tutto fuori misura. Parimenti il piano messo in atto è con evidenza impossibile da attuare se non disponendo di una serie di competenze difficili da trovare in una sola persona. E anche in quel caso dovrebbe essere dotato di una dose di fortuna all'ennesima potenza. Poco verosimile che così tanti dettagli magicamente si coordino e che tutto vada come progettato. Veniamo ora ai due detective: tormentati, soli e ciò nonostante i migliori nel loro campo. Si tratta anche qui di qualcosa di già visto, anzi sembra quasi che non ci siano più i detective di una volta con una bella vita lineare, una famiglia solida e privi di segreti inconfessabili. Vista la storia che contribuiscono a raccontare, però direi che vanno bene così come sono.

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Romanzi autobiografici
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    25 Dicembre, 2022
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Cara mamma

È una lunga, sofferta, a tratti straziante lettera quella che la nota scrittrice di origine ungherese Edith Bruck affida a queste pagine destinate idealmente alla propria madre ormai persa, al pari di milioni di vittime innocenti, nell’indicibile inferno dell’Olocausto sullo sfondo degli anni del secondo conflitto mondiale. Una lettera che, da monologo, sembra farsi via via dialogo dai toni sempre più serrati e intimi tra due persone – madre e figlia, per l’appunto – il cui legame sia stato, bruscamente e brutalmente, interrotto per sempre.
Apparsa già sul finire degli anni Ottanta e ripubblicata da La nave di Teseo all’inizio di questo 2022 con una breve nota introduttiva firmata dall’autrice stessa oggi più che novantenne, l’opera in questione non è un romanzo, come si potrebbe pensare stando a quanto riportato in copertina; non si tratta infatti di narrativa nel senso più classico del termine, non è “fiction” ciò che viene raccontato, semmai una prosa di carattere senza dubbio autobiografico in cui la fantasia deve farsi da parte a favore di una realtà nuda e cruda che ancora oggi atterrisce, ma della quale occorre conservare memoria.

“Come si faceva a diventare così presto nemici anche fra noi e tirare un sospiro di sollievo quando toccava all’altro seguire il selezionatore? […] Tutta la nostra speranza era di trovare qualcosa da mangiare, un boccone non troppo magro e non troppo marcio tra i rifiuti. Per sopravvivere, mamma, bestie feroci, altro che pensare a nostra madre! Non mi chiedevo più nemmeno se eri morta o se eri viva. Non sentivo più altro che fame. Non desideravo altro che mangiare […]”.

L’esperienza terribile vissuta ad Auschwitz e in altri campi di concentramento, nonché l’esserne superstite e testimone, ha segnato la vita della Bruck e di ciò parla buona parte di questo testo; in esso, però, trova spazio anche il rapporto con la propria identità ebraica, nella quale confluiscono lingua, religione, fede che hanno continuato nel tempo a essere problematiche, in verità fin dall’infanzia, prima ancora che la famiglia venisse sradicata a forza, nel ’44, dal suo piccolo villaggio in Ungheria.

“Non so, mamma, perché vivo proprio io e non tu che avresti pregato per tutti?Per me eri tu la fede […]”

Come ne “Il pane perduto”, uscito lo scorso anno sempre con la medesima casa editrice, anche in questa Lettera ci s’imbatte nel ritratto di una figura materna troppo spesso dura e in apparenza poco amorevole nei confronti dell’Edith bambina. Una donna chiusa nelle proprio rigido credo di ebrea osservante che non perdeva occasione per rimproverare quella figlia dall’animo sognatore che lei stessa si chiedeva da dove fosse giunta, tanto si mostrava diversa dagli altri, e che, invece di pregare, amava già allora leggere poesie e “cose inutili”.

“Ah, mamma, senza la poesia, senza l’arte la natura, la vita sarebbero insopportabili, l’aria irrespirabile. Tu non sai quanta verità può contenere un solo verso, una sola parola.”

Ecco, quindi, che l’Edith adulta, ripercorrendo quelle memorie familiari lontane ormai decenni, all’interlocutrice confessa con candore – lei che mangia quel che è proibito e non sa tenere a mente le date delle feste comandate – le sue mancanze in fatto di osservanza religiosa e ribadisce la ferma convinzione delle sue scelte di vita. Il dolore interiore di chi scrive è palpabile, affiora tra le righe a più riprese, così come il desiderio bruciante, rimasto tale, di un’approvazione e un amore da parte materna liberi da condizioni unilaterali.

“Come avresti vissuto tu il dopo, mamma? Avresti ancora pregato? […] Noi due avremmo litigato sempre? Tu non mi avresti mai approvato in niente, io avrei fatto ciò che ho fatto soffrendo il doppio. Non mi rivolgeresti più la parola come da piccola. Ed era peggio dei rimproveri, delle minacce, di qualche scapaccione o schiaffo per colpa mia, perché l’avevo provocato io, no? Nei tuoi silenzi c’era qualcosa di cattivo. Di pericoloso. […] Mi addossavi tutti i tuoi guai di madre, di moglie, di ebrea. Dietro la tua bocca chiusa per me c’erano cinquemila anni di storia brutta.”

Quel “dopo”, purtroppo, non ha avuto possibilità di aver luogo e il loro rapporto pieno di contrasti non ha potuto avere alcuna evoluzione, né in un senso né in un altro. Non resta, dunque, che l’amarezza del rimpianto per l’amore non ricevuto, o comunque molto diverso da quello bramato. A cornice di tutto ciò, non mancano considerazioni sull’essere ebrei in generale e israeliani in particolare; le parole verso Israele e ciò che lo Stato ebraico compie non sono tenere, al lettore trarne le proprie conclusioni.
Attraverso una prosa di notevole profondità che è probabile sia stata infine catartica, Edith Bruck ci consegna un’opera molto bella (pur nella indubbia drammaticità dei suoi contenuti) che da subito coinvolge e merita di essere letta. I morti chiedono pace, allo stesso modo i vivi chiamati a seppellirli seppure non fisicamente; in questo caso, a dare occasione di riconciliazione con il passato è la scrittura stessa, ancor prima delle parole rituali del Kaddish conclusivo.

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... "Il pane perduto" della stessa autrice.
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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    19 Dicembre, 2022
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Giorni qualunque, tra noccioline, magie e spettri

È possibile che una monetina – casualmente trovata per terra da un pover’uomo, che da settimane cerca disperatamente di trovare un impiego, e da lui donata a un bambino incontrato per la via – possa dare la felicità a tante persone? Una telefonata fatta al numero sbagliato può causare un’escalation di ripicche tra vicini di casa? Come si può preparate un pranzo di alta cucina con gli uccellini impagliati che ornano un vecchio cappello, un po’ di ovatta estratta dall’imbottitura di un cuscino e un vestitino decorato con una fantasia di ciliegie? Poi, perché mai, nessuno in paese percorre la vecchia strada dei Sanderson quando piove a dirotto? Cosa scrive la gentile, garbata sig.na Strangeworth nelle lettere che invia, di notte, a tutti gli abitanti della cittadina?
A queste e a molte altre domande risponde Shirley Jackson nella raccolta ora proposta da Adelphi.
Famosa per essere una delle regine del mistery e del racconto gotico e dell’orrore, la Jackson in questa antologia ci rivela un lato meno noto della sua prosa, che riesce a essere anche argutamente umoristica, salace o aspramente critica nei confronti delle convenzioni e del perbenismo di cui si faceva scudo la piccola borghesia americana nelle cittadine di provincia come la North Bennington in cui ha vissuto sino alla morte.
Nella sua breve, ma immensa produzione letteraria la Jackson scrisse oltre duecento racconti di genere vario. Questa antologia è gran parte frutto di un casuale ritrovamento: 25 anni dopo la morte della scrittrice, fu inviata ai figli una voluminosa cassa che conteneva appunti, bozze e tanto materiale sconosciuto anche alla famiglia. Tra esso moltissimi racconti inediti. La raccolta contenente il meglio di quella fortunata scoperta, assieme ad altre storie che avevano ottenuto solo una limitata diffusione e, poi, non erano mai stati ristampate, uscì postuma nel 1996 e, adesso, viene proposta in italiano in questa edizione che contiene ventidue di quelle novelle e che accontenta tutti i gusti e tutti i palati.
Si comincia con le astuzie di un non vedente che riesce a “truffare” un negoziante sin troppo benevolo, per passare a storie che narrano con arguzia il nostro quotidiano, per giungere a piccole favole moderne dove strane magie alleviano il penoso incedere della vita. Chiude la raccolta un divertente aneddoto personale che ci fa capire come la parola “fama” acquisti un diverso significato a seconda di chi la pronunci.
Nell’antologia sono presenti storie leggere, romantiche, umoristiche, ideali per le pagine degli inserti domenicali dei grandi quotidiani americani; ma pure altre più consone alle atmosfere noir di cui l’A. era specialista, alcune di esse condite con un tocco di impalpabile soprannaturale, gotico o macabro, ma anche da un sano distacco ironico. E così, in “Ha detto solo sì”, leggiamo la storia, abbastanza angosciante, di una giovane, novella Cassandra, ma attraverso le impressioni di una incredula vicina; mentre in “Casa” tornano di scena i fantasmi e le lugubri atmosfere di Hill House, ma la testimone è una scettica indaffarata signora moderna.
Lo stile è quello inconfondibile dell’A. dove, con una prosa agile e disincantata, si narrano pure fatti spiacevoli, ma toccanti. Non è rado trovare storie suggerite da una evidente esperienza autobiografica. Così, conoscendo un poco le vicende personali della Jackson, non si può non rimanere colpiti da racconti quali “Come Charlotte uscì di scena” sugli ultimi mesi di una donna che, come la Jackson, soffriva di gravi problemi di salute, ma ignorava le prescrizioni mediche; oppure come, in “Sola in una tana di lupetti”, una mamma che lavora, ma deve pure tener il passo ai suoi ragazzini scatenati, debba arrabattarsi per conciliare gli impegni.
Il più toccante di tutti, sotto questo profilo, è “Si spegne una grande luce”: con feroce realismo e forse mesta preveggenza, l’A. racconta come, al capezzale di un famoso scrittore morente, si accalchi una folla di lugubri personaggi preoccupati più di mostrarsi e ottenere un po’ di luce riflessa, che di arrecare conforto vero.
In generale si tratta di una raccolta interessante e gradevole; ottima per occupare piacevolmente, anche con brevi sessioni di lettura, gli spazi vuoti delle nostre giornate: tra pennellate rosa, sfondi azzurri, qualche ombra scura e rari schizzi di verde acido, si sorride, ma si pensa anche.

____________

Per l’angolo del pignolo mi sento di dover fare piccolo appunto alla traduttrice. Nel racconto “Devo” si rende, un po’ goffamente, il tipico acronimo inglese I.O.U. (I Owe You, la classica promessa informale di debito di tradizione britannica), col termine “devo” (riportato pure nel titolo), ma l’italiano ha il termine “Pagherò” che meglio e più correttamente avrebbe richiamato alla mente quel tipo di cambiale d’onore.

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Romanzi
 
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68 Opinione inserita da 68    02 Dicembre, 2022
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Quale amore?

“Quel tipo di ragazza “ sfoglia la complessità e l’ imprevedibile ovvietà di un matrimonio agiato ritenuto “ perfetto “ servendosi di una prosa accurata ed elegante, misto di forma e contenuto, grazie alla
dosata rappresentazione oggettiva e relazionale della Howard. L’ esito è un romanzo equilibrato, thriller sentimentale e commedia ficcante che si svela oltre l’ apparenza, una ridda di eventi in una riflessione acuta su amore e destino.
Tra le pagine di una vita coniugale con cadenze consolidate, la bella villa in campagna, l’ ottimo lavoro in città, la routine domestica, una passione con approcci standardizzati, dove tutto è sedimentato in un ciclo di appartenenza, Edmund e Anne, coniugi quarantenni, vivono da dieci anni una magnanimità cementata dalle diversità, da parole dette e non dette, desideri inespressi, tralasciato un passato di sofferenza, un ménage che non prevede intrusioni moleste, una linea retta piacevolmente assorta, paghi della propria mediocrità.
Anne assapora un menu costituito dall’ esercizio di semplici doveri quotidiani, nessuna dose di piacere, sottratta da Edmund a una vita di angoscia e di miseria per elevarla a benessere e stabilità, fiera di rimandargli la propria gratitudine con una massiccia dose di devozione e operosità.
Edmund è un agente immobiliare piuttosto prevedibile, ama i compromessi ed evita le decisioni, la loro vita matrimoniale è un’ isola …” con qualche sporadica incursione su quella o questa terraferma per esigenze sociali e domestiche”….
Come riuscirà la giovane Arabella, figlia di Carla, matrigna di Edmund, ad approdare su quest’ isola, come si accaserà nella loro famiglia, destabilizzando una dimensione siffatta, così sola e fragile, bisognosa di affetto e di accudimento, con una madre onnivora, egocentrica e disinibita, una giramondo incurante degli altrui sentimenti?
Al primo sguardo Arabella parrebbe una ragazza senza meta, un ingombro noioso, un’ intrusa da sopportare, una povera ricca con un’ educazione grossolana, che scantona la sincerità e rigetta incontri matrimoniali precostituiti, un’ apolide sormontata dall’ onda del momento.
Eppure la propria fragile essenza scalfisce l’ ovvio e restituisce una figlia da preservare, una amica da frequentare, una confidente da custodire, con un passato di sofferenza, un solo grande affetto negato, in grado di rimuovere la superficie e il senso di perfezione autoimposto per generare emozioni e sussulti erotico-sentimentali, corrodendo l’equilibrio famigliare, restituendo sprazzi di felicità insperata, insinuando dubbi e generando certezze.
Una fragilità forte destinata a scardinare l’ ovvio, a scoperchiare silenzi, bugie, inganni, inconsapevolezza, sogni, desideri, amore, l’ ambiguità di un linguaggio e di un comportamento impregnati di dolcezza e di sensualità, dotata di un fascino misterioso, di sinuose cadenze, di una bellezza inarrivabile, il tocco dell’ unicità.
E allora, in un rimescolio sentimentale e in un giuoco all’ eccesso, si penserà a un ideale di coppia, a un’ altra possibile coppia, a una famiglia allargata, ma come sottrarsi all’ egoismo e alla paura di esporsi alla menzogna, così come il frutto della propria vergogna sarebbe impossibile da accudire.
Quale destino? Un cammino diverso, più consapevole, un ritorno al passato, o semplicemente la difesa della propria indole, il riconoscimento di un inganno, la confessione e l’ espiazione, una bugia eretta ad arte, un’ aria fetida da ripulire.
Ci sono, oltre il triangolo suddetto, frammenti di storie parallele e contrastanti, personaggi di contorno mirabilmente esposti, la vita amorosa di un amico omosessuale di Arabella destinata a perdersi al tramonto della propria bellezza, il rimugino ininterrotto di un uomo solo che non sa superare il dolore della vedovanza, le lunghe giornate affamate e spoglie di una donna, madre di due bambini, vittima consapevole di un marito degenere, oggetto di una vita di stenti, fino all’ inevitabile completamento di un destino già scritto.
“ Quel tipo di ragazza “, a mio avviso, ci restituisce una Elisabeth Jane Howard matura e all’ apice della propria creatività letteraria, che riesce a rappresentare magistralmente un mondo di relazioni e di sentimenti al femminile con una visione allargata e originale, laddove ogni personaggio restituisce una precisa idea di se stesso e di un genere, e la profonda interiorità soverchia una vita precostruita, irrealizzabile o semplicemente modesta.
Ma c’ è di più, quella vivida rappresentazione di un reale e dei suoi oggetti sa dosare, nella minuziosa descrizione degli stessi, un equilibrio perfetto tra forma e contenuto.
La sensazione restituita, nel crogiolo degli accadimenti e nella loro progressiva dissolvenza, è un dolce gusto di imprevedibile sofferenza e di amabile consapevolezza, laddove vita e destino sembrano cozzare definitivamente e ogni traccia… di lei… pare dissolta.

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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    02 Dicembre, 2022
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Vade retro!

Le collaborazioni sono qualcosa che mi fa sempre storcere un po’ il naso: come faccio a capire chi ha scritto cosa? Come riescono più persone ad adattarsi l’uno allo stile dell’altro senza snaturarsi? Quando poi queste collaborazioni vengono fatte tra padri e figli (come ha fatto a suo tempo anche Stephen King) la mia perplessità si tramuta in un principio di ostilità, a causa del nepotismo latente in quella produzione. Devo dire che, purtroppo, “Non aprite quella morta” di Joe e Kasey Lansdale non ha smentito questa mia impressione, anzi, devo dire che l’ha rafforzata ulteriormente.
Occorre fare un chiarimento sulla struttura di questo libro: è una raccolta di racconti soprannaturali, la prima metà scritta da Joe R. Lansdale e con protagonista l’investigratice del “sopranormale” - sorvolerò sui milioni di volte in cui si spiega questo concetto, rendendolo noioso, quasi irritante, e inoltre con poco senso considerati i fatti raccontati - e l’altra metà con la collaborazione della figlia Kasey Lansdale che introduce il suo personaggio, Jana, che diventa la “Watson” della Dana “Holmes” di Joe. Inutile dire che dei due grandi investigatori, questi due personaggi non hanno un bel niente. Mentre i racconti di Joe Lansdale, quantomeno, possono anche intrattenere grazie al suo stile comunque coinvolgente e accurato, che crea delle immagini precise ed evocative delle vicende raccontate, i racconti in cui subentra la collaborazione di Kasey sono di qualità sensibilmente inferiore: uno stile a tratti quasi elementare, con dialoghi semplicistici e a volte quasi ridicoli, da scrittore più che novellino. Credo proprio che questi ultimi racconti non siano stati scritti in collaborazione, ma soltanto dalla penna di Kasey Lansdale… e si vede.
Oltre a questo, c’è un altro problema. Io non sono una persona che parte con dei pregiudizi di genere, dunque, pur non amando questo genere di storie mi sono cimentato in questa lettura. Come ben sapete penso che un’opera, pur appartenendo a un preciso genere, se scritta in un certo modo e con determinati contenuti possa essere degna di essere letta da chiunque e apprezzabile per i suoi contenuti che vanno oltre la trama raccontata. Non è questo il caso, purtroppo: “Non aprite quella morta” è una raccolta di racconti senza nulla a pretendere a livello letterario, che può (forse) intrattenere gli amanti del genere e poco più. La struttura dei racconti si ripete e viene riproposta in salse diverse, con avversari e contesti diversi, ma in fondo è sempre lo stesso modus operandi ripetuto nella maggior parte delle storie (se non tutte).
E niente, aspetto il prossimo libro di Lansdale, sperando che si tratti di qualcosa che contenga in sé un qualche tipo di ambizione letteraria, visto e considerato che in passato questo scrittore se ne è rivelato più che capace (per esempio con “Paradise Sky”). E, possibilmente, qualcosa scritto solo dalle sue mani; cosa ormai per nulla scontata.

P.S. Il voto allo stile è una media tra quello dei due scrittori: 4 a Joe, 2 a Kasey.

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Romanzi autobiografici
 
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siti Opinione inserita da siti    27 Novembre, 2022
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Scrivere la vita

Prima edizione italiana di “Le jeune homme”, apparso per i tipi di Gallimard a maggio di quest’anno, tra le due edizioni il premio Nobel, conferito all’autrice ai primi di ottobre. Si tratta di un libello di appena cinquanta pagine, suddiviso nel testo vero e proprio e in una raccolta di tre discorsi, due dei quali pronunciati in Italia durante eventi pubblici di carattere letterario e uno tutto dedicato alla sua esperienza di ritorno a Yvetot, suo paese di origine. La separazione tra le parti non è netta, perché, come sa chi legge l’autrice, la scrittura è imbevuta di vita e la stessa è interamente travasata nella scrittura, ne consegue che mentre si legge di una sua relazione, lei donna ultracinquantenne, con un ragazzo di trent’anni più giovane, si stanno anche ripercorrendo le tappe salienti della sua esistenza già concesse alla scrittura letteraria. Si ha la netta sensazione, di tassello in tassello, di ricomporre un puzzle biografico, cambia il focus questa volta, come detto, infatti, il richiamo autobiografico è suscitato da una relazione con un giovane ragazzo, altre volte è stata la morte della madre o l’aborto. Identico rimane il meccanismo: si recupera il vissuto con la consapevolezza che esso non tornerà più e si riflette sulla sua portata, a distanza di tempo, per riflettere sulla formazione dell’io scrivente. Se la narrazione della relazione non ha niente di entusiasmante, la capacità di utilizzare quel vissuto per continuare a scandagliare la sua anima ha del generoso: giunta alla maturità la Ernaux fa i conti con il passato, con la sua negazione o forse con il superamento di quell’insulsa ottica borghese che l’ha contaminata e annullata impedendole di accettare le sue origini alle quali ha bisogno di tornare. Questa è l’essenza della sua scrittura.

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"Una donna", "L'evento"
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Romanzi
 
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ornella donna Opinione inserita da ornella donna    27 Novembre, 2022
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Alice tra presente e passato


Cristina Caboni, dopo il successo del libro intitolato La custode del miele e delle api, torna ad occuparsi di api e miele, in un romanzo La via del miele, ricco di emozioni e di sentimento.
Che cosa è la via del miele? E’ :
“Un percorso di conoscenza che passa attraverso le emozioni”.
Ed è proprio il percorso compiuto da Alice, protagonista narrante della vicenda. Lei è una giovane donna, abita e lavora a Parigi, e ha fatto del lavoro la sua unica ragione di vita. Fino a quando viene a sapere che la sua amata sorella Emma, con cui, però, era solita discutere, è morta, stroncata da un male che non concede tregua. Ad Alice crolla il mondo addosso, ancor di più quando apprende che Emma le ha lasciato in consegna sua figlia, la piccola Amèlie. Proprio a lei che non ha mai voluto figli. Che fare? Chi è il padre della piccola? Inizia ad occuparsi, comunque, della piccola, ma è più che mai decisa a scoprire l’identità del vero padre, e così affidargli la figlia. Riuscirà? Inizia in questo modo una personale indagine serrata di Alice, che la condurrà ad esplorare un posto magico, in Sardegna, ad Abbadulche:
“La città sorgeva su una bassa collina che scendeva lentamente verso il porto. Le case, appollaiate sulla sommità e sormontate da un cielo blu cobalto, sembravano lo sfondo di uno di quei quadri nostalgici, quasi irreali, che spesso Alice aveva visto lungo le sponde della Senna, dove gli artisti di strada esponevano i loro lavori.”
Lì, dove tutto ha avuto inizio, e dove, ancora una volta la vita della bella Alice verrà stravolta del tutto. Che accadrà? Riuscirà Alice a sconfiggere i suoi demoni?
Un romanzo intenso, dove le api assurgono a seconda protagonista del libro, e in particolare il rapporto simbiotico tra le donne e le api:
“Era una storia affascinante. Donne come sorelle, api, custodi. Conosceva la storia delle custodi del miele e delle api. Donne speciali che si prendevano cura del territorio, della natura, del mondo che le circondava.”
Una lettura che intriga, particolarmente indicata per chi ama le belle storie, un po’ misteriose, e per chi ama e rispetta la natura in genere, e le api in particolare. Una bella vicenda, dolce come il miele e profonda e magica come la terra da cui proviene. Tanto fascino, mistero ed intrigo.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    24 Novembre, 2022
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Arimo... "Un, due, tre stella!"

«A volte anche l’essere più innocente serba dentro di sé un’indole potenzialmente malvagia.»

Porto Ercole, estate del 1997. Pietro Gerber e il cugino Iscio sono in vacanza. Fa caldo e i loro pomeriggi si snodano con giochi e divertimenti con gli amici. In particolare è il “gioco dei ceri” a far da padrone, un gioco che è una via di mezzo tra “acchipparella” e “nascondino” ed in cui un designato, il primo omino di cera, ha il compito di scovare gli altri, i viventi, per trasformarli in omini di cera semplicemente toccandoli. A questo punto gli sfortunati che non riescono a sottrarsi a questo destino possono contribuire alla caccia. Il tutto senza poter parlare e quindi senza potersi in alcun modo scambiare indicazioni su eventuali nascondigli. Chi violava la regola sarebbe morto di morte violenta entro tre giorni. Una sola la parola liberatoria, l’unica che può essere proferita per salvarsi: Arimo. Dal latino “arae mortis” e cioè altari costruiti per celebrare i caduti al termine di una guerra. Una parola, probabilmente che aveva lo scopo di indicare una sorta di tregua per seppellire i morti. A completare la banda di ragazzi vi è l’unica ragazza, Deborah, di Siena, che ha preso sotto la sua ala protettiva Zeno Zanussi, detto Batigol per la passione per la fiorentina e Batistuta, di solo cinque anni e fratello del più grande (la comitiva si aggira sugli 11 anni in su) Pietro Zanussi, di anni tredici, veterano del gruppo, Giovanni da Empoli, Giovannone, dalla mole del fratello sedicenne, Ettore da Firenze, Dante da Lucca con la mania per la distruzione delle cose e Carletto, di Grosseto, il meno assiduo della compagnia. Una banda eterogenea che passa un’estate in apparente tranquillità. Apparente perché se prima Pietro Gerber si ferisce a una gamba e resta per mezzo minuto senza respirare e senza battito cardiaco, poi è Batigol a far cadere il sipario su una estate che in alternativa avrebbe continuato a scorrere con tranquillità. Perché in un pomeriggio come tanti ecco che Zeno scompare. Di lui si perde ogni traccia.

«Il signor B. diceva sempre che bisogna avere più paura degli stupidi che dei mostri, perché non sanno di essere malvagi.»

Sono trascorsi due decenni. Pietro Gerber ha perso tutto. Fama, riscontro mediatico, successo come addormentatore di bambini nonché specialista infantile. Un solo paziente si è presentato alla sua porta, Tommy. Un bambino con tendenze violente, che cela qualcosa e verso il quale il professionista non ha più quegli scrupoli che avrebbe avuto in passato. Hanna Hall, i fatti de “La casa senza ricordi” lo hanno ricondotto a una situazione di apatia, trascuratezza, confusione, ossessione. La voce si è diffusa negli ambienti e per Gerber non c’è più credito disponibile. Tuttavia, una giovane donna, Maja Salo, si presenta alla sua porta. Capelli rossi, studentessa presunta d’arte, ragazza au pair della piccola Eva di anni dieci presso una famiglia prestigiosa, gli Onegli Catelani, in quel di San Giminiano, di origine finlandese, si presenta all’uomo con una lettera in mano e una richiesta d’aiuto. Sono questi il suo biglietto da visita. Pare che Eva abbia un amichetto immaginario decisamente dispettoso e che sempre più sta prendendo possesso e forza nella mente della bambina tanto da arrecarle delle lesioni. Per Gerber sembra trattarsi di schizofrenia infantile, all’inizio rifiuta il caso ma poi decide di incontrarla almeno una volta. Ed è qui che il romanzo ha davvero inizio perché l’incontro con Eva porta alla luce una serie di circostanze tanto ambigue quanto sovrannaturali e che riportano Gerber a quei due decenni prima. Sempre più sono i momenti di sincronicità con Zeno e la sua scomparsa. Che sia lui l’amichetto immaginario di Eva?

«Solo i bambini pensano che gli adulti siano migliori di loro e che crescendo si diventi più saggi o più rispettosi. Nessuno cambia con gli anni, si diventa solo più abili a nascondere i difetti.»

Ancora una volta Donato Carrisi torna in libreria con un romanzo dai grandi intenti e dai risultati approssimativi. È chiaro ed è evidente che l’autore desideri far breccia nel lettore facendo leva sul paranormale e sulle paure della mente. L’immaginazione, la voce, le presenze oscure che potrebbero presentarsi attorno ai protagonisti, la vita oltre la morte, le sette spiritiche e chi più ne ha più ne metta hanno il chiaro intento di incutere terrore e ansia nel lettore che, però, nel procedere dello scritto si sveglia dall’incanto. Sente che quel che viene presentato non è veritiero, non ha sufficiente forza “a trattenere”, cerca istintivamente una risposta nella logica che oltretutto trova (quando non dovrebbe). Perché per quanto alcuni fatti possano sembrare completamente incomprensibili, nell’osservare la scena o nel porsi la giusta domanda, le alternative al paranormale ci sono e non sono nemmeno poche. La sensazione è un qualcosa di non naturale e lineare. Se da un lato abbiamo un King che crea un paranormale che non fatica a far credere al lettore anche il fatto più misterioso ma improbabile, in questo caso abbiamo un Carrisi che ci prova ma che sembra messo spalle al muro dai suoi stessi personaggi e dalle stesse vicende. Nonostante, ancora, rispetto al super deludente precedente capitolo “La casa senza ricordi”, piatto e inconcludente e con pure un finale estremamente opinabile, “La casa delle luci” abbia una struttura più solida con anche un minimo di evoluzione del personaggio, non convince. In primo luogo si torna indietro tornando a Hanna Hall (e questo fa presagire che tornerà anche nel quarto capitolo che aspettiamo a novembre/dicembre 2023), in secondo luogo non c’è un vero e proprio collegamento con il secondo capitolo che resta ancora aperto, in terzo luogo manca di capacità di trattenere. Lo si legge per curiosità, lo si ultima per lo stesso motivo ma la sensazione è quella di trovarsi davanti a un Carrisi “senza cartucce” o comunque con “le cartucce esaurite”. Una distanza abissale dall’autore delle origini con le capacità di entrare nella mente del lettore e inchiodarlo al libro. Questa serie, inoltre, non si capisce dove vuole arrivare. Proprio a livello di creazione. Sembra che si stia plasmando “in corso d’opera” più che avere un disegno più grande che viene seguito capitolo dopo capitolo.
In conclusione, senza infamia, senza lode. Un romanzo di intrattenimento dove si eccede con il paranormale senza però riuscire a convincere.

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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    14 Novembre, 2022
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Un angelo satanico e troppi coup de theatre

Mathias Taillefer è un ex poliziotto, pieno di rancori, disillusioni e cicatrici, nel fisico e nella mente. Conduce la vita precaria dei cardio-trapiantati con l’aggravante di non aver alcuno scopo, alcun punto di riferimento a cui aggrapparsi, ma solo rimpianti, rimorsi e torti subiti. Il 27 dicembre 2021 si trova all’Hôpital Pompidou: ha avuto una crisi cardiaca, lieve, ma tale da fargli perdere i sensi e richiedere il ricovero in pronto soccorso. Si sta riprendendo, ma, nel lettino d’ospedale dove riposa, viene disturbato dal suono di un violoncello. A suonarlo è la diciassettenne Louise Collange, che fa parte di una associazione che si prefigge di alleviare la degenza dei malati per mezzo della musica. Ma la ragazza ha, anche, un secondo fine: sua madre, Stella Petrenko, ex étoile dell’Opéra, è morta alcuni mesi prima precipitando dal balcone di casa sua. Louise non crede a ciò che sostiene la polizia, cioè che si sia trattato di un banale incidente domestico. Così si attacca alle costole di Mathias perché vuole che indaghi sul caso anche a dispetto della astiosa riluttanza dell’uomo.
Inizia, così, un’indagine strampalata dai risvolti sorprendenti, soprattutto perché Mathias non è ciò che Louise crede che sia (e l’errore potrebbe costarle la vita), ma soprattutto perché nessuno dei protagonisti di questa storia è veramente ciò che appare a prima vista e ogni poche pagine un'inattesa sorpresa rivolterà le carte in tavola.

“Angélique” è un romanzo decisamente particolare, difficilmente inquadrabile in un ben preciso genere. L’incipit farebbe pensare al rifacimento francese del bel romanzo di Connelly “Debito di sangue”, ma già dopo pochi capitoli il tono muta. L’A. ci rivela ben presto chi sia il colpevole degli omicidi, quali siano le sue motivazioni e quale fu il modus operandi. In seguito ci pone davanti a una continua serie di rovesciamenti di fronte e colpi di scena tali da disorientare e confondere, come in un infinito gioco di specchi e mascheramenti. Giunti al finale del libro, costituito da una serie di frammenti (è proprio questo il titolo della sezione che dovrebbe spiegare i tanti dubbi ancora presenti in chi legge) si potrebbe dire d’aver letto una turbinosa storia d’azione e di intrighi, magari un po’ troppo arzigogolata e intricata, ma, comunque, avvincente e coinvolgente; una di quelle trame ideali da cui trarre un film con scene convulse, sorprese a non finire e consolatorio happy end. E, assai probabilmente, questo è l’intento ultimo dell’A., le cui opere, in passato, sono già state sfruttate dalla cinematografia.
Purtroppo non è proprio così. Innanzi tutto Musso non si dà la minima pena di approfondire i risvolti psicologici dei protagonisti né si concede la minima divagazione per descrivere gli ambienti, le situazioni, i personaggi. Le uniche precisazioni “d’ambiente” si occupano di comunicarci qual è la marca del supporto informatico, dell’abito o dell’automobile usata dagli attori del dramma. Insomma un’incessante “pubblicità occulta” di cui non si sente assolutamente il bisogno. Non c’è altra deviazione dall’unico scopo che si prefigge il suo racconto: portare a termine, nel modo più lineare possibile, la frenetica, attorcigliata vicenda.
Inoltre non viene neppure fatto il tentativo di entrare in sintonia col lettore. Pare che la narrazione sia indirizzata a iniziati: chi non ha assoluta familiarità con Parigi e con le abitudini, i riti, i ritmi, i comportamenti, le conoscenze dei suoi abitanti si trova immediatamente spaesato. Fatica a comprendere certi ammiccamenti, resta spesso perso nella vana ricerca di una chiave di lettura che lo aiuti a interpretare i sottintesi e gli atteggiamenti dei personaggi.
La storia, poi, è decisamente al limite del credibile e del plausibile. Spuntano continuamente metaforici “conigli dal cappello” che consentono di mutare l’esito di avvenimenti che apparirebbero altrimenti scontati e dall’esito inevitabile. Ma questi colpi di scena sono, il più delle volte, forzati e decisamente improbabili; soprattutto non riescono appieno a spiegare il succedersi dei fatti, lasciando una fastidiosa sensazione di incompiuto e di frettolosità nell’esposizione.
Insomma, ragionandoci sopra, si tratta più di un libro pieno di trovate, piuttosto che di contenuti. Una storia ottima come sceneggiatura televisiva, dove lo spettatore, distratto, non si sofferma sui particolari, piuttosto che per un’opera letteraria che piacerebbe gustare e meditare con calma. Peccato perché i personaggi scelti per questo romanzo sembravano intriganti e avrebbero meritato un miglior servizio per le loro storie contorte!

_________
Per l’angolo del pignolo ci sarebbero alcuni rilievi su incongruenze, forse, spesso, causate da una traduzione non accurata, ma a questo punto, preferisco non infierire.

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Non mi sento né di sconsigliarlo né di suggerirne la lettura. Riconosco che, non facendosi troppe aspettative, il libro sia divertente e rilassante, se non altro per soddisfare l'umana curiosità di scoprire "dove andrà a parare". Se si desidera qualcosa in più, però, si resterà delusi.
Non conosco le altre opere di Musso, quindi non posso dire se sia o meno in linea con il suo stile. Spero, per lui, che abbia dato migliori prove di sé.
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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    07 Novembre, 2022
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Respira!

Gerard e Michaela si s stabiliscono a Santa Tierra in Messico per un periodo limitato di tempo, perché hanno avuto entrambi un incarico di lavoro lì. Dovrebbe essere una specie di vacanza, l’occasione per visitare posti nuovi, invece le cose prendono una piega diversa. Lui, è un uomo che condivide ogni cosa con la compagna e che con lei parla di tutto, ma che ha una riluttanza patologica a affrontare argomenti che concernano la sua salute. Naturalmente evitare un problema non ha mai aiutato nessuno a risolverlo, per cui Gerard si ritrova in ospedale malato terminale, con un tumore al polmone e metastasi ovunque con Michaela al suo capezzale a dirgli Respira ogni volta che sembra fare una pausa respiratoria più lunga, ogni volta che sembra stia per andarsene.
Respira è una specie di memoir,in cui la Oates utilizzando personaggi con nomi di fantasia, attinge alla sua vicenda personale a piene mani e ripercorre la perdita dell’amato marito malato di cancro. Il narratore si rivolge a se stesso, non al lettore, come se cercasse di ritrovare il bandolo della sua vita.
L’ordine Respira percorre tutte le pagine, anche dopo la morte del marito.
E Gerard, dopo morto, sembra moltiplicare la sua presenza come luce riflessa da mille specchi.
“Ti amo. Oh io ti amo!
Sento l’illusorietà di questo mondo che balugina, freme, tremola, come onde concentriche su uno specchio d’acqua di insondabile profondità c’è l’altro mondo che Gerard aspetta Cerca di alzare gli occhi per vedere il volto di Gerard. Ma anche questo volto ha perso la propria nettezza”.
MIchaela viene scaraventata dalla malattia e dalla morte di lui Fuori dal tempo, espressione che ci rimanda a Grossman anche lui caduto fuori dal tempo,anzi scaraventato fuori dal tempo dalla morte del figlio amato.
Ma Michaela oltre ad avere perso l’amato, ha perso l’amore, ogni possibilità di amore,
“Così sola. Sola da non poter essere toccata. Da non poter essere abbracciata, protetta. Nominata. “
Cosa succeda veramente a Michaela dopo la morte del marito non è sempre chiaro. Viene-non viene ricoverata in ospedale per encefalite? Oppure per depressione? Vive o muore?
Però i fatti non hanno nessuna importanza. La luce da seguire nella notte di questa narrazione che attraversa il dolore e la disperazione è l’amore per Gerard, la fedeltà a Gerard e cosa significa esattamente essergli fedele. Lei è pronta a tutto.
Del resto in certe condizioni particolari può capitare che l’occhio sia cieco ma il cervello veda ciò che non appare agli occhi in una visione. Dopo la morte del marito, Michaela non usa più gli occhi per guardarsi intorno, avendo perso interesse per il mondo, ma a volte le capita di vedere cose…cioè Gerard, oppure fatti legati a divinità locali, terribili e assetate di sangue.
Ma la presenza incombente di qualcosa di oscuro e di terribile che caratterizza i romanzi della Oates, qui manca. Nel senso che tutto è terribile fin dalla diagnosi e niente che minacci la vita di Michaela può toglierle qualcosa di più. Le divinità sono più che altro citazioni, allucinazioni, ma fondamentalmente la morte è desiderata da “Orfeo che insegue Euridice” che non si volta a guardarlo in un bellissimo ribaltamento del mito.
Per tutto il romanzo infatti Michaela insegue il marito Gerard, direzione inferi: lo accompagna all’ospedale, continua a vederlo a tratti fuori dall’ospedale dopo la sua morte, continua a seguirlo mentre il suo mondo vacilla e va in frantumi, mentre le allucinazioni diventano più reali dei sogni fino al bellissimo finale. Il lettore è in un certo senso autorizzato a scegliere il finale che preferisce relegando tra le allucinazioni le altre possibilità. L’ultima riga lascia persino aperto uno spiraglio alla speranza. Io ho amato tutto il romanzo, a parte quella riga.

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    03 Novembre, 2022
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Il gioco di Drek

14 settembre 2011. Josh Blay ed Edie Ledwell non sono ancora consapevoli del successo della loro idea. Tutto è nato in un cimitero, dalla passione per il disegno e l’arte, dal legame amoroso e sentimentale. “Un cuore nero inchiostro” è approdato su YouTube e nessuno si sarebbe mai aspettato cotanto riscontro mediatico, nemmeno, appunto, i creatori. I fan si moltiplicano, nasce anche un gioco ispirato alla saga chiamato “Il gioco di Drek”. Il fandom è entusiasta ma al tempo stesso non perdona. Non perdona l’approdo a YouTube, non perdona Edie. Se Josh è visto come un idolo nonostante la vera mente e motore tra i due sia la donna, è Edie ad essere dipinta come un mostro ingordo di fama e denaro. Da qui partono i soprannomi quali IngordEdie, Edie Contaballe, Edie Mangiatutto e chi più ne ha, più ne metta. Anomia, uno dei moderatori nonché co-fondatore insieme a Morehouse del gioco, non ammette errori. Non le concede possibilità di perdono. È mosso da un astio incontrollabile, sa tutto, ogni mossa e segreto del passato e presente della donna. Anomia che non rimanda tanto ad anonimo quanto a mancanza di normali standard sociali ed etici. Ogni occasione è buona per darle contro e scagliarsi contro di lei. Quattro anni. Quattro lunghi anni di continui attacchi a Edie.
Anno 2015. Cormoran Strike e Robin sono al Ritz. La serata ha preso una piega completamente inaspettata, una piega che potrebbe incidere sul futuro del duo. I casi però sono tanti e questo permette ad entrambi di “far finta di niente” e rimandare il discorso a data da destinarsi. Quando Edie Ledwell bussa alla porta dell’agenzia è una donna esausta, provata dagli anni di oppressione di Anomia, desiderosa di fermarlo e di conoscere la verità. Ha tentato il suicidio, è vero, ma adesso vuole provare a riprendersi la sua vita e a toglierla dalle mani del fandom. L’agenzia non può però aiutarla, non sono esperti di crimini informatici e scoprire chi è Anomia è quasi impossibile per chi non è del settore. Questa, almeno, la risposta di Robin che vede sul collo della donna dei lividi. Tuttavia, qualcosa cambia nel corso della vicenda perché poco dopo l’incontro con Robin la coppia viene ferita. Un grave doppio accoltellamento avvenuto nel cimitero di Highgate che ferisce a morte Edie Ledwell, di anni 30, e Josh Blay, di anni 25, sopravvissuto ma con gravi lesioni e paralisi conseguenti. Ma chi potrebbe essersi macchiato di questo reato? Sembra che le vittime siano state colpite da un taser e poi accoltellate alle spalle. Adesso non si tratta più di un crimine informatico e nonostante le indagini siano svolte dalle autorità vengono investiti del caso anche Cormoran, Robin e tutta la loro squadra al fine di scoprire chi sia Anomia e, se possibile, far anche giustizia. I sospetti di Scotland Yard, ad ogni modo, vertono tutti su un’organizzazione di estrema destra con finalità terroristiche e ideologie razziali.

«Era in momenti come quello che a Robin riusciva difficile rimanere arrabbiata con Cormoran Strike, per quanto irritante lui potesse essere in genere.»

Robert Galbtraith, alias J.K. Rowling, dona ai suoi lettori un romanzo stratificato, complesso, arguto. Un libro caratterizzato da molteplici tasselli che prendono forma e campo. Nulla è dato per scontato e nulla è come appare. Pagina dopo pagina il lettore viene travolto in un caso sempre più arzigogolato che porta, nel vero senso della parola, ad aprire un vaso di Pandora.
Al tutto si somma una prosa pulita, limpida, accattivante, mai prolissa. E non deve spaventare nemmeno la mole, il romanzo è godibilissimo e rappresenta un perfetto giallo all’inglese, con i giusti tempi e il ritmo mai troppo lento, mai troppo veloce. Qualche novità sul fronte sentimentale ma non quelle che molti lettori auspicherebbero, anzi. Vi è una maggiore presa di consapevolezza ma a far la differenza è il giallo. Un giallo che muove nell’attualità facendo riflettere sulla forza dei social e il loro impatto nel mondo circostante, sulla forza della parola del singolo se comunicata con i giusti mezzi sulla massa, l’effetto boomerang di quel che diventa virale, l’ossessione, la persecuzione anche mediatica, la vendetta e poi vi è il crimine, il crimine che esce dallo schermo e diventa concreto e reale. Il sangue che macchia il gioco che non è più solo questo. Ed ancora vi è la riflessione dettata da tutto quel che consegue anche il celarsi dietro uno schermo, l’accettarsi, il vivere con le proprie ossessioni, paure, deficienze. Il crearsi uno specchio, una maschera, in cui essere quel che non si è. Indossare i panni di quel che vorremmo essere, di un mito che non siamo ma che è esente da tutte le nostre paure e i nostri limiti fisici e psichici. Queste e molte altre sono le riflessioni che vengono suscitate da queste pagine.
Infine, ma non per importanza, la struttura del testo: dal prologo sino alla conclusione, anche l’impaginazione è espressione di attualità e riporta anche circostanze e dati che molti di noi hanno vissuto nella dimensione del web con maggiori o minori interazioni social e non. Questo rende ancora più corposo e veritiero il componimento.
L’attenzione non cala, la curiosità è tanta, il desiderio di conoscere chi è Anomia e chi ha ucciso Edie, ferito Josh, attuato il meccanismo complesso che si cela dietro i delitti, è insaziabile e il lettore, come in un perfetto rompicapo, si cala nei panni di Cormoran e Strike e prova a individuare egli stesso il colpevole. Perché i reati che si delineano sono su più piani ma sono veramente tante le dimensioni e i multilivelli di analisi che vengono descritti.
In conclusione, un altro godibilissimo capitolo delle avventure di due personaggi che si fanno sempre più apprezzare e che leggere è sempre un’attesa che poi viene ripagata. Uno di quei libri che il conoscitore si gode battuta dopo battuta e che desidererebbe non finissero mai. A quando il prossimo J. K. Rowling/Galbtraith?

«Robin ebbe l’impressione che fosse così assorto nei suoi pensieri da non rendersi nemmeno conto di quello che stavano facendo.»

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    08 Ottobre, 2022
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Il tradimento della nazione

«Fife, sulla sedia a rotelle, si gira e dice alla donna che lo sta spingendo: Non ricordo più perché ho accettato di fare questa cosa. Tu sai dirmi perché ho accettato? È la prima volta che glielo domanda, ma non è una vera domanda: è umorismo lieve, tra l’autoironia e l’autocommiserazione, e Fife si è espresso in francese, ma lei dà l’impressione di non comprenderlo.»

Cos’è davvero la nostra vita? Quanto e quando abbiamo davvero vissuto? Quanto e quando siamo scesi a compromessi o abbiamo mentito, millantato, commesso azioni più o meno deprecabili? Viviamo secondo quello che è il nostro codice d’onore, viviamo secondo quelli che sono i nostri obiettivi eppure, un giorno come un altro, ci risvegliamo ed è tempo di bilanci. Quale senso ha davvero avuto la nostra vita? Quale senso ha? Qual è, se c’è, il nostro lascito? Questo è anche un po’ quel che accade in queste pagine quando conosciamo Leonard Fife, icona in quel del Canada in cui vive da decenni, padrone di storie narrate tra menzogne e verità, tra documentari e racconti, tra omissioni e derisioni. Uomo che con il suo primo lavoro ha smascherato la collusione tra governo canadese e americano allo scopo di testare il famigerato Agent Orange. Ed ora è alla fine della sua vita. Una vita che dovrebbe celebrare i suoi successi, evidenziare il suo legame con l’amata moglie Emma, con i suoi allievi, figure che adesso sono al suo capezzale per ascoltare la sua grande storia. Ma ecco che qualcosa accade e che quella storia narrata da quell’uomo che appare finito e sulla sedia a rotelle, prende una dinamica e una forma diversa, perché quelle che profferisce sono parole fatte di una verità ignota al grande pubblico. Lui è colui che ha cambiato il cinema documentario ed ora che è dietro alla macchina da presa si muove nel tempo, narrando e ricostruendo. È una storia fatta di fughe, tradimenti, paure, viltà, bugie. Una storia che distrugge quella maschera indossata sino ad ora. Oppure no? Una lunga intervista fluida di pensieri. Una vita che scorre come un fiume in piena. È giunta l’ora di rimettere ordine al caos di ricordi, di dare loro nuova linfa e anche giustizia.

«La menzogna potrebbe restare sepolta sotto la verità, continuare ad essere la sua colpa inconfessabile.
Perché no?
La menzogna è ancora abbastanza solida da sostenere la verità, e Fife l’ha passata liscia per cinquant’anni: può lasciarla sepolta per le poche settimane o i pochi giorni che gli restano da vivere, e nessuno ne saprà mai nulla.»

Ma qual è il ruolo della morale? “I tradimenti” di Russell Banks è un romanzo complesso, dove nulla è scontato, dove i messaggi e le riflessioni sono sottese. Partiamo dal presupposto che Banks ha la grande capacità e obiettivo, da sempre, di raccontare il sogno americano e di riuscirvi improntando e impostando i suoi scritti con una verve fortemente critica e anche ironica. Nelle opere precedenti ha sempre evidenziato quelle che erano le criticità del sistema, le difficoltà dei ceti più poveri, le disparità sociali ma anche l’illusione di un perbenismo improbabile quanto inarrivabile, il razzismo, la discriminazione lato sensu, la diversità, il ruolo, ancora, delle classi dominanti rispetto a quelle subalterne. Ma con quest’opera ultima quel che viene messo in evidenza è anche il cambiamento epocale. È come se ci si trovasse davanti a un punto di rottura, ed è già il protagonista a rendercene prova essendo, questo, icona di un tempo ormai non più presente.
E non saranno tanto le rivelazioni l’elemento centrale del testo. Queste saranno sì forti e sconvolgenti ma non avranno il carattere di assoluzione. Ancora, siamo davanti a una confessione vera e propria, ma il nucleo centrale della narrazione e sviluppo dello scritto non è dato a Fife come a nessun altro personaggio introdotto. La domanda dunque che sorge spontanea è: qual è l’obiettivo di Fife/Banks? Fare i conti con un passato che è un macigno sulle spalle o fare i conti con la propria coscienza? Qual è l’effetto di quelle scelte che sono state fatte e che sono delle fughe? È necessario comprenderle esattamente come lo è ricollocare la morale nell’etica. È possibile avere assoluzione in virtù della fuga compiuta? Qual è il confine dell’etica? A far da sfondo un paese con i suoi pregi e i suoi difetti, con un tempo che ha visto il susseguirsi di ideologie, fasi storiche, economiche, politiche, un passato che riporta a un presente imperfetto. Non manca nemmeno il riferimento al conflitto bellico, che è atto liberatorio, espressione di follia dei potenti, un invito a rileggere il nostro tempo che chiarezza e lucidità e non con ideologie e moti del momento.

«Il flusso del tempo che ha rotto gli argini e le dighe che hanno trattenuto i suoi segreti per quasi tutta la sua vita. La sua mente è inondata di ricordi, e il loro traboccare porta con sé i detriti dei suoi timori e sogni più reconditi, delle sue esperienze e ambizioni e fantasie, insieme a canzoni, racconti, poesie e film che ha amato – le macerie della sua vita – e lui, incapace di distinguerli, li racconta tutti.»

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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    08 Ottobre, 2022
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Il lutto si addice alle troiane

Troia è caduta. Pirro, figlio di Achille, uscito dal cavallo assieme ai migliori guerrieri achei, è penetrato nei palazzi reali e ha ucciso re Priamo; piuttosto goffamente in realtà, ma ora si comporta come se la vittoria sia merito suo. Il cadavere del sovrano giace insepolto nella campagna, cibo per larve e animali selvatici. Agamennone è in preda allo scoramento, perché Cassandra ha predetto che, al suo ritorno a Micene, Clitennestra lo ucciderà. La guerra decennale è vinta, ma gli achei sono ancora bloccati sulle coste della Troade: un vento maligno e insistente inchioda le navi a terra e gli uomini, spossati dall’interminabile attesa, sono sempre più irritabili e violenti. Perché gli dei sono irati con loro?
In questa atmosfera elettrica Briseide – inizialmente “preda d’onore” di Achille, poi causa indiretta della sua “ira funesta”, infine, dopo la morte dell’eroe, sposa di Alcimo, suo fedele compagno d’armi – cerca di barcamenarsi, sperando di conservare i pochissimi privilegi che, dopo anni di dolori e umiliazioni, le vengono dall’aver sposato un nobile guerriero vittorioso e dal portare in grembo il figlio del Pelide. Ma la situazione è assai difficile e, a complicarla, ci si mettono pure le sue compatriote prigioniere. Ecuba, vedova di Priamo, passa da momenti di puro scoramento, nei quali ulula per la perdita del marito, a gesti di sfida contro i vincitori. Andromaca, dopo aver perso il marito Ettore e il figlioletto Astianatte, gettato dalle mura, è profondamente prostrata, ma fa parte del bottino Pirro, instabile e violento, e deve subirne le angherie. Amina, una giovane troiana ligia agli antichi riti, non si dà pace nel sapere che Priamo è ancora insepolto: vuol sfidare il divieto di Pirro che ha minacciato la morte a chi si azzarderà a seppellirlo. Cassandra a tratti è catatonica e a tratti sragiona e ripete le sue funeste profezie in cui nessuno crede, ma tutti temono. Anche l’indovino Calcante è frustrato per non saper interpretare il volere degli dei e umiliato dal fatto che Agamennone lo ignori.

Questo romanzo è il seguito de “Il silenzio delle ragazze” e ci racconta degli esiti della guerra di Troia, dall’ingresso del cavallo entro le mura sino ai solenni funerali di Priamo e alla partenza delle navi degli achei. L’A. ripercorre il mito, ampiamente trattato nelle numerose opere del ciclo troiano, accettando pedissequamente ciò che la tradizione ci ha tramandato anche se non è raro che la narrazione mischi il mito alla pura invenzione, la quale spesso tradisce il primo stravolgendone alcuni fatti (magari facendo “risorgere” personaggi che già dovrebbero essere morti durante la guerra) o concependone di completamente nuovi e apparentemente inconciliabili con le premesse note.
Lo stile è quello che già abbiamo imparato a conoscere nel primo libro: cupo, opprimente, venato da una generale misantropia contro gli achei e, in generale, contro gli uomini, reputati capaci di ogni crudeltà e bassezza contro le donne. Queste, poi, possono solo subire passivamente cercando solo di parare alla meglio i colpi che a loro vengono inferti e covando in seno un odio (sterile?) contro chi le ha private di figli, mariti e genitori, senza il coraggio di esternarlo in una reazione aperta. Sotto questo aspetto particolare spicca, solitaria, la figura di Amina, l’unica che sa tenere testa alle ire di Pirro e l’unica che, prefissatasi una missione “di giustizia”, la porterà a termine rivendicando l’autonomia della sua determinazione e accettandone con temerarietà tutte le conseguenze, anche le più estreme.
Contrasta con questa fermezza il comportamento della narratrice, Briseide, che si dibatte nel suo duplice ruolo di donna libera (rectius liberata), che teme di compromettere il poco che ha acquisito, e di troiana che dovrebbe essere solidale con le compagne ancora schiave e, dalla sua posizione di vantaggio, cercare di alleviarne la pena. In bilico tra questi due ruoli è costantemente animata da dubbi, incertezze, titubanze, al punto che, quando aiuterà Amina, lo farà solo per una reazione compulsiva, dettata dal desiderio di portare a termine il più in fretta possibile un compito che mai avrebbe affrontato scientemente.
La figura di Pirro dovrebbe sostituire quella di Achille nel ruolo di antagonista delle troiane. Ma come il giovane dimostra di non essere all’altezza del padre come guerriero impavido così non lo è neppure come personaggio tormentato. Per quanto possa essere interessante la lotta interna che deve affrontare con sé stesso e con il fantasma del Pelide e della sua gloria, tutto appare abbastanza irrisolto. Più che un individuo straziato ci appare come un ragazzino viziato che non si capacita di non ottener tutto ciò che desidera e crede gli spetti.
In fondo vera e unica protagonista del romanzo è l’attesa, una oppressiva, esasperante attesa che qualcosa muti. Per i guerrieri achei si tratta del clima (peraltro argomento principale di tutte le loro conversazioni, come in un pub di Chelsea) e delle condizioni del mare per la partenza. Per le donne prigioniere è il loro status; al momento una specie di limbo in cui la schiavitù è, sì, oppressiva, ma ancora non ben definita come lo sarà quando verranno condotte come prede in Grecia. Per alcune di loro (Cassandra ed Ecuba, ad esempio) è solo l’attesa della morte che reputano imminente. Per Briseide, infine, oltre all’attesa che le impone l’impegnativa gravidanza di un figlio di cotanto padre, c’è quella indicibile che il suo ruolo si definisca, in un modo o in un altro.
Questo indugio continuamente protratto rende il racconto abbastanza soffocante e parzialmente claustrofobico.
Il tono grave, ma sostanzialmente piatto, della narrazione non muta per tutto il romanzo, rendendo non piacevolissima la lettura che procede lenta, come lenti si evolvono gli eventi, privati di azioni eroiche (se si esclude quella di Amina, che, però, ci viene descritta solo nelle fasi finali), ma zeppi di comportamenti neghittosi o isterici. Il linguaggio usato talvolta è brutale, e come molti comportamenti spesso appare inconciliabile con una civiltà del XIII secolo a.C., più spesso è solo monotono e soporifero.
Come nel libro che l’ha preceduto, è inutile cercare la piena coerenza storica: non è raro che l’A. commetta anacronismi e forzature per assecondare la realtà (quantomeno quella che sarebbe dovuta essere la realtà di allora) al flusso della narrazione, magari inserendo citazioni di testi ampiamente posteriori o situazioni inconcepibili per l’epoca del bronzo.
In conclusione si tratta di un libro interessante per i temi trattati, meno noti al grande pubblico delle vicende dell’Iliade, ma non propriamente compiuto. Come il volume che l’ha preceduto è permeato dal solo rancore nei confronti degli achei oppressori, senza alcuno sviluppo ulteriore e non si può fondare un intero romanzo sul solo astio inespresso. Quello che mi è mancato di più, però, è il coraggio di spogliare definitivamente la storia dal mito, e di raccontare quella che, forse, fu la vera vicenda di quella lontana guerra, la quale, come tutti i conflitti che l’hanno seguita, seminò vero dolore e vero orrore, soprattutto per coloro che del clamore delle armi furono solo le vittime senza poterne essere pure gli artefici e che, qui, avrebbero potuto finalmente rendere una testimonianza postuma.

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siti Opinione inserita da siti    07 Ottobre, 2022
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Solo in una città straniera

Lev Glebovic vive a Berlino in una pensione abitata da altri esuli russi, frequenta Ljudmila, una giovane donna che non ama e si tormenta alla ricerca di un modo per lasciarla. La pensione è attraversata e ferita intimamente dal continuo passaggio dei treni. La città è straniera, lui un'ombra come i suoi coinquilini, fra di essi uno solo proteso al futuro, Aleksej Ivanovic Alferov:è in trepida attesa dell'arrivo della moglie Masen'ka. I giorni della settimana sono scanditi e tesi verso il sabato, giorno nel quale la donna, dopo quattro anni, arriverà dal marito.
Ganin, ovvero Lev Glebovic, riesce nel frattempo a chiudere con Ljudmila per aprirsi totalmente alla dimensione del ricordo: anche lui ha amato una Masen'ka… il ricordo sta pericolosamente collimando con la realtà in un inatteso coincidere di protagonisti.
Le immagini del passato russo, piene di betulle e spensieratezza, sono per lui una vita parallela necessaria per sopportare il nuovo film urbano, da esule, nel quale vive imprigionato. La Russia settentrionale e le sue stagioni sono evocate con una maestria descrittiva che trasuda poesia. È il tempo dell'amore, nell'estate russa, in lontananza, sullo sfondo una guerra, percepita come aliena. Poi la rivoluzione e la separazione: bellissime pagine dedicate al primo amore, struggenti, ricche di vita, delicate. Infine il congedo, maturo e straziante dal passato, alla ricerca di un treno per un'altra tappa da esule. C'è tutta la maestria di Nabokov in questo suo esordio letterario. Consigliato a chi ama la vita trapuntata di ricordi e ammantata di squarci paesaggistici che normalmente le fanno da sfondo rendendo il ricordo indelebile.

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    04 Ottobre, 2022
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Il tutto e il niente

Il nuovo romanzo di Marco Missiroli si propone di raccontare una storia dal sapore amaro e struggente, una storia di fragilità umana, di caduta e di perdita di controllo.

Un menage familiare di superficie che scorre tranquillo ha solcato il mare dell'intera esistenza di una coppia e dell'unico figlio, eppure il demone del gioco d'azzardo è entrato tra le mura di casa, dapprima in sordina per poi radicarsi come erba infestante.
La vita scorre con i suoi riti e ritmi in una città di provincia, tra consuetudini, conoscenze e chiacchiericcio.
Rimini con il suo velo nebbioso autunnale che cala come un sipario dopo la stagione estiva, due volti che si alternano, luce e grigiore, aggregazione e solitudine.
Milano la grande città verso cui evadere per consolidare una posizione professionale e gettare le basi per un nuovo percorso di vita.

“Avere tutto” nel suo titolo emblematico vuole essere la storia di un padre e la storia di un figlio. Stati d'animo inespressi, verità taciute, silenzi tra le mura di casa, maschere da indossare per celare il buio dell'anima.
Due protagonisti perfettamente delineati nella loro debolezza ma al contempo nella loro pertinace ricerca di riscatto. Due uomini fatti di zone di luce e zone d'ombra, affini e diversi, complicati nella loro apparente semplicità.

L'autore ritorna al suo stile asciutto, dove la sintesi è tagliente e affilata, i flashback portano avanti e indietro il flusso temporale come a seguire l'irrequietezza del pensiero e l'indomabilità dei ricordi, che si affastellano numerosi, teneri e dolorosi insieme.
Non ci si propone un costrutto narrativo che vada a sviscerare le cause che hanno portato un giovane uomo ad entrare nella palude del gioco, ma con rapidità e precisione si fotografano immagini delle disfatte e degli sprazzi di speranza, delle piccole gioie quotidiane e delle bugie.

Una storia dagli esiti aperti, né condanna né assoluzione.
Emozionale, essenziale, intimistico.

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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    04 Ottobre, 2022
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Una sorta di pastiche fiabesco

Ormai mi sono convinto che Stephen King abbia votato se stesso alla sperimentazione di ogni sorta di genere. Con la serie di “Mr. Mercedes” si è gettato sul noir-poliziesco, con “Billy Summers” e “The Outsider” sul thriller, e adesso con “Fairy Tale” sul fantasy-fiabesco. Inutile dire che ognuna di queste produzioni è infarcita di elementi di quello che, alla fine, è il genere in cui dà il meglio di se: l’horror. Il protagonista stesso di “Fairy Tale”, una volta immerso nel mondo fantastico di Empis nel quale porterà avanti le sue avventure, capisce molto presto che quelle che sta vivendo non sono avventure fiabesche di stampo disneyano; il modello di riferimento sono infatti le fiabe classiche, in particolare quelle dei fratelli Grimm, anche nelle loro versioni più inquietanti e cruente. Chi fosse ferrato riguardo questo tipo di produzioni, infatti, saprà che le fiabe originali dalle quali spesso la Disney ha tratto i suoi grandi classici sono infarcite di violenza, terrore e sofferenza.
Il viaggio di Charlie Reade è una sorta di miscuglio di tante storie conosciutissime, e forse questo è un po’ il punto debole del romanzo: sa di già visto e ha pochi (se non nessuno) elementi davvero innovativi. Basti pensare che il concetto che fa da motore alla storia è un elemento ripreso esplicitamente da “Il popolo dell’autunno” di Ray Bradbury. Nel romanzo di Bradbury (bellissimo, leggetelo) un luna park popolato da aberranti creature contiene una giostra che, girando all’indietro, può ringiovanire chi ci sale e viceversa. Nel mondo creato da Stephen King esiste una meridiana che ha le stesse peculiarità; una meridiana che Charlie vorrà usare per ringiovanire il suo cane, e il riferimento non è nascosto bensì esplicitato chiaramente dall'autore che inserirà il romanzo tra le letture del protagonista. Sarà questo l’obiettivo primario del protagonista per una buona metà del libro, fin quando le sue avventure non lo porteranno ad affrontare orrori ben peggiori: Empis è infatti un regno oppresso da un’orrenda maledizione che colpisce la maggior parte dei suoi abitanti con un orrendo morbo, che pian piano li rende di carnagione grigia e sembra quasi cancellarne i lineamenti. Il regno, una volta ridente, è adesso governato da un uomo orrendo e senza scrupoli, il Predatore, e dai suoi scagnozzi: i soldati della notte.
Pur dando l’impressione di volersene distanziare, lo stampo strutturale dell’opera è squisitamente disneyano: il ragazzo prodigio che si ritrova improvvisamente ad essere il prescelto, il principe tanto atteso citato da un’antica leggenda, l’unica salvezza per un intero popolo e, ovviamente, coinvolto in una liason con la bella principessa. King prende questi stereotipi e prova a romperli, secondo me in maniera non abbastanza forte da creare una vera rottura o comunque una storia che possa definirsi originale. Anzi, come ho già detto, sa tutto un po’ di già visto.
Lungi da me giudicare la volontà di un artista: se King ha deciso che il suo sogno è sperimentare tanti generi diversi, è una sua scelta e la rispetto. Ma continuo a pensare che se nel corso della sua carriera si fosse preso un po’ di tempo, tra un romanzo e l’altro, avremmo tanti capolavori in più che portano la sua firma. Forse godrebbe di qualche considerazione in più nelle “alte sedi”.
Ma ognuno fa le sue scelte.
“Fairy Tale” è un romanzo abbastanza scorrevole, ma se dovessi decidere passare qualche giorno con una piacevole lettura, forse sceglierei qualcos’altro. Magari anche dello stesso autore.

“Ci si abitua alle cose più stupefacenti: tutto qui. Alle sirene e ai grandi schermi, ai giganti e ai telefoni cellulari. Se una cosa si trova nel tuo mondo, ne accetti subito l'esistenza. È meraviglioso, non trovate? Se però guardate tutte queste cose da un'altra prospettiva, sono terribili. Pensate che Gogmagog sia spaventoso? Il nostro mondo è seduto sopra un arsenale di armi nucleari che potenzialmente sarebbe in grado di distruggere il pianeta, e se non è magia nera questa, non saprei come altro definirla.”

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    03 Ottobre, 2022
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Il mostro di Bolzano

Lorena Haller, prostituta, ventiquattro anni, chiamata dai clienti, colleghe e spacciatori “la bambina”, viene rinvenuta priva di vita con ventiquattro fendenti. Il suo caso viene affidato a Luther Krupp, commissario forse troppo giovane, troppo inesperto, troppo ligio alle regole ma che sa benissimo che quel che si trova davanti non è solo un killer ma un serial killer. Un serial killer che in quel del 1992 si aggira per una Bolzano che è una città che illude e getta via, che è un paradiso immaginario e immaginato che non può macchiarsi di questa colpa di una morte e di un omicidio e pure efferato. Siamo in anni in cui non esistono i mezzi tecnologici che conosciamo adesso, anni in cui si mirava a tutelare l’apparenza dei luoghi comuni.

Luca D’Andrea torna in libreria con un romanzo che è un resoconto preciso e minuzioso che fonde leggende, menzogne, articoli di giornale che riportano a lui: “Il Killer delle Lucciole” o “Mostro di Bolzano”.
Un romanzo, dunque, che non è solo finzione ma anche realtà traendo spunto da un fatto realmente accaduto che viene qui narrato mixando persone realmente esistite, cronaca e finzione narrativa. Il risultato che viene ottenuto è un puzzle a 360 gradi in cui viene ricostruito tutto ciò che si manifestò tra anni ’80 e ’90 del secolo scorso. A far da cornice e sfondo una realtà fatta di droga, prostituzione, degrado e serial killer, una cronaca nera del tempo. È molto importante, infatti, focalizzare sul periodo storico e da qui muoversi per contestualizzare uno scritto in cui si fonde indagine poliziesca e cronaca giornalistica.
Al tutto si aggiunge uno stile narrativo rapido, con molteplici colpi di scena, capace di ribaltare le sorti e far riflettere su una indagine mai scontata o lasciata al caso.
Luca D’Andrea, classe 1979, Bolzano, riporta il lettore a vivere di un fatto di cronaca nera solo in apparenza dimenticato ma, in realtà, ancora profondamente attuale.

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ornella donna Opinione inserita da ornella donna    03 Ottobre, 2022
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Il sogno di un villaggio operaio


Alessandra Selmi, è titolare dell’agenzia letteraria Lorem Ipsum, dove si occupa di scouting e editing, e insegna Scrittura editoriale nell’ambito dei master dell’Università Cattolica di Milano. Ora approda in libreria con una saga familiare molto avvincente, intitolata Al di qua del fiume. Il sogno della famiglia Crespi, edita da Nord edizioni.
Il libro inizia dalle origini nel 1877, quando uno dei titolari del cotonificio Benigno Crespi, tale Cristoforo, ha un sogno, e decide di attuarlo: costruire una fabbrica e un villaggio operaio a misura d’uomo, cercando di soddisfare al meglio le condizioni di vita e di lavoro dei suoi operai. E’ solo un sogno oppure no? Ci riuscirà?
“lo stabilimento è luminoso e immenso, pare non debba finire mai. Le macchine sono state disposte con ordine, tutte in fila: un susseguirsi di ruote e ingranaggi in ghisa e ferro, da cui il cotone, bianchissimo, entra ed esce come in un labirinto. Sembrano soldati diligenti in attesa dell’aprite il fuoco.”
L’inaugurazione è una festa da ricordare:
“La voce si è sparsa in tutta la zona. Da Capriate, a Trezzo, da Vaprio, da Brembate: la gente vuole vedere la fabbrica e i capannoni che, si dice, sono così grandi da perdercisi dentro. Molti hanno contribuito a costruirli, ma per altri che ne hanno solo sentito parlare questa è l’occasione per scoprire se è tutto vero. Lì comincia il futuro”.
Nasce così il villaggio Crespi, oggi nominato patrimonio dell’Unesco, a Crespi d’Adda, appunto. E il libro ne racconta le gesta dei suoi abitanti e del padrone fino all’avvento del fascismo che, purtroppo, farà sentire le sue gesta avventate e dolore, anche su questa oasi del paradiso. Tutt’ora presente.
Il libro è, sì, una saga familiare, che narra le gesta di un imprenditore differente che, soprattutto, intende conferire dignità ai suoi sottoposti. Ma non solo: è narrazione precisa e lineare delle condizioni di vita e di lavoro in fabbrica:
“Quella fabbrica si era rivelata ben altra cosa: l’aria resa irrespirabile dal pulviscolo del cotone, un clima torrido , incidenti all’ordine del giorno e il rischio costante che scoppiasse un incendio; turni estenuanti di dodici ore, tutto il tempo in piedi, con la schiena a pezzi e il rombo delle macchine nelle orecchie, che non se ne andava neanche quando finalmente usciva all’aperto. E poi le persone, per la maggior parte donne e bambini, non più schiavi delle macchine ma già parti di esse, chini, curvi, ritorti. Deformati dal lavoro.”
Il denaro è sempre e comunque il motore a giustificazione di profitto:
“E’ che il denaro a fare la differenza tra quello che si può fare e quello che non si può fare. Il denaro costituisce mondi dove tutto è possibile.”
Ne scaturisce, così, una bella storia reale ed attuale composta in primo luogo da persone umane, e poi da logiche economiche. Per chi ama le saghe familiari, ma non solo: anche tutte le tematiche legate al lavoro operaio, alle sue condizioni e ai suoi adattamenti nel corso dei secoli. Molto bello e frutto di una ricerca che si percepisce subito essere perigliosa e condotta con metodo di studio.

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Consigliato a chi ama le saghe familiari, sull'onda dei libri di Stefani Auci, ma con una distinzione: l'indagine e l'attenzione per le condizioni di vita e di lavoro degli operai stessi.
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    01 Ottobre, 2022
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Il volto dell'Italia e del Paese nel paese

Negli anni Antonio Manzini ha saputo reinventarsi e rinnovarsi. È passato dal giallo all’italiana per eccellenza dalle tinte poliziesche con il suo Rocco Schiavone, ha toccato le corde più profonde dell’attualità con “Orfani bianchi” in cui è stato capace di riportare alla luce realtà a noi spesso lontane, si è prestato alla formula del racconto, satirico e non, ma sempre molto puntuale. Uno scrittore versatile che, ancora una volta, tocca temi del presente con quella punta di originalità e profondità che gli è propria.
“La mala erba” è prima di tutto la storia di un piccolo paese di trecento abitanti nascosto tra le montagne dell’appennino tra Lazio e Abruzzo. Non hanno un futuro auspicabile, non vivono, sopravvivono, costoro. Questa è l’unica condizione loro concessa. Non è esente da ciò nemmeno Samantha, diciasettenne, protagonista del racconto. Un piccolo paese che viene descritto e rappresentato come strumento per parlare di un paese più grande, l’Italia. Con tutte le sue criticità e difficoltà. Con tutte le sue ingiustizie, verità infrante e impossibilità di riscatto.
Samantha è l’emblema di questo non futuro possibile. Nella sua camera osserva il poster della donna lupo dai capelli lunghi e gli occhi gialli, ammira e rimira su quel suo non arrendersi innanzi a nulla e riflette e trasfonde ciò su di sé e sulla sua vita di non gioie. Non è sola e non è l’unica a vivere in un futuro non scritto e in una dimensione non possibile. Anche gli abitanti di Colle San Martino si limitano a sopravvivere, trascinando le proprie esistenze in solitudine totale. Non esiste comunanza, non esiste una dimensione del comune. Padre Graziano, prete reazionario, e Cicci Bellè sono i detentori delle fila di questa realtà non realtà. Sono i burattinai che muovono le marionette, che sono mossi da odio, che si odiano, che muovono le proprie pedine tra ricatti e condizionamenti da cui non si può tornare indietro. Per Cicci solo il figlio Mariuccio di anni 32 e il cervello di 5 è sinonimo di provare un sentimento di affetto. Ljuba, invece, russa, si occupa di Faustino, nipote viziato di padre Graziano. Samantha, dal suo canto, è imbrigliata in un vivere fatto di silenzi e di non essere mai davvero ascoltata, è una giovane che non riesce a trovare conforto nell’uomo/ragazzo che ha accanto come fidanzato, né nei compagni di scuola. Solo con l’amica Nadia riesce a intessere un legame simile all’amicizia.
Ma la realtà del “paesotto” non perdona. Le vicende si snodano e intrecciano, si chiudono solo in apparenza tra le mura delle case, si susseguono e sussurrano tra le orecchie delle persone in un susseguirsi omertoso di fatti non fatti conosciuti ma non dichiarati, di capricci di un destino tragico e drammatico che non perdona e non concede seconde possibilità. Un destino che si abbatte proprio su Samantha. Un destino che si traduce in lutto, in follia, in una vita che ironica e satirica sembra prendersi gioco di te essere umano che la attraversi e cammini. Questa verrà colpita da una sciabolata feroce di eventi, eventi dai quali e per i quali imparerà la vendetta e il sapore agrodolce che questa rappresenta e costituisce. Può esistere una giustizia vera? Può il tribunale della terra concedere giustizia al pari di un tribunale divino? Può essere ammessa una giustizia quando l’unico strumento per raggiungerla è la vendetta? Può la vendetta fungere da strumento per ripristinare la giustizia? Può essere vinta l’oppressione di una realtà provinciale emarginata e chiusa in se stessa che altro non è che la metafora della nostra propria esistenza e solitudine ma anche individuale provincia intensa in senso metaforico?
Antonio Manzini, ancora una volta, scuote e resta con un romanzo che non parla solo di una realtà di provincia ma anche di una provincia intesa quale piccola lente di uno Stato più grande e corposo: il nostro paese. Con tutte le sue contraddizioni, fragilità, paradossi e incapacità di cambiare e cambiarsi. Vi riesce per mezzo di una scrittura diretta, rapida, costante. Vi riesce per mezzo di una scrittura fluida e magnetica che si confà ai suoi personaggi e alla realtà descritta. A ciò si aggiungono pennellate sui volti dei singoli protagonisti e sui luoghi descritti, luoghi e volti che rappresentano alla perfezione la descrizione di una realtà.
Manzini, in primo luogo, realizza uno spaccato del nostro presente ed ha anche il grande merito di riuscire a ricostruirne il volto. È un romanzo di denuncia, di riflessione, di descrizione. Un libro che sa porre l’accento sui più importanti paradossi del nostro vivere, su contraddizioni che non mancano di sovvertire al divenire sino a sovvertire anche il vivere quotidiano. Il tutto in un affresco del presente capace di lasciare molti spunti di riflessione e meditazione. Da leggere.

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    29 Settembre, 2022
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Quattro epoche per quattro donne

Cristina Comencini si avvicina alla letteratura da sempre con uno sguardo acuto, sensibile, magnetico, uno sguardo che trafigge e lascia un messaggio sempre profondo. Può piacere maggiormente o minormente a seconda del tema narrato, può convincere più o meno nello stile ma mai le sue opere sono lasciate al caso. Questo vale anche per “Flashback” ultima sua fatica edita da Feltrinelli e disponibile in libreria dallo scorso 27 settembre.
E sono proprio i “flashback” i padroni indiscussi di queste 272 pagine circa. Cosa potrebbe accadere se di punto in bianco la nostra memoria iniziasse a farci brutti scherzi? Se iniziassimo a vivere una sensazione strana, anzi stranissima, in cui non ci riconosciamo più, ci sembra di esistere, non esistiamo, esistiamo, non sappiamo chi siamo, perdite di coscienza, vita che la narratrice incontra e che cerca di tenere strette tra la memoria e il legame, donne del passato che bussano nel ricordo sfuggente e vacuo. Donne di un altro tempo che sono oggi e non solo ieri e che fanno parte comunque del suo quotidiano.
Ecco che ci risvegliamo nella Comune parigina del 1871. Eloisa è una cocotte bramata e desiderata da nobili ed intellettuali. Una storia da scoprire ma che può avere ripercussioni proprio in quel presente che fa parte della vita della nostra voce narrante. Perché le parole non sono mai solo parole, non sono mai fini a se stesse. Sono strumento per conoscerci, strumento che cambia la nostra esistenza, che influisce sul nostro vivere anche in funzione di una solitudine talvolta non conosciuta e conoscibile. E questo accade per mezzo di Sofia, che sogna di diventare attrice e che nel suo percorso incontra Sergio (in cui riconosciamo Ejzenstejn) e Gregori, che scopre l’amore e ancora… pouf, è tempo di Rivoluzione d’ottobre. Ed ancora lei, Elda. Elda che è una giovane operaia friulana ai tempi della Seconda guerra mondiale. Elda che deve affrontarlo quello spietato inverno tra il 1944 e il 1945, un inverno che non perdona, che piega, spezza e colpisce nell’animo. Infine, ultima ma non per importanza, ecco Swinging London e i suoi diciassette anni e la rivoluzione sessuale dei primi anni Sessanta. Accettarsi, accettare la propria diversità in un mondo che sta cambiando ma che ancora non è cambiato.
Donne, volti, storie ma soprattutto storia nella Storia. Perché questo è il romanzo più intimista, personale ma anche sovversivo del romanzo stesso della Comencini in quanto ne sovverte completamente i canoni.
Ancora una volta, inoltre, sono le donne le protagoniste della sua opera. Nelle loro fragilità, nella loro intimità, nella loro straordinarietà, nella loro vita semplice, negli eventi che sono chiamate a vivere, nelle loro cadute, nella loro capacità di rialzarsi. Eroine che incarnano la Storia e che in questa si ergono voci nel vento.
Quattro grandi epoche (la Comune di Parigi, la Rivoluzione bolscevica, la Resistenza, la Rivoluzione sessuale) per quattro momenti di ribellione per quattro persone comuni e come tutti noi.
Al tutto si somma uno stile fluido, diretto, pulito, appetibile per ogni lettore della scrittrice che unisce realtà, finzione narrativa, romanzo storico e riflessione. Una buona prova. Da leggere.

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    25 Settembre, 2022
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Triennio 1938 - 1940: tempo di guerra e di scelte

Dopo “M. Il figlio del secolo” (Premio Strega 2019) e “M. L’uomo della provvidenza”, torna in libreria Antonio Scurati con il terzo volume dedicato al fascismo italiano e a Benito Mussolini, leader e portavoce della dittatura. Con questo terzo capitolo ad essere oggetto della narrazione è il triennio che oscilla tra il 1938 e il 1940.
In libreria dallo scorso 14 settembre 2022, “M. Gli ultimi giorni dell’Europa” si trova ad entrare nel vivo di un periodo storico buio e oscuro. Se in “M. Il figlio del secolo” conoscevamo dell’ascesa di Mussolini, del chi era e del movimento, se in “M. L’uomo della provvidenza” ci trovavamo tra i salotti neofascisti e non e davanti a un romanzo meno dinamico e più statico, in “M. Gli ultimi giorni d’Europa” affrontiamo le leggi razziali, la scellerata e folle alleanza con la Germania nazista, l’opportunismo di Mussolini, il fascismo e il suo incedere e trascinare, il cadere sempre più nel baratro dell’Europa.
Tra queste pagine sorge spontaneo chiedersi come nasce una guerra e viene ancora più spontaneo pensare al presente, al nostro vivere attuale. Perché alla fine la guerra è la guerra, che sia di ieri o di oggi, si erge su uno scacchiere governato da altri con pedine che vengono mosse e quasi mai veri vincitori ma solo tante vittime e morte dilagante. Ecco allora che torniamo nel 1938, Mussolini ha quasi 55 anni, l’impero fascista si estende dal Brennero all’Albissinia ed è stata da lui proclamata l’uscita dalla Società delle Nazioni. In treno, alla nuovissima stazione Ostienze, sta per sopraggiungere il convoglio di aquile e croci uncinate su cui viaggia Aldof Hitler insieme alla sua delegazione di gerarchi per quella visita che toccherà le tre principali città italiane e cioè Firenze, Roma, Napoli. Solo poche settimane sono trascorse dall’Anschluss dell’Austria e della prima “informazione diplomatica” in cui si parla di “questione ebraica” in Italia ma ancora esiste la convinzione dell’attendere, dell’aspettare, dell’aspettare che la brama di potere e potenza si arresti da sola. Lo stesso Renzo Ravenna, avvocato decorato nella Grande guerra e fascista zelante, ne è convinto anche se non riesce a comprendere quella linea presa con l’approvazione delle “leggi razziali”. Una convinzione che al tempo ha portato gli Stati Europei ad attendere, a sottovalutare e infine a essere schiacciati da una verità troppo a lungo negata. Maggiore è ancora lo sgomento quando legge che Nello Quilici, amico giornalista a capo del giornale, appoggia il decreto di espulsione dalle scuole di qualsivoglia alunno di origine ebraica. Margherita Sarfatti che in passato aveva iniziato Mussolini alla diplomazia paga con l’esilio le proprie origini ebraiche essendo oltretutto sostituita da Clara Petacci, giovane fascistissima. Non c’è limite alla provvidenza, tutto sembra andare per “la giusta strada”, tutto sembra percorrere un destino di vittorie e successi per quell’impero inarrestabile e fiero di sé. Galeazzo Ciano, genero del Duce e ministro degli Esteri, si dedica all’invasione dell’Albania ignorando le informative sempre più inquietanti e allarmanti provenienti da Berlino. Ma può davvero Mussolini influenzare le decisioni del Fuhrer? L’Italia è impreparata alla guerra, egli sembra angosciato, eppure, il delirio si porta avanti e quel 10 giugno 1940 eccolo affacciarsi a Palazzo Venezia per annunciare al mondo quelle decisioni irrevocabili di cui la Storia ci ha portato memoria.
Metafora apocalittica dal già titolo, romanzo-romanzo, storia nella Storia, Storia nella storia, ecco che viene ricomposta l’immagine di un puzzle dalle dimensioni corpose e valorose, immagini che riportano l’Italia a riflettere su quella guerra che ha rappresentato un gigantesco equivoco nonché la più grande macchia. Ma nulla tra queste pagine è lasciato al caso. Né la stesura, né l’evoluzione dei contenuti, né l’evolversi di una vicenda che accompagna in un susseguirsi ben cadenzato e ancor meno il logo e la copertina rappresentati dalla M di Mussolini stilizzata dagli esperti degli anni Trenta, al colore nero della lettera su sfondo bianco in cerchio con campo rosso attorno. Scelta visiva d’impatto ma anche significativa perché ci fa comprendere sin dal primo sguardo chi è il protagonista del libro, quali vicende regnano, e il come il Fascismo divenne succube del Nazismo.
Non mancano alcuni piccoli refusi, non mancano alcune imprecisioni storiche che possono starci stante il lavoro di costruzione ma che si potrebbero correggere nelle prossime ristampe (a titolo di esempio a pagina 60 si parla di Alessandro Preziosi quale capo indiscusso dell’antisemitismo fascista quando in realtà fu Giovanni Preziosi a esserlo, o ancora a pagina 85 si parla di Romano Ravenna, ultimo figlio del podestà Renzo Ravenna, quale “battezzato” ma occorre ricordare che non esiste il sacramento del battesimo inteso in senso cattolico nell’ebraismo).
Interessante anche la scelta narrativa impostata in questi tre volumi nel focalizzare sulla figura del primo leader, interessante quanto capace di suscitare riflessioni per la grande complessità della personalità stessa con tutti i suoi “cambiamenti di bandiera”, scelte, azioni e decisioni. Vasta la trattazione del periodo storico nonché delle tematiche, ampio lo spazio che viene rilasciato alla persecuzione ebraica anche per mezzo della voce di due ebrei fascisti. Circa 1/3 del libro ne è oggetto ed è specchio, quale scelta, secondo il modesto parere della scrivente, di una necessità del nostro tempo di ricordare e meditare sulle nostre scelte, sui paradossi, sul clima sempre più pregnante e particolare di ieri e di oggi.
Nel complesso, una lettura intrigante, travolgente, che si legge in modo rapido, composta da brevi e rapidi capitoli, avvalorato da documenti storici ufficiali, dal ritmo incalzante e anche i tratti di una fiction. Una prova ancora più corposa delle precedenti, uno scritto che entra ancor più nel vivo della fase fascista. Da leggere.

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68 Opinione inserita da 68    24 Settembre, 2022
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Paura di amare…

…” Tutt’a un tratto ho sentito la voce dell’ acqua “…

Kawakami Hiromi tratteggia un romanzo intenso dai toni delicati, cadenze malinconiche e sentimenti che si nutrono di ricordi, oggetti, voci, amicizie, condivisioni, assenze, silenzi, spezzoni di vita, lo scorrere del tempo, cinquant’anni anni di storia giapponese.
Una scrittura sussurrata, schiva, semplice, precisa, senza orpelli ne’ invenzioni di sorta, una dolce sinfonia, prolungata carezza dell’ animo.
Un romanzo da leggere per riafferrare il senso smarrito dell’ essere, il piacere delle piccole cose, nel cuore di un linguaggio stringato ma opulento.
Miyaco e Ryo, i due protagonisti, figli di Mami, scomparsa da dieci anni a causa di una malattia, dopo un lungo periodo di lontananza, ciascuno preso da se stesso, tornano a vivere in quella che è stata la casa della loro infanzia, nel quartiere di Suginami, una delle zone più tranquille di Tokyo.
Paiono estranei, invecchiati, senza molto da dirsi, ma all’ interno della loro casa sembra sopravvivere una suggestione, tutto parla di loro, riflettendone la presenza.
Ogni volta che Miyaco tira le zanzariere, chiude le imposte, gira la maniglia di una porta, riemergono Immagini dai contorni sfumati, …”vaghe ombre luminose che attraversano come lampi il suo campo visivo “….
Realtà e sogno si alternano, Mami e’ una presenza costante, il suo amore per la vita, la sua originalità, la sua risata, un archetipo di donna, figura scostante cui volere molto bene.
Passato, presente, futuro, voci della memoria di una guerra che non si è conosciuta direttamente, ciascuno dilaniato da un momento unico di rottura e di sofferenza.
Ryo ha vissuto il trauma dell’ attentato alla metropolitana, quando ha pensato di morire, non ama parlare di se’, Miyaco sogna e sente continuamente la voce materna che la tratta con dolcezza, come mai durante l’ infanzia.
Il profumo del tempo rivive negli oggetti inanimati che paiono incastrarsi perfettamente, non altrettanto si può dire dell’ animo umano che richiama sensazioni confuse, impercettibili, una nebbia dei sensi intrappolata nella memoria.
Gli anni lontano da Ryo hanno lasciato in Miyaco un senso vivo, a fior di pelle, da quando hanno cominciato a vivere insieme l’ immagine invecchiata di lui si sovrappone a quella del passato, …”la memoria si fa confusa, i ricordi si accavallano e i più pesanti sprofondano “..,
La voce della coscienza spinge i due fratelli a chiedersi se la loro è una famiglia, chi il loro vero padre, a rivisitare il rapporto con la madre e tra loro stessi, che cosa si nasconde dietro una dimenticanza, il tempo ha realmente cambiato i sentimenti?
Poi, di colpo, Miyaco non sente quasi più nulla, solo …” suoni senza senso che fluttuano nell’ aria notturna come bolle di sapone “…, fissa i motivi sulla parete che avevano disegnato lei è Ryo da piccoli, un mestolo, dei fiori di prugno, un airone, un paesaggio innevato con la luna, la folgore, una rondine.
In lei vive un’ altra se’ che la caratterizza e un legame molto più forte di quello fraterno, finora ha ignorato il significato autentico della parola amore.
La convivenza con Ryo svela un nuovo rapporto e recupera il precedente, i due si aprono ai propri sentimenti, nel viso del fratello si nascondono i tratti che aveva a trent’anni perché …’ il tempo resta nascosto dentro di noi, si arrotola e si srotola, forma dei nastri che si arrotolano nei nostri corpi “….
Intanto il luogo della giovinezza e della memoria è colpito duramente dalla terra tremante; in quel mentre, costretti a partire controvoglia, tutto si fa certezza e la vera paura incombe,…” la paura di essere felici accanto a chi si ama “...

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ALI77 Opinione inserita da ALI77    23 Settembre, 2022
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UN VECCHIO CASO DI SARTI ANTONIO

Questo romanzo è uscito per la prima volta circa quaranta anni fa, è l'undicesimo libro della serie dedicata al sergente Sarti Antonio.
Nella prefazione di questa nuova edizione, l'autore espone le proprie perplessità nel ripubblicare quest'opera a distanza di anni, chi li ha vissuti sicuramente se li ricorda e rivive nelle pagine l'atmosfera e i sogni dei primi anni Ottanta del secolo scorso. Nonostante non sia passato moltissimo tempo sembra di essere in un altro mondo, si sente molto la differenza di costumi, di abitudini, oggi la vita è completamente diversa.
Al centro della narrazione c'è il ritrovamento di uno studente americano che è caduto dalla finestra di un palazzo al terzo piano, tutto fa pensare a un suicidio, ma qualcosa non quadra e Sarti Antonio decide di approfondire il caso e continua a indagare nonostante l'ispettore capo lo abbia già archiviato.
La vittima aveva una valigetta piena di dollari non si sa per quale motivo o per cosa gli sarebbe servita ma sicuramente questo è un elemento che insospettisce il protagonista.
"Subito dopo scorrono gli avvenimenti legati a Fiammiferino, senza che manchi nulla, come registrati: è il grande pregio di Sarti Antonio, sergente. Il solo che abbia. Difetti sí, un sacco. Per esempio non è in grado di coordinare i dati che riesce a mettere in memoria e, se vi pare poco, tenete presente che proprio per ciò si prende delle sbandate che lo mandano, sovente, a sbattere il naso su muri di cemento armato; se aggiungete le crisi colitiche che lo lasciano senza forza né volontà, avete il ritratto di una bella tempra di questurino. E non è che io mi diverta a maltrattarlo: riporto le cose come stanno nella realtà. Piú obiettivo di cosí…"(cit.)
Il crime al centro di questo libro abbraccia e ci racconta uno scenario e un periodo storico che si inserisce perfettamente nel contesto italiano di quegli anni. Bologna è la città che fa da cornice alle storie con protagonista il sergente Sarti e in questo caso l'ambientazione è parte integrante della narrazione.
Sarti Antonio è un protagonista che apprezzo per la sua onesta e per il suo senso del dovere e di giustizia che prevale sempre in ogni suo caso, la sua etica e la sua morale nel lavoro lo portano a risolvere i casi con passione e coraggio. Non ha particolari doti investigative, non ha intuito, ma grazie alla sua buona memoria riesce ad assembrare i vari pezzi del puzzle per risolvere l'indagine. E' sicuramente un personaggio particolare, ho apprezzato il suo lato umano, la sua sensibilità che non è così scontata.
Non è privo di difetti, è amante del caffè che forse è una delle pochissime cose alle quali non riesce a rinunciare, soffre di coliti ma è stato costruito dall'autore in maniera molto "normale" e questo che lo rende immediatamente simpatico e caro ai lettori.
Lo stile narrativo l'ho trovato semplice, la storia è scorrevole anche se, a mio avviso, si percepisce subito che è un testo scritto alcuni anni fa; non è un punto a sfavore però è sicuramente un elemento da evidenziare se non si conosce l'autore o la serie letteraria.

Il caso è autoconclusivo, non necessariamente si devono leggere i libri in ordine di uscita, il romanzo si concentra molto sulla parte crime e meno sulla vita del protagonista o dei personaggi che gli sono di supporto.

Questo libro è un tipico giallo soft all'italiana, non mi aspetto nulla di diverso quando leggo questo genere di romanzi. Oggi i crime, soprattutto quelli stranieri, hanno delle descrizioni molto più crude e dirette e anche i casi tendono a essere più macabri e forse anche esagerati in questo, in quanto premono eccessivamente sul lato tragico della storia. E' un testo lineare, scorrevole, che punta l'attenzione sulle indagini del sergente Sarti e sull'operato della sua squadra, quindi in questo l'autore riesce ad essere convincente nel raccontare questa storia.
Però è il protagonista che riesce a sorreggere l'intera narrazione e a rendere piacevole anche un libro scritto quarant'anni fa.




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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    07 Settembre, 2022
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Elena e gli eroi dell’Orsa maggiore

Tra il 1940 e il 1943 un pugno di giovani, travolti nell’orrendo tritacarne che fu la Seconda Guerra Mondiale, si offrì volontario per affrontare quella che, all’epoca, era la più potente Marina del Mondo: la Royal Navy. Misero eroicamente a rischio la libertà o, assai più spesso, la propria vita: a cavalcioni di un siluro o su barchini carichi di esplosivo, andarono a sfidare portaerei, corazzate e tutto l’enorme potenziale bellico dell’allora Impero britannico, potendo fidare praticamente solo della propria determinazione e abnegazione.
In questo libro possiamo leggere la storia romanzata di uno di loro, il 2° capo Teseo Lombardi, e del gruppo Orsa Maggiore, di cui faceva parte, che, nel 1942-43, dalla base segreta ad Alcesiras, partì più volte all’assalto delle navi inglesi a Gibilterra. Ma soprattutto questa è la storia di Elena Arbués, una giovane spagnola, vedova di un marinaio ucciso dagli inglesi (per sbaglio!) a Mers-el-Kébir, nel 1940, quando la flotta britannica cannoneggiò le navi francesi lì ancorate. Elena troverà Teseo svenuto sulla sabbia davanti a casa sua, nel paese di La Linea, e, invece di consegnarlo alla Guardia Civil, lo soccorrerà e chiamerà i suoi compagni perché vengano a riprenderselo. Da quel momento, per un destino inspiegabile, si sentirà legata a quell’uomo, al punto da innamorarsene e rischiare la vita per raccogliere informazioni a favore degli incursori italiani che preparavano gli attacchi al difesissimo porto di Gibilterra.

Giunto all’ultima pagina del libro i primi aggettivi che affiorano alle labbra sono tutti positivi: avvincente, coinvolgente, emozionante; toccante quando non commovente; accurato e obiettivo. Come italiano non ho potuto non sentirmi orgoglioso che uomini simili a quelli protagonisti della storia siano realmente esistiti e abbiano compiuto quelle audaci imprese. Conoscevo e stimavo già prima la bella prosa di Perez-Reverte, ma qui ho apprezzato moltissimo la sua abilità di calarsi perfettamente nella mentalità e nel modo di sentire di noi italiani, senza cadere in facili luoghi comuni o in sfacciate piaggerie. La guerra non viene mai glorificata (anzi!), ma se ne accetta l’inevitabilità in quel contesto con tutte le sue orrende crudeltà relative. Soprattutto, viene esaltato il coraggio di coloro che, per amore della propria Patria, furono in grado di giocarsi tutto con la lealtà, l’onestà e la determinazione di un cavaliere da epopea medievale.
Lo stile è incalzante e sobrio, anche se, magari, non sempre perfettamente fluido e, talvolta, sia necessario rileggere una frase per comprenderne meglio il senso. Comunque, una volta preso a leggere quelle pagine, difficilmente si riescono a staccare gli occhi dalla stampa. La storia in sé, poi, per la sua assoluta verisimiglianza è degna della massima attenzione. Semmai ho trovato doloroso che si sia dovuto attendere la mano di uno scrittore straniero per poter leggere dell’epopea degli incursori della Regia Marina inquadrati nella Xa Flottiglia MAS che, da soli, causarono alle Marine Alleate il 38% delle perdite di navi da guerra inflitte dalle nostre Forze. A dare ancor maggiore dignità alla storia, poi, c’è la figura di Elena, davvero toccante e commovente, per la sua singolare umanità, tempra e determinazione, nonostante potesse considerarsi estranea a quella guerra combattuta ai confini della sua patria.
Reso il doveroso tributo al bravo autore spagnolo, mi rendo conto, però, come sia necessario commentare obiettivamente il romanzo e, quindi, non posso non evidenziare alcune perplessità che mi sono restate per il suo carattere ibrido. Infatti “L’italiano” non è un libro di storia militare, né un romanzo storico propriamente detto, e neppure una cronaca giornalistica drammatizzata.
Non è storia perché i fatti narrati sono solo in minima percentuale aderenti alla realtà fattuale. È esistita la nave Olterra, base per il gruppo Orsa Maggiore che attaccò più volte la Rocca britannica. Ma non sono mai esistiti un Teseo Lombardo, un Gennaro Squarcialupo, un Lauro Mazzantini o un Domenico Toschi che abbiano prestato servizio nella X MAS. La Royal Navy non ha mai avuto in linea una nave chiamata Nairobi (né molte altre di quelle citate); nel porto di Gibilterra non fu mai attaccato e gravemente danneggiato un incrociatore pesante. Molte delle azioni narrate e dei fatti riferiti sono il frutto di un abile mixage di avvenimenti accaduti durante la Seconda Guerra Mondiale, ma anche in luoghi molto distanti da quello descritto. Tutto ciò, peraltro, sarebbe lecito in un romanzo se l’A. non pretendesse di riferirci fatti storici reali, addirittura raccontando di come gli furono narrati dai superstiti o di come abbia reperito i documenti relativi. Insomma se l’invenzione non venisse così strettamente mischiata alla realtà al punto di rendere complicato distinguere le sue tessere dal parto della fantasia. La perplessità nasce dal fatto che, una volta scoperto che la vicenda è (quasi totalmente) inventata, possa nascere il sospetto, in chi non conosce la vera storia, che lo sia anche tutto il contesto, sminuendo l’importanza di ciò che fu realmente compiuto. Forse si sarebbe potuto ambientare un racconto non molto diverso, con maggior rispetto dei fatti certi e documentati.
Detto questo, però, il libro è comunque da leggere e da consigliare a coloro che già conoscono l’epopea degli “uomini gamma” italiani e a coloro che, invece, ne ignoravano l’esistenza (forse la maggioranza di noi italiani). Soprattutto lo consiglierei alle giovani generazioni per mostrar loro di quale tempra fossero fatti i nonni dei loro genitori. Inoltre è pure una bella storia d’amore e d’avventura, godibilissima anche solo sul piano narrativo.

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Avrei preferito non inserire questa postilla per l’angolo del pignolo perché mi spiace sollevare critiche a un libro che per mille motivi non se le meriterebbe. Poi è anche vero che per noi poveri terricoli destreggiarsi nell’esoterico vocabolario di termini marinareschi è un’impresa difficilmente esente da errore. Ma il lettore attento, da un libro di questo genere, si aspetterebbe se non la perfezione, almeno di non imbattersi in errori banali e nel rispetto di un certo rigore storico. Purtroppo, però, il caher de doleance è ricco di rilievi. Mi limiterò a indicare solo qualcuno dei più evidenti errori, forse anche da addebitare solo al traduttore italiano, a cui Perez-Reverte si dice grato per l’aiuto offerto nelle ricerche, ma che, evidentemente, è incorso in più di uno scivolone linguistico.
Innanzi tutto, mai un marinaio italiano userebbe i francesismi “babordo” e “tribordo” al posto di sinistra e dritta: li percepirebbe fastidiosi come uno schiaffo in pieno volto dato a mano aperta. Purtroppo è un vizio che non si riesce a sradicare da tutti coloro che credono di parlare “marinaresco” senza averne le conoscenze. Ma il libro è farcito di quei termini fasulli.
Nel testo, poi, si fa, più volte, riferimento a misteriosi “incrociatori da combattimento”, tipologia di navi mai esistita. Probabilmente nel testo originale si parlava di “crucero de combate” espressione che potrebbe essere resa solo con l’italiano “incrociatore da battaglia”; peccato che nel 1942 nessuna delle marine combattenti avesse più in linea un “battlecruise”.
Poi, visto che i gradi degli italiani sono stati scritti, nel testo spagnolo, con la loro denominazione italiana, perché tradurli per il personale britannico? Ad esempio, nella Royal Navy non ci sono sottotenenti di vascello, ma unicamente sub-lieutenant.
Infine, ma qui sono meno certo del rilievo, viene usata con una certa frequenza l’unità di misura “gomena”. Nella marineria britannica esiste il “cable length” pari a un decimo di miglio marino e la traduzione “gomena” sarebbe pure corretta, ma non mi risulta che sia in uso presso la nostra Marina da molto, molto tempo.
Si potrà obiettare che queste siano solo minuzie di importanza nulla nel contesto narrativo, e posso concordare su ciò. Tuttavia, il valore di un’opera di questo genere si apprezza anche dalla precisione nei dettagli e spiace incappare i questi svarioni.

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Romanzi storici
 
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silvia71 Opinione inserita da silvia71    08 Agosto, 2022
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Amori politica e guerra

Dopo “Il mercante di Venezia” edito nel 2008, Riccardo Calimani torna a ambientare un romanzo storico nella città lagunare, percorrendo un arco temporale che va dal 1570 ca al 1606.

Il costrutto narrativo ruota attorno all'excursus vitae di un giovane Marco Barbarigo, giovane rampollo appartenente ad una famiglia aristocratica veneziana, seduttore nella vita privata e aspirante politico e comandante militare nella vita pubblica.
Seguendo le vicissitudini del baldo giovane prima e dell'uomo attempato poi, l'autore ripercorre tanta parte degli eventi storici del periodo come la battaglia di Lepanto, la lega santa, l'avvicendamento di svariati pontefici e dogi, il tema dell'espulsione del popolo di fede ebraica, la peste, le evoluzioni politiche tra Papato e Serenissima.

Davvero tanta la carne al fuoco da trattare in sole quattrocento pagine; il risultato che ne deriva è quello di un lavoro che si prefigge di donare al lettore una visione d'insieme ma ciò avviene a discapito dell'approfondimento.
Un incipit narrativo lento che si sofferma troppo a lungo su particolari di scarso interesse, ruba la scena a quello che poteva essere il cuore palpitante ossia la battaglia di Lepanto, trattata con poche pagine rispetto alla sua centralità.
Qualche pagina di troppo dedicata alle scorribande amorose del veneziano Barbarigo, con dettagli che mal si prestano ad essere presenti all'interno di un romanzo di stampo storico.
Quasi sull'epilogo, la narrazione riprende vigore portando in tavola temi di filosofia politica piuttosto profondi e ben congegnati nell'esposizione.

Insomma, non è operazione semplice quella di dare vita ad un romanzo storico, in primis saper dosare con equilibrio eventi reali e eventi verosimili, poi garantire spessore documentale al narrato.
Una mancanza che si avverte qua come nel romanzo precedente, è la cura dei dettagli storici di usi e costumi che rendano vivido lo spaccato sociale per far sì che il lettore si trovi calato nel contesto e che possa camminare tra calli e campielli.

Un lavoro studiato di cui si percepisce l'intento di Calimani di tornare a parlare della sua Venezia. Nel complesso la lettura desta interesse e può rendersi adatta ad un novello lettore di romanzo storico.

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Fantascienza
 
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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    01 Agosto, 2022
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Delusione

Chi ha avuto modo di leggere alcune delle mie recensioni su opere di fantascienza sa quanto io sia amante del genere e quanto la mia lotta per valorizzarlo abbia assunto le proporzioni di una vera e propria crociata. Logico pensare che, per uno come me, leggere un romanzo di fantascienza contemporanea pubblicato da un grande editore italiano quale è Einaudi, che pubblica pochissimi romanzi di questo genere, sia per me un obbligo e sia fonte di un’enorme curiosità. Jeff Vandermeer è uno dei pochi autori di fantascienza ad avere questo privilegio ma, a mio parere, non credo lo meriti appieno. Di suo ho letto un altro romanzo sempre edito Einaudi, “Borne”, e di quel poco che ricordo riguardo a quella lettura posso dire che quantomeno aveva garantito una certa piacevolezza; mi duole ammettere che “Colibrì Salamandra” è una delusione da diversi punti di vista, compreso quest’ultimo.
Partiamo, come sono solito fare, dallo stile: lento, macchinoso, a lunghi tratti incomprensibile. Degli ambienti sono riuscito a figurarmi poco e niente, degli eventi ancor meno. Di quel poco che si comprende non si ha idea di come ci si sia arrivati perché Vandermeer, forse nel tentativo di caratterizzare la sua protagonista col racconto in prima persona, adotta un timbro particolare che tuttavia non riesce nell’intento e rende la lettura a tratti anche irritante. Tutto questo si intreccia al contenuto: per una storia che vuole evidentemente tingersi di “thriller” e puntare sul mistero, sull’indagine e sui plot twist, è davvero tutto troppo complicato. Non riusciamo a capire chi siano i personaggi che si oppongono alla protagonista, non sappiamo quali siano i loro obiettivi (in fondo, credo non si capisca nemmeno quale sia l’obiettivo della protagonista, anzi penso proprio che non lo sappia nemmeno lei fino alla fine), non sappiamo cosa ha voluto trasmetterci l’autore se non un generico ammonimento su quanto stiamo rovinando il mondo. Non sindacherò sulla poca originalità di una tematica giustamente molto in voga ai giorni nostri, perché la vera bravura dell’autore sta nello sviscerarla in maniera efficace. A parte qualche riflessione (spesso incomprensibile) c’è poco altro a riguardo, in questo romanzo: mi sembra tutto un po’ buttato lì, in una trama complicatissima che nulla ha della complessità di un prodotto science-fiction a stampo “westworldiano”, ma punta sul filone politico-economico-criminale e ne tira fuori la parte più noiosa.
Vorrei concludere con una riflessione. Non mi aspetto che Vandermeer o chi per lui raggiunga le vette di un Bradbury o di un Philip K. Dick: basterebbe solo pensare che quest’ultimo, per esempio, aveva previsto i problemi descritti in questo romanzo decenni e decenni fa, ed era talmente avanti che l’idea di un’estinzione massiva di animali che è il fulcro di quest’opera non era che il contorno, un dettaglio d’un mondo e d’una riflessione più ampia e globale. Però mi aspetto che i grandissimi strumenti forniti da un genere quale è la fantascienza siano usati a dovere, se non per sviscerare in maniera interessante una tematica, quantomeno per creare una storia che coinvolga. Seppur poco propensi all’impegno per combatterli, a capire quali sono i nostri problemi ci riusciamo tutti: il dovere dell’autore non è fornire una soluzione, ma scavare nelle loro profondità, individuarne le cause, innescare riflessioni che possano generare consapevolezza. Magari, la soluzione potrà nascere proprio da queste riflessioni, ma mi dispiace dire che “Colibrì Salamandra” non riesce nell’intento, e si configura anche come una lettura parecchio noiosa.
A malincuore, bocciato.

“«La Democrazia non basta perché non è mai davvero Democrazia. L'-ismo che risolverà tutto questo non è ancora stato scritto, perché esiste in ciò che resterà del mondo dopo di noi, ed è un linguaggio che non sappiamo interpretare. E cosí ci teniamo i nostri ragionamenti fallati, meccanici, che operano in antitesi alla natura biologica dei nostri cervelli. Abbiamo eretto tanti costrutti tossici da non riuscire piú a scorgere il reticolo. Abbiamo tirato su tanti specchi che non ci restano piú finestre da spaccare. Ma dobbiamo provarci lo stesso».”

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Romanzi
 
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68 Opinione inserita da 68    31 Luglio, 2022
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Frammenti di solitudini….

La famiglia, da sempre oggetto di dibattiti e dissertazioni, indagini psicologiche e sociologiche su base storica, creazioni letterarie, culla di misteri irrisolti e distanze incolmabili, per qualcuno semplice convenzione sociale, per altri origine di ogni male, epicentro di amore, comunanza e condivisione ma anche di odio, ingiustizie, segreti, ricatti affettivi.
Quale valore oggi, di certo questo romanzo di Claudio Coletta, che si avvale di una scrittura asciutta, diretta, lineare, si addentra in un tema difficile e controverso, per non dire insondabile, la ricerca di un senso all’ interno di una disgregazione famigliare accettata ma non condivisa, scoperchiata da un lutto improvviso che riporta a misteri e ricordi di un’ infanzia monca e tortuosa.
La fine di una vita, tre fratelli doverosamente riuniti di fronte alla salma paterna, nessun preavviso, emozione, il fatto compiuto, il presente ricoperto di silenzio, attesa, indifferenza, vite naufragate, il desiderio e la necessità di essere altrove.
Alessandro, il primogenito, non si è mai sentito amato, un ingegnere trapiantato al nord che in una sola giornata ha perso la moglie Carla, il lavoro, il proprio padre, un matrimonio frantumato da assenze e tradimenti, desideri infranti in un senso di grandezza dissolto.
Silvia, la figlia di mezzo, è sola e innamorata del proprio lavoro, il mistero di un antico affresco da lei attribuito a un grande maestro le rievoca l’ assenza dell’ amore materno, una vita frammentata e controversa con una figlia da non lasciare sola, il senso di colpa per non avere assistito alla morte del padre, perché ….” una figlia deve esserci, fino alla fine “….
Gabriele, il più piccolo, fragile e sbagliato, un cocainomane naufragato nella propria dipendenza e nel disastro economico conseguente, che sa di avere sempre deluso il padre, anche oggi, abbandonandolo di fronte alla morte, ma anche l’ unico ad averlo sopportato, a non essere partito, ad essergli stato vicino fino alla fine. Avrebbe tante domande da porgli, consapevole di avere desiderato che smettesse di soffocargli la vita con la sua presenza, che arrivasse questo momento, e allora come giustificare il senso di vuoto che vive dentro?
Vite soffocate da obblighi, rimpianti, ansia, dolore, indifferenza, risposte negate, un peso dentro e un tarlo, quella figura materna prematuramente scomparsa e che improvvisamente ritorna, come un quadro eroso dal tempo da riportare allo splendore primario, una giovane donna prematuramente sottratta alla quiete domestica, partita per non fare ritorno, dissolta nella nebbia di una presunta malattia tra lettere della memoria, una melodia dolce e malinconica, fotografie che testimonino altro,
Inizia un percorso della memoria, come sono potuti naufragare i legami fraterni, semplici circostanze, incomprensioni, differenze incolmabili, vite altrove.
La seconda parte del romanzo vive la necessità del presente nella scia del tempo perduto, declinando l’ introspezione e l’indagine psicologica a favore della trama, una suspance che esige una soluzione e un senso, l’ idea di un amore negato, di una sofferenza protratta, l’ impossibilità di una vita in un ambito famigliare siffatto, quello che pare non è come sembra.
E allora si svela una verità acclarata, una soluzione necessaria che rigetta la complessità del tema iniziale, privando il romanzo delle premesse e delle profondità auspicate. I personaggi navigano in un limbo di solitudine, le loro vite paiono disperse, sole, abbandonate, scollate, porzioni di sofferenza individuale.
Un’ assoluzione a metà, altro dolore, l’ impossibilità di risposte tardive, una rapporto ritrovato, uno possibile negato per sempre, la conferma di un amore, un segreto necessario e solo in parte condiviso, il mistero dell’ esistere, inafferrabile e imprevedibile…

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Romanzi
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    29 Luglio, 2022
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Ostafrika

Dopo “Sulla riva del mare” e “Paradiso”, prosegue la ripubblicazione dei romanzi di Abdulrazak Gurnah da parte della casa editrice La nave di Teseo. Ora è la volta di “Voci in fuga”, con cui ritorna in libreria nel nostro Paese il sorprendente Premio Nobel della Letteratura 2021, di nuovo tradotto da Alberto Cristofori.
Al pari dei precedenti due titoli dei mesi passati, anche quello uscito lo scorso giugno propone un’ambientazione swahili, sullo sfondo di quell’Africa orientale tanto cara all’autore non a caso originario di Zanzibar. La narrazione prende avvio intorno all’inizio del Novecento, quando l’area era in mano alla Germania imperiale che manteneva il proprio ferreo controllo sulla sua Ostafrika attraverso la spietata violenza della Schutztruppe, un vero e proprio esercito coloniale costituito da mercenari indigeni denominati askari e posto sotto il comando diretto di ufficiali tedeschi.

“[…] da quando hanno occupato questo territorio, i tedeschi hanno ucciso tanta di quella gente che il paese è costellato di teschi e di ossa e la terra è inzuppata di sangue.”

Tra i protagonisti del romanzo, Ilyas e Hamza si arruolarono volontari proprio nella Schutztruppe allorché pure nel continente nero la prima guerra mondiale reclamò i suoi assurdi teatri di morte. Dei due giovani uomini (che non si conosceranno mai in maniera diretta, ma avranno un punto di contatto in Afiya, sorella di uno e infine moglie dell’altro) soltanto Hamza tornerà per così dire a casa riemergendo dalle devastazioni della vita militare, mentre di Ilyas si perderanno del tutto le tracce e la sua scomparsa rappresenterà un mistero che aleggerà pesante sino alle pagine conclusive del libro, dove si potrà conoscere la sorte dell’askaro dopo la fine del conflitto e l’uscita di scena dei tedeschi con pronta sostituzione, in quegli stessi luoghi, da parte dei britannici. La trama abbraccia a poco a poco diversi personaggi, tra principali e secondari, le cui vicende finiscono per intersecarsi e restare indissolubilmente legate le une alle altre.
Pubblicato per la prima volta nel 2020 in lingua originale con un titolo, “Afterlives”, ben più evocativo rispetto a quello scelto in sede di traduzione italiana, “Voci in fuga” non è, a mio parere, tra i migliori scritti di Gurnah. Al lettore attento che abbia già avuto modo di appassionarsi alle storie narrate nelle due sopraccitate pubblicazioni non passerà inosservata, nell’incipit in senso lato, qualche nota stonata che rende la prosa a tratti un poco confusa, lontana dal fascino di quella a cui lo scrittore tanzaniano ci aveva abituati; inoltre, si registra l’assenza di un glossario che avrebbe potuto essere, come in “Paradiso”, un valido aiuto per comprendere con esattezza numerose parole ed espressioni in swahili disseminate qua e là nel testo. La narrazione, procedendo, si riprende a poco a poco e finalmente, dopo qualche decina di pagine, inizia a diventare più coinvolgente a partire dal racconto di Afiya bambina, finché non cattura del tutto man mano che si seguono dentro e fuori la Schutztruppe le vicissitudini di Hamza (nelle quali si ritroverà, non senza sorpresa, quelle dell'indimenticabile Yusuf protagonista di “Paradiso, sin dove lo avevamo lasciato). Allora si riconosce il vecchio stile di Gurnah, il suo modo di narrare ordinato e suggestivo, degno di antichi cantastorie, che d’improvviso ci trasporta in un mondo ricco di echi culturali davvero interessanti. Intanto, la storia prosegue, accompagnata dalla grande Storia che scivola in modo sempre più inesorabile verso nuove invasioni e nuovi conflitti; sarà a questo punto, a solo una cinquantina di pagine dalla conclusione, che si comprenderà il significato profondo del titolo originale inglese, quando inizieranno i “sussurri” del piccolo Ilyas, il figlio di Hamza e Afiya chiamato con lo stesso nome dello zio scomparso anni prima della sua nascita.
Purtroppo, l’ultimissima parte, quella che – come preannunciato – conduce infine a svelare quanto accaduto all’Ilyas askaro, cade in una sorta di esposizione fredda e frettolosa che stride decisamente con tutto quel lungo, precedente intermezzo molto ben riuscito dallo stile inconfondibile dell’autore. Nel complesso, un libro che merita comunque di essere letto, seppur non la miglior prova di Abdulrazak Gurnah. Un romanzo, “Voci in fuga”, che a sua volta non manca di puntare il dito contro la brutalità del colonialismo e della guerra in generale, arricchendo senza dubbio le conoscenze dei lettori occidentali su quell’affascinante zona dell’Africa orientale e la sua variegata storia.

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Romanzi storici
 
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silvia71 Opinione inserita da silvia71    28 Luglio, 2022
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Frammenti di poesia

Ben sette secoli prima di Cristo visse la poetessa Saffo, nativa dell'isola di Lesbo, ultimo avamposto greco, ad un passo dalle coste dell'Asia Minore su cui sorgeva Ilio.
Insegnante per le giovanissime donne della sua terra di canti, danze e in generale di tutto quanto fosse volto al culto della bellezza, della grazia, contemplando anche le basi di quella che poteva definirsi educazione al piacere, non discostandosi dai principi della cultura ellenica del tempo.

I frammenti dei versi a lei attribuiti, hanno attraversato i secoli tramandati dai ricordi e dagli scritti di altri autori posteri. Da qui la nascita di mito e leggenda attorno alla figura di una delle donne più note del mondo antico, per colmare quei vuoti di conoscenza oggettiva che si sono creati nei secoli.
Una stura di ricostruzioni e interpretazioni, hanno dato forma ad una miscellanea di stratificazioni errate e corrette in merito al vissuto di Saffo, alla sua poetica, ai temi cari, alle finalità dei suoi versi e agli eventuali collegamenti con usi e costumi da lei adottati in prima persona.

Insomma dietro ad uno dei nomi più conosciuti e più citati, in realtà vi è tanta nebbia, tante informazioni prive di riscontro e fondamento.

L'approccio dell'autrice, docente universitaria, è quello di proporre una vera e propria esegesi delle fonti, passando in rassegna le stessi dalle più antiche alle più moderne per fare in modo che passo dopo passo si possa delineare da sé il volto e l'opera artistica della ragazza di Lesbo.

Il saggio non appoggia teorie di alcun tipo, è scevro da opinioni da parte di colei che scrive, si rende veicolo di raccolta di tutti i frammenti storici pervenuti dal mondo letterario e artistico, seppur analizzati e approfonditi da una penna addetta ai lavori, competente a tutto tondo, capace di camminare sul filo sottile che divide il mito e la storia.

Uno scritto di notevole interesse storico e documentale, più facilmente fruibile da chi possiede un pregresso bagaglio classico- umanistico.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    23 Luglio, 2022
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Pastorale portoghese

Quella di Fatima, in Portogallo, è tra le più note apparizioni mariane nel mondo, seconda solo alla celeberrima Lourdes in Francia.
Con alcune, eloquenti, differenze.
Lourdes vede un’unica protagonista assoluta, la santa Bernadette Soubirois, a cui sola apparve la Madonna, e alla quale non furono affidati particolari messaggi da secretare perché di peculiare gravità e delicatezza.
Inoltre, la giovane ebbe vita breve, anche perché dotata di una precaria costituzione fisica, da cui era affetta ben prima degli eventi di cui fu testimone.
A Fatima la Madonna appare, assai più tardi, ed in epoca relativamente recente, il 13 maggio 1917, non ad una sola giovinetta ma a ben tre bambini, tre pastorelli.
Quasi a significare un triplicarsi di testimoni oculari del mistero mariano, un moltiplicarsi dei diretti referenti ed un intrinseco diffondere l’evento a più voci.
La più grande di loro, pur avendo solo dieci anni, e del tutto analfabeta, divenne una delle più serie, ascoltate e studiate protagoniste di tali manifestazioni divine, probabilmente la testimone più attendibile disponibile nella storia di simili eventi soprannaturali.
Si chiamava Lucia dos Santos, e le apparizioni si sarebbero ripetute altre cinque volte, fino al 13 ottobre. Fatto ancora più singolare però, è che nell'incontro del 13 luglio la Madonna avrebbe rivelato un segreto (diviso in tre parti) che avrebbe dovuto essere rivelato solo al tempo stabilito, ad intervalli di tempo, costituenti appunto le tre profezie accertate. Cosa che in effetti avvenne; d’altra parte, come è umanamente risaputo, tener celato un segreto quando la sua stessa esistenza è nota da subito a più di una persona, è spesso difficilissimo, soprattutto data l’importanza e la portata del fenomeno.
Figuriamoci per due, per tre poi non si pone proprio il problema, è impossibile, come è noto i tre messaggi sono stati poi effettivamente rivelati, e resi pubblici a chiunque, suscitando discussioni di vario genere. Concernono fatti storici conclamati, l’ultimo fa espresso riferimento all’attentato in San Pietro a danno di Giovanni Paolo II, che scampato letteralmente per miracolo alla morte, volle incontrare suor Lucia e fece del proiettile che lo aveva risparmiato un ex voto di ideale importanza.
Per quanto detto, si comprende allora che Suor Lucia, riveste un interesse notevole per credenti o meno, a differenza di Bernadette, non è infatti una figura lontanissima nel passato, avvolta in una nebulosa che ricostruisce la sua storia tra incartamenti e documenti datati, moltissimi tra storici, fedeli, ecclesiastici, studiosi laici hanno della pastorella portoghese divenuta suora memoria diretta e recente; la religiosa morì infatti nel 2005, a quasi 98 anni, e pur essendo suora di clausura ebbe continui incontri e colloqui privati con alcuni vescovi e papi.
Questa la Storia, reale, per quanto la conosciamo: ed è un antefatto troppo gustoso su cui uno scrittore di particolare talento, da poco rivelatosi come tale pur provenendo da ben altro e brillante vissuto esistenziale, non può esimersi di romanzare a suo modo. Questa Storia con la maiuscola è per Glenn Cooper, che nei suoi romanzi di esordio si è consolidato come uno scrittore esperto di tematiche religiose, una sfida, un banco di prova, un invito particolare a scrivere di fatti storici reali e poco distanti nel tempo intercalando ai fatti la sua speciale inventiva.
Perciò lo scrittore americano ipotizza l’esistenza di un più che plausibile quarto segreto, o almeno una parte del terzo non ancora svelato, che in qualche modo la religiosa Suor Lucia è riuscita a celare a chiunque, perché la semplice ed umile religiosa, non priva però di acuta e sottile intelligenza di pastorella si, ma scaltra e resa saggia dal tempo e dalle esperienze ultraterrene, reputa senza dubbio troppo particolare, assai pericoloso, foriero di pericoli per l’esistenza della stessa Madre Chiesa intesa come entità, fede, dogma e istituzione…un quarto segreto sconosciuto a tutti, almeno finora.
“La quarta Profezia”, l’ultimo romanzo di Glenn Cooper, è tutto qui: in maniera bisogna ammetterlo magistrale, stuzzica la curiosità del lettore, lo avvince, lo convince, e lo induce a seguirlo senza esitazione in una storia di molte pagine, con mille intrecci e continue sorprese, colpi di scena, avventure e misteri che non annoiano, neanche per un attimo invitano ad interrompere la lettura perché inverosimile o noiosa, tutt’altro. Chi legge prosegue non diremmo con il fiato sospeso, perché rischierebbe di finire in apnea, ma certamente osserva da posizione privilegiata, con partecipazione, le traversie del protagonista principale Cal Donovan, parteggia apertamente per lui ed i suoi sodali, tutto il romanzo è l’eterna lotta del Bene contro il Male in cui il lettore sa subito per chi deve chiaramente schierarsi.
Se è vero come si dice che ogni scrittore riversa parte se non tutto di sé in quanto scrive, allora questo assioma è quanto mai vero per Glenn Cooper, tutti i suoi libri rispecchiano la versatilità, la varietà culturale e l’ingegno poliedrico dello scrittore americano
Nativo della Grande Mela, Cooper ha studiato dapprima con successo Archeologia, successivamente ancora più brillantemente Medicina. Si è affermato con inventiva nell’industria farmaceutica, e successivamente cimentandosi con successo e idee innovative ed all’avanguardia nel ramo delle biotecnologie.
Cooper è l’emblema dell’uomo del futuro, è uomo colto, profondo, preparato ed elegante, versatile nei suoi interessi storici e scientifici, è un geniaccio, un Elon Musk o un Steve Jobs prestato alla letteratura di evasione.
Cimentandosi con crescente successo nella narrativa, ha esordito dapprima nella sceneggiatura e poi nel romanzo storico seriale con un ciclo di volumi che vedono protagonista un professore di teologia di Harvard, Cal Donovan.
Cal Donovan non è Indiana Jones, nemmeno il Robert Langdon dei romanzi di Dan Brown, è assai di più, è un uomo del suo tempo, immagine speculare del suo creatore: colto, preparato, un uomo d’intelletto e però sportivo, aitante, pronto all’azione, mai banale o didascalico, di livello e di carisma tale da essere contattato direttamente dal Papa per i suoi servizi.
Il Papa della nostra storia è Celestino VI, una evoluzione futura dell’attuale Papa Francesco, e questo dà idea della abilità di Cooper di proporci storie del tutto plausibili e verosimili. Celestino VI è a suo modo un rivoluzionario, desidera una Chiesa costruttiva e concreta, fattiva di bene pratico per l’umanità, desidera mettere all’asta i capolavori unici che costituiscono il tesoro della Chiesa, come per esempio la pietà di Michelangelo, per creare un fondo da destinare ai poveri del mondo, come da missione del Cristo. Per farlo, serve sfidare le tradizioni e le frange più conservatrici della curia, e…arrivare per primi alla quarta profezia.
Glenn Cooper ci riesce e con lui il suo lettore, perché l’autore prende il lettore per mano, inizia a rilento per poi lanciarlo allegramente su e giù su un saliscendi di continue sorprese e rivelazioni, e si badi, quasi tutti i fatti narrati sono verità storiche documentate che in un certo senso arricchiscono chi legge, oltre che a dare verosimiglianza a tutta la storia.
Certo, è una buona lettura, e nulla più, un ottimo prodotto all’avanguardia come può esserlo una Tecla o un computer Apple, certamente non un capolavoro come la Pietà di Michelangelo. Potremmo dire a volergli cercare una pecca che forse è un po’ troppo una americanata, ma in senso buono, vale a dire che pur essendo un testo ben scritto e costruito, qua e là traspaiano luoghi comuni e stereotipi assai banali, che da un Glenn Cooper o dal suo alter ego Cal Donovan non ci aspetteremmo, ma capiamo che sono assai duri a sparire: inficia infatti talora in modo dozzinale e semplicistico il dire comune, ad esempio, che tutti a Roma vanno pazzi solo per l’amatriciana o la cacio e pepe, o che Scampia in provincia di Napoli è luogo natale di soli delinquenti.
Sono errori veniali, in verità, ma confidiamo che Glenn Cooper provvederà in futuro a fare ammenda, da esperto teologo Cal Donovan sa che la Chiesa contempla confessione, pentimento e perdono, e questo non è un segreto.

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68 Opinione inserita da 68    21 Luglio, 2022
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Identità violata e vite in bilico

Identità, migrazione, accoglienza, esclusione, diversità, un romanzo che possiede la saggezza e il respiro mediorientale nel cuore pulsante dell’ isola di Lesbo, incastro di storia e di mitologia, oggi teatro degli sbarchi di un’ umanità disperata in fuga da guerre, lotte intestine, persecuzioni, morte.
Tanta gente, famiglie, uomini soli, donne, bambini, siriani, iracheni, afgani, iraniani, africani, tutti stanno scappando, dal regime siriano, dal Dahesc, da gruppi terroristici talebani.
Voci difformi, a partire da quella della protagonista, Mina Simpson, un medico impegnato a scrivere la propria storia e quella di altri, una libanese con una mamma siriana che ha preso la cittadinanza americana, emigrata quarant’anni prima rigettata dal disprezzo famigliare alla ricerca di un’ identità, di genere, di vita, lavorativa.
Un’ adolescenza trascorsa nell’ insicurezza, un ragazzino confuso,…” pieno di finta spavalderia e poca speranza “… anni trascorsi nella finzione …” perfezionando la mia confusione “…
Si può essere stranieri in patria, cittadini altrove, apolidi, storie di rifiuto e di abbandono, di sofferenza e di lacerazioni, ma anche di condivisione e di fratellanza.
Quanto è difficile riconoscersi quando si è nati nel corpo sbagliato, quale identità, idea di se’, inclinazione sessuale, l’ impossibilità di essere amati da chi continua a considerarci un peccato originale.
Mina è partita per dimenticare, inseguendo un futuro in un presente che non c’ era, tralasciando l’ inevitabile, anche se certe ferite rimangono e il passato riemerge.
Oggi si trova sull’ isola di Lesbo a prestare soccorso umanitario in una terra che è stata il cuore della sua infanzia, chiamata da un’ amica che lavora per una ONG, Emma, trascinata dalla voglia di partire, lo sguardo rivolto a un’ umanità disperata, all’ inenarrabile, intere famiglie lacerate e distrutte.
C’è una donna, Sumaiya, gravemente ammalata, con la quale stringere un’ amicizia che contiene una vita intera, un fratello, Mazen, lontano ma mai dimenticato, con il quale si era stretto un patto di sangue mentre continua a desiderare la vicinanza della propria compagna, Francine, tutto ciò che ha sempre desiderato essere.
Mina percepisce l’ eco di una vita irrisolta, uno scrittore omosessuale in crisi d’ identità, a sua volta sbarcato sull’ isola alla ricerca di spezzoni di storie da raccontare, che non percepisce la sofferenza altrui ma scoperchia la propria.
Un coro difforme, una condivisione che restituisce le medesime sensazioni, tanti anni trascorsi e una vita cambiata, ma una parte di se’, esposta ai sentimenti, è rimasta in quel tempo.
Non sempre fuggire significa dimenticare, la memoria di giorni perduti e le immagini di luoghi famigliari possono scatenare una tempesta di fragilità.
Ciascuno a suo modo è in fuga da qualcosa e da qualcuno anche se, obiettivamente, qui e ora, c’è un’ umanità disadorna, sfruttata e dimenticata, aggrappata a un soffio vitale, altrimenti condannata per sempre.
E allora quale relazione tra l’ opulento mondo occidentale e la disperazione dei profughi, corpi spogliati di tutto, riversi sulle spiagge, volti provenienti da ogni dove e che ci appartengono.
Oltre un’ accoglienza dovuta, affidata alla buona volontà di associazioni umanitarie e ai singoli impegnati a soccorrere i profughi appena sbarcati, sovente prevarranno indifferenza, sospetto, odio, paura, noncuranza, dando voce a invenzioni che pacifichino la propria coscienza, mentre immagini di sciagure annunciate scorrono nel viale della dimenticanza e la propria indulgenza svanisce nel soffio di una commiserazione a tempo determinato.
Un romanzo stratificato, intenso e delicato, a tratti aspro ma vero, con tratti di poesia e satira velata, che abbraccia un’ umanità eterogenea in una vita che possa continuare e acquisire un senso.
Una coralità di voci e di testimonianze che riflettono storia, poesia, mitologia, sogni, luoghi della memoria e del’ animo, amori, ma anche dolore, sofferenza, rifiuto, abbandono, incubi, morte.
Un respiro che origina dal dolore di chi ha conosciuto la rabbia, la timidezza e la confusione di un’ infanzia rubata, nascosta nella dissimulazione, una donna nel corpo di un uomo, che un giorno è riuscita a ricostruirsi dentro e che nel presente si è sentita inadatta non solo come dottore ma anche come essere umano.

…” è stato difficile. ma oggi è un nuovo giorno, devo dimenticarmi da dove sono venuta “….

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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    18 Luglio, 2022
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Anna e il geco mitomane

Ines, una donna di sessantasei anni con molti problemi di salute, è stata trovata morta a casa sua. Tutto fa pensare che sia stata vittima di una rapina finita male: da tempo un gruppo di malviventi penetra nelle case degli anziani, li spaventa con minacce, li imbavaglia e li immobilizza alle sedie per depredarli. Però Ines aveva problemi respiratori, così gli stretti legacci e il bavaglio l’hanno soffocata.
Lucia Calici, nipote di Ines, però non è convinta: a suo dire ci sarebbero troppe incongruenze che differenziano l’aggressione a sua zia rispetto dalle altre. Così, mesi dopo il fattaccio, interpella Anna Melissari perché indaghi sul caso assieme al suo capo, l’investigatore privato Giovanni Cantoni.
Ma non è un buon momento per Anna: Alessandro, il marito, è lontano per lavoro e lei è totalmente impreparata a gestire la casa da sola; il padre è consumato dalle terapie antitumorali; Lavinia, la sorella avvocato, la subissa di continue richieste pretestuose; pure il figlioletto Luca è più bizzoso del solito e sembra avere problemi all’asilo. Come portare avanti le indagini se ogni momento utile sembra già essere prenotato da altri impegni?
A complicare le cose l’unico possibile “testimone oculare”, il geco Giasoneh (la “acca” finale è per i fan!), che vive nella casa di Ines, è un esaltato mitomane che si accusa del delitto e lo descrive come una truculenta mattanza da lui compiuta in un raptus omicida.

Terzo, atteso episodio delle esilaranti avventure di Anna, la strana signora che, per colpa di una misteriosa “macchiolina” rilevata in una TAC, ha la fortuna (o la sventura?) di poter dialogare con piante e animali. Nel suo stile consueto, un po’affannato e un po’ schizoide, Anna torna a farci partecipi della sua vita di casalinga che lavora e che è subissata da impegni, goffaggini, sensi di colpa, presunte inadeguatezze, paranoie continue.
Il romanzo, complessivamente, risulta gradevole, a tratti addirittura irresistibilmente comico, e lo stile, vivace e brioso (talvolta scanzonato), aiuta a leggerlo con facilità. La storia poliziesca, in sé non particolarmente involuta, è credibile e, anzi, tristemente plausibile e attira la nostra attenzione sui complicati, conflittuali rapporti tra le persone che spesso si avvitano in una inarrestabile spirale di odi e ritorsioni meschine, talvolta cagionati da innocenti, ma inopportuni gesti d’affetto e protezione.
L’idea di base su cui si basa la serie, poi, si conferma geniale: far parlare gli animali – i quali possono sbatterci in faccia la realtà delle nostre azioni a volte innegabilmente assurde – aiuta a effettuare un esame di coscienza collettivo senza pudori o eufemismi. I dialoghi tra umani (ma soprattutto quelli “bestiali”) sono frizzanti e spassosi, ma pure profondi e meditati con considerazioni che a volte sono come vere mazzate ai nostri scudi auto-assolutori.
Tutto bene, quindi? Sì e no. Ora che siamo giunti al terzo romanzo ci si aspetterebbe forse qualcosina in più; una evoluzione nella narrazione e nei personaggi. Invece sembra che l’A., per venire incontro alle aspettative dei lettori che hanno favorevolmente accolto i precedenti volumi, tenda a strafare (solo) nelle situazioni più comiche. Molte situazioni paiono esasperate alla mera ricerca della battuta burlesca (a volte quasi clownesca). Anna s’è trasformata in una casalinga sull’orlo di una crisi di nervi (anzi di più d’una). Ma la sua assoluta goffaggine e le sue paranoie e preoccupazioni, dopo un po’, invece di intenerire, irritano per la loro eccessività. Il rapporto donna-animali, che nelle precedenti storie aveva quasi il sentore di una divertente e imprevedibile condanna, ora ha raggiunto punte surreali di un’Alice nel Paese delle meraviglie che dialoga con conigli bianchi (nella specie un esemplare con le orecchie cadenti di nome Tucidide), gatti vegani, gang di gazze e ratti di fogna in guerra tra loro, rane toro psicanaliste e erbacce filosofe, senza che l’assurdità della situazione sia più sottolineata.
Non si può negare che alcune situazioni siano davvero comiche, come i battibecchi “coniugali” di una coppia di Agapornis (i pappagallini “inseparabili”) che invece di amarsi teneramente si detestano come una coppia in attesa di divorzio; o le acide frecciate lanciate da Tarta e Rughina; le pulsioni “adolescenziali” del ficus casalingo o, infine, gli scambi di battute, stile agenti del Secret Service ma "sciroccati", dei dobermann di uno dei protagonisti. Alla lunga, però, tutto sembra un po’ forzato, la facezia solo fine a sé stessa non soddisfa sempre; molti topos e tormentoni comici sono sfruttati eccessivamente.
In conclusione il romanzo è una lettura fresca e divertente, ma si sente la necessità di un cambio di marcia per dare un senso alla prosecuzione di questa serie di storie, sicuramente innovative e spiritose, che fa piacere leggere, ma che non possono reiterarsi ancora molto utilizzando il medesimo meccanismo che, alla lunga, rischia di logorarsi.

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...i precedenti volume con protagonista Anna Melissari.
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ALI77 Opinione inserita da ALI77    13 Luglio, 2022
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IL SESTO CASO DI VANINA

La storia è ambientata in Sicilia tra Catania e Palermo e la mattina del sei di febbraio la festa di Sant'Agata è ormai terminata ma una notizia sta per sconvolgere tutti, viene ritrovato il cadavere di un uomo, nel Municipio, in una delle Carrozze del Senato.
A fare questa terribile scoperta sono due ragazze francesi: Estelle e Nina in Sicilia con il programma Erasmus, erano curiose di vedere cosa ci fosse all'interno della ricca e antica berlina e dopo aver scavalcato il cordone hanno trovato la vittima sgozzata in una pozza di sangue.
Viene chiamata, per indagare sull'accaduto, il vicequestore Giovanna Guarrasi, detta Vanina, il personaggio che dà il nome alla serie.
Questo evento drammatico scuote tutta la comunità catanese, il cadavere appartiene a Vasco Nocera, classe 1946 e fervente devoto; spetta a Vanina il compito di scoprire cosa è successo all'uomo, la donna dovrà scavare a fondo nella vita della vittima, nelle relazioni famigliari e di amicizia.
Mi fermo qui con il caso giallo altrimenti rischio di fare degli spoiler e non ci sarebbe più la curiosità nel continuare la lettura.
Vanina è un personaggio che sembra forte e combattivo ma dentro di sé ha molte fragilità, si fa prendere dal lavoro anima e corpo e ha una personalità che mi incuriosisce. Ha molta esperienza nel suo lavoro, è corretta e cerca sempre la verità, lotta con tutta se stessa per trovarla e punire il colpevole; ma anche nel capire le ragioni che lo hanno spinto a commettere il reato.
Vaniva non è da sola, ha attorno a sé una serie di personaggi comprimari che la sostengono e danno rilievo ancora di più al suo personaggio. Ricordiamo, tra gli altri, il vero mentore della protagonista, il commissario in pensione Biagio Patanè, una vera risorsa e aiuto per Vanina.
Quello che manca secondo me è un personaggio veramente cattivo, un vero antagonista qualcuno che metta un po' di pepe nella storia.
"Quanti anni erano che aveva a che fare con cadaveri di ogni genere e provenienza? Una quindicina, all’incirca. Eppure ogni volta la reazione era la stessa. Repulsione, pena, rabbia. Un miscuglio di sensazioni che all’istante innescavano un meccanismo inarrestabile. La fretta di capire, di scoprire, di punire." (cit.)
Il caso crime è centrale nel libro però è anche quello che mi entusiasmata di meno, lineare senza grandi colpi di scena; la narrazione scorre velocemente ma il ritmo e la suspense sono quasi inesistenti e questo purtroppo è importante per me quando leggo un libro di narrativa di questo genere.
Ho apprezzato molto l'ambientazione della storia divisa tra Palermo e Catania, l'importanza delle tradizioni e delle feste popolari e mi è piaciuta anche l'idea dell'accostamento del dialetto siciliano all'italiano che secondo me ha dato maggiore credibilità e autenticità al testo. Forse alcune volte è stato enfatizzato troppo ma, per me, è stato sicuramente una scelta azzeccata.
Lo stile dell'autrice è molto semplice, traspare l'amore che ha per la sua Sicilia, per la sua terra, ma avrei preferito più mistero, più curiosità nello scoprire il colpevole; in alcuni punti la lettura è risultata un po' noiosa. Si parla moltissimo di cibo, che sbagliato non è, però quando è troppo diventa stucchevole.
E' un libro che diventerà presto una serie tv, ma purtroppo per me, questo sarà un crime che dimenticherò facilmente.
Rispetto ad altri autori italiani e contemporanei che scrivono lo stesso genere della Cassar Scalia, ho trovato che questa scrittrice fosse più debole e credo ci siano dei nomi con più talento nel giallo.
Lo consiglio a chi ama il genere crime prevedibile e leggero, io preferisco qualcosa di più cruento e in generale gli autori scandinavi, ma sono sicura che ci saranno dei lettori che lo apprezzeranno soprattutto chi non è molto avvezzo al genere.
Vanina è un personaggio costruito in maniera convincente e anche la sua squadra è un bel gruppo credibile e abbastanza verosimile, per questo avrei preferito leggere un caso giallo più solido e con un po' di suspense in più.

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ornella donna Opinione inserita da ornella donna    10 Luglio, 2022
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La vendetta della vita

Davide Longo, torna con l’ennesimo caso in cui coinvolge Bramard e Vincenzio Arcadipane, nel libro intitolato La vita paga il sabato. Un giallo che brilla per intensità ed eleganza di scrittura.
La vicenda colpisce: a Clot , piccolo paese di montagna con trentasette abitanti:
“Clot, da quella prospettiva, con la valle che si apre, la luce del mezzogiorno e le montagne verdi da sfondo, è quasi un bel vedere”,
su una radura viene trovato morto il famoso produttore cinematografico, Terenzio Fuci, e la moglie , famosa anch’essa, Vera Ladich è scomparsa nel nulla. Un caso complicato per Arcadipane che:
“Nel caso di Arcadipane un quinto in quell’albergo di Andora nel 1975, un altro quinto di vita in un appartamento della Torino bene dove fecero irruzione con la buoncostume, un quinto nei momenti passati al lavoro con Bramard, un altro su un marciapiede vicino a una donna mai vista che muore e l’ultimo se lo divide tutto il resto. “
Così che, controvoglia e meditabondo, masticando sucai a più non posso, Arcadipane non può che recarsi in quello sperduto luogo, dove pare essere la norma, l’omertà. Nessuno parla, o se lo fanno, è a spizzichi e bocconi rari. Intanto scopre che l’attrice Vera Ladich, scomparsa, si chiama, in realtà, Anna Mattalia, ed era nata proprio in quel piccolo paese. Trasferitasi a Roma per sposare il grande produttore cinematografico Terenzio, di vent’anni più vecchio di lei, non era mai più tornata in quei luoghi se si esclude l’ultimo attuale soggiorno. Inoltre si scopre che Terenzio,
“Ottantasette anni, fratello di Amilcare Fuci, uomo del Vaticano all’interno della Dc e all’interno del Vaticano, se ne sta disteso su una lettiga, con un lenzuolo che lo copre fino ai capezzoli, la folta chioma a fargli da cuscino, e un foglio A4 sul petto con scritto a penna “PRIAMO: gli dei filarono questo per i mortali infelici.”
Il caso si complica. Urge l’intervento di Corso Bramard, che però è in ospedale, reduce da gravi problemi di salute. Il suo metodo è:
“Dopo tanti anni, ancora oggetto misterioso. Corso Bramard che arrivava sulla scena del crimine e si metteva in disparte, che chiedeva, ma non troppo, che non faceva ipotesi e non pensava ad alta voce. Guardare, pensare e tenersi le carte in mano. Questo gli ha insegnato Corso”.
Riusciranno insieme a risolvere il caso?
Un giallo straordinario, un po’ prolisso, ma elegante e filosofico nella prosa. Un po’ spiritoso, anche, come quando afferma che i piemontesi, dall’autore conosciuti assai bene, non hanno il senso dell’umorismo, e che con loro un segreto resta tale per sempre. Un romanzo che rimanda all’indietro nel tempo, carico di segreti, omissioni, vendette, di moralità cristiana camuffata ed integralista. Fino al termine quando l’intreccio viene drammaticamente sciolto, al motto de:
“La vita paga il sabato, per dire che anche se tardi la vita presenta il conto.”
All’insegna elegante di due personaggi agli opposti, Corso Bramard e Vincenzo Arcadipane, si snoda, così, un romanzo che si nota per qualità e raffinatezza. Bellissimo!

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consigliato a chi ha amato i libri con Bramard protagonista che sono: Il caso Bramard, Così giocano le bestie giovani, Una rabbia semplice.
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Gialli, Thriller, Horror
 
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siti Opinione inserita da siti    10 Luglio, 2022
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Buon sangue non mente

Prosegue l’opera di riedizione da parte di Adelphi delle opere del belga, questa, edita per la prima volta nel 1938, come tutte le innumerevoli altre non sente affatto i suoi ottantaquattro anni e, trattando di un tema principe quale l’odio familiare, rimane un evergreen.

Gli ingredienti sono quelli già sperimentati da Simenon: un esiguo sistema di personaggi, spesso in accoppiamento binario, un luogo angusto, piccolo borghese, che amplifica i malumori creando implosive situazione claustrofobiche, qui la casa via via ridotta nei suoi spazi abitati, e per finire il motore dell’azione, un risentimento fine e sottile che avvelena tutto, nutrito costantemente dal più primordiale dei sentimenti, l’odio.

La lettura, veloce come sempre, risulta qui addirittura serrata, sincopata, allusiva e disseminata di indizi come un vero giallo. In realtà c’è poco da scoprire, il sospetto, altro motore dell’azione, diventa in modo speculare, il modus legendi principe e tutte le intuizioni a cui perviene il lettore sono sapientemente gestite dall’autore che pare divertirsi a lasciare il lettore con il fiato sospeso, in una trama che non accenna mai al finale e, quando vi perviene, lo fa solo per ripristinare un’ennesima situazione iniziale. L’odio non ha fine, trionfa e si rigenera, un pretesto vale l’altro.

Amaro Simenon, duro come non mai.

Mathilde e Léopoldine sono le sorelle Lacroix, l’origine del male, vivono nella stessa casa di famiglia con Emmanuel Vernes, marito di Mathilde e i loro due figli Geneviève e Jacques, ogni tanto ritorna in famiglia anche Sophie, figlia di Léopoldine e di suo marito fin dai primi tempi del matrimonio confinato in Svizzera per via della tisi. Costretta a questa convivenza una giovinetta che funge da donna di servizio.
La casa, benché ampia e spaziosa, è sempre chiusa e l’aria umida, ferma e stantia, contribuisce ad avvelenare le atmosfere che vi si respirano al suo interno. Poche le parole che vengono scambiate tra i membri della famiglia, molti gli sguardi allusivi, i silenzi, gli scricchiolii, le percezioni desunte dal lento spiare delle movenze altrui. Nessuno parla, se non per quei pochi scambi comunicativi di natura prettamente funzionale, tutti percepiscono il sentire e l’agire altrui e le relazioni paiono escludere a priori l’intruso per eccellenza, Vernes, il quale pian piano nel corso del tempo ha deciso di confinarsi nell’atelier che si è allestito all'ultimo piano. Scende solo per i pasti, momenti topici nei quali converge tutto il silenzioso e reciproco astio. I giovani in casa subiscono questa convivenza patologica e cercano, ognuno con i mezzi a loro più confacenti, di venirne fuori: Geneviève è in preda ad una sorta di delirio mistico, Jacques vorrebbe solamente fuggire via; quando si appresta a farlo, l’improvviso precipitare delle condizioni di salute della sorella, lo imprigionano definitivamente in un crescendo di malumori, silenzi, ripicche, aggravati dalla malattia di Geneviève…

Tra sospetti di avvelenamento e dialoghi monchi pian piano viene detto esplicitamente ciò che per anni è stato taciuto ma ancora una volta la verità è appannaggio di pochi e mentre gli eventi precipitano tutto, dopo la bufera, torna all’origine in un lento ripetersi del male.

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Simenon, Il gatto
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    04 Luglio, 2022
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Tra luci e ombre di Stoccolma

Autore venuto alla ribalta grazie al sequel scritto del la trilogia di “Millennium”, David Lagercrantz si stacca adesso dalla formula nota e propone ai suoi lettori una nuova saga inedita. Lagercrantz, infatti, si è rifiutato di proseguire la serie di Larsson e torna ora in libreria con un thriller che vede quali protagonista il duo composto da Hans Rekke e Micaela Vargas.
Siamo nel 2003. L’Iraq è stato da poco invaso dagli USA quando a Stoccolma viene trovato il cadavere di un arbitro di calcio di origini Afghane, un uomo picchiato a sangue sino alla morte. Il sospettato numero uno altro non è che Giuseppe Costa, padre di uno dei giocatori, uomo irascibile e dal carattere iracondo, il soggetto perfetto per commettere un omicidio, un caso aperto e chiuso in brevissimo tempo. Ma Costa non accetta questa sentenza di condanna a priori, si professa innocente, reclama la sua non colpevolezza a gran voce. Da qui il capo della polizia decide di consultare Han Rekke, esperto di tecniche di interrogatorio la cui fama ha rilevanza mondiale.
E sarà proprio Rekke a rimettere tutte le carte in tavola. L’indagine preliminare verrà ben presto scartata, le sorti di Costa rimesse in gioco, la polizia si ritroverà senza piste e Micaela Vargas, poliziotta della comunità di Husby, sarà l’unica a non voler lasciar perdere. Rekke non risponde a ogni tentativo di suo contatto ma i due sono destinati a rincontrarsi seppur non in circostanze felici quanto drammatiche. I due inizieranno così una indagine serrata volta a risolvere l’arcano. Tra CIA, guerra ai talebani contro la musica, attualità. Ma chi era davvero l’arbitro? Era una vittima oppure dietro mentite spoglie era un carnefice?
Una storia che tiene bene il ritmo è quella proposta da Lagercrantz. Una storia che si legge rapidamente e che si lascia divorare senza difficoltà. Una storia, ancora, che ricostruisce il volto di un paese ancora oggi molto misterioso e di una Stoccolma multi faccia e multicolore, piena di ombre e non solo luce. I personaggi sono ben descritti, la trama ben sviluppata. Non forse il thriller più bello che abbia mai letto ma certamente consigliato a chi ama il genere e a chi ha voglia di leggere opere leggere con cui trascorrere ore liete.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    04 Luglio, 2022
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Ma i killer vanno in pensione?

«Sapeva che i suoi successi erano commisurabili proprio alla loro anonimità. Ci vuole una bella resistenza per reggere a questa prova, e Walter se ne era dimostrato capace.»

Francesco Recami torna in libreria con un nuovo titolo molto attuale nei contenuti e molto accattivante nella sua strutturazione. Quello che abbiamo modo di leggere con “I killer non vanno in pensione” è un romanzo multi faccia e dove niente è come appare in quanto tutto muta, cambia e si plasma a seconda delle necessità e delle evenienze a cui le voci narranti vanno incontro.
Conosciamo prima di tutto Walter. Walter Galati che altro non è che un misero e meticoloso impiegato dell’INPS, un uomo senza speranza di carriera, bistrattato dai colleghi, sfruttato da questi che per indole e modus operandi sono nullafacenti e corrotti tanto da essersi aggiudicati il titolo de “La band dei Quattro” tante sono le somme che maneggiano e che malversano ma sottomesso e soggiogato anche negli ambienti della famiglia dove la moglie Stefania lo schiaccia con le sue pretese. Rancorosa e prepotente la donna non manca di sottolineargli le sue mancanze e di tradirlo con un gigolò. È sconfortato e affranto Walter. Lui che è condannato a un futuro tutto uguale, lui che da quella situazione sembra non riuscire a venirne fuori. Eppure, eppure, eppure, Walter nasconde un segreto, un segreto che lo vede in realtà essere un killer professionista assoldato da un’agenzia segreta e profumatamente pagato. Ma i killer possono andare in pensione? Sembra essere infatti giunto al suo incarico l’uomo.
Ed ecco il litorale veneto in quel della Treviso contemporanea a far da scenario con quel che è il cambiamento idrologico e ancora Monaco di Baviera dove Walter non è più Walter ma Marko Untersteiner di Bolzano, poliglotta dai modi eleganti e dal fascino misterioso.

«Walter lo sapeva che prima o poi sarebbe toccato anche a lui. Che quella di Procida fosse soltanto una trappola?»

Uno stile rapido che conduce per mano e che conferma ancora una volta le capacità di un autore che difficilmente delude le aspettative. Solido anche l’intreccio, ben cadenzato e dal ritmo ben ponderato. Buona anche la caratterizzazione dei personaggi e i temi trattati che riportano l’attenzione su scenari contemporanei che ben si fondono con quello che è il panorama attuale del nostro vivere.

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Romanzi
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    21 Giugno, 2022
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Più amarezza che miele

Sullo sfondo della Tangeri degli ultimi decenni si svolge la vicenda al centro del nuovo romanzo di Tahar Ben Jelloun pubblicato in Italia, lo scorso aprile, da La nave di Teseo all’interno della collana “Oceani” e presentato di recente all’ultima edizione del Salone Internazionale del Libro di Torino. Il famoso scrittore maghrebino ritorna nel nostro paese con una dramma familiare che, in verità, finisce per inserirsi in un altro, ormai incancrenito, di lunga data, raccontando al tempo stesso uno spaccato della società del Marocco, sempre ostaggio delle proprie contraddizioni più laceranti.
È straordinariamente abile Ben Jelloun a scandagliare gli angoli reconditi dell’anima della propria terra che lui, nativo di Fès, lasciò una cinquantina d’anni fa per prendere stabile dimora in Francia da dove, tuttavia, non ha mai rinunciato a gettare il suo sguardo attento sull’altra sponda del Mediterraneo. Ancora una volta Tangeri, città cosmopolita da cui sognano di partire i giovani, affascinati dalle luci d’Europa al di là dello Stretto, accoglie una storia che viene narrata attraverso più voci. In quelle alterne dei coniugi Mourad e Malika, principali protagonisti, domina l’infinita amarezza di una esistenza precipitata giorno dopo giorno nel baratro irreversibile dell’infelicità domestica; a esse si aggiungono le voci dei tre figli, soprattutto quella di Samia, adolescente che ama rifugiarsi nei libri e nella poesia e che sul principio degli anni Duemila subisce un abuso sessuale da parte di un insospettabile e rispettato editore che adesca giovani vittime con la promessa di pubblicazione sulla sua rivista letteraria. La “tragedia”, come viene ripetutamente chiamata, si abbatte imprevista sui genitori che finiscono per seppellirsi, come in una sorta di tomba precoce, nel buio seminterrato della loro casa “costruita quando tutto andava bene”. Il dolore per quanto accaduto, l’astio reciproco e l’amaro rimpianto per i tempi in cui l’amore tra loro era forse esistito (nei limite in cui questo possa nascere nei matrimoni imposti dagli usi locali) li accompagnano fino agli anni della vecchiaia, quando nella loro solitudine e nello spazio angusto del seminterrato fa la sua comparsa un giovane immigrato mauritano la cui voce si aggiunge alle precedenti in un intreccio narrativo ben riuscito dalla prosa intensa e coinvolgente.

“Il miele e l’amarezza” è indiscutibilmente un romanzo di denuncia attraverso il quale Ben Jelloun punta il dito non soltanto sul crimine dello stupro, in particolare ai danni di minorenni, ma anche sul quel misto terribile di rassegnata passività, ipocrisia e intima vergogna con cui esso viene vissuto dalla società marocchina in generale che preferisce far finta di non vedere, non parlarne e aggrapparsi ostinatamente a un senso dell’onore che, a tali condizioni, risulta già disonorato in partenza; in tutto questo schifo, inoltre, attecchiscono bene gli abusi da parte di chi, come i sauditi, arriva con borse piene di soldi e pensa di sfruttare l’altrui miseria, comprando a poco prezzo donne, uomini e, purtroppo, pure bambini.

“[…] La gente parla, ma nessuno fa nulla contro questo sistema di prostituzione che non si dichiara come tale […]”.

La denuncia dell’autore, come già in tanti suoi lavori, tocca senza mezzi termini anche altri aspetti del paese nordafricano: la corruzione, ben radicata e diffusa a livello capillare, in primis nell’ambito della pubblica amministrazione, e ormai considerata normale pratica poiché il cosiddetto “bakhshish” consente di rimpolpare modesti stipendi e garantirsi così una maggiore disponibilità economica (nella trama, Mourad, funzionario presso un ministero, viene costretto dalla moglie e dall’ambiente di lavoro a venir meno ai suoi principi e a piegarsi alla logica perversa delle bustarelle); l’immigrazione degli africani subsahariani, in transito verso la penisola iberica, e il razzismo da parte dei marocchini, i quali in molti casi, a quanto pare, si sentono meno africani degli altri; una sorta di irrigidimento dell’Islam, culminante da tempo nella costruzione di moschee e in un sempre maggior numero di donne velate negli spazi pubblici, mentre la scuola musulmana di diritto vigente in Marocco e nel Maghreb più in generale – quella malikita – è sempre stata tra le meno rigide in assoluto per quanto riguarda l’interpretazione dottrinale.

“[…] Un paese dove si costruiscono più moschee che scuole o ospedali è un paese finito. Non ne uscirà niente di buono. Possiamo pregare a casa, possiamo anche pregare dentro di noi, non abbiamo bisogno di una moschea. Mia madre, che era malata, ha pregato seduta per gli ultimi dieci anni della sua vita. Era molto religiosa. Diceva le sue preghiere in silenzio e non disturbava nessuno. Al giorno d’oggi, quelli che credono vogliono farlo sapere a tutti. Che orrore! Che arroganza […]”

Attraverso le parole di uno dei suoi protagonisti (che a tratti dà quasi l’impressione di essere il suo alter ego), Ben Jelloun esprime considerazioni del tutto condivisibili. Il suo è un linguaggio schietto su più fronti, sesso incluso, scevro di inutili edulcorazioni di sorta, probabilmente esecrabile in patria secondo certe ottiche ipocrite e bigotte anche se i suoi testi non vengono banditi dalle librerie del regno, ed è proprio per questo chiamare le cose con il loro nome che amo in modo particolare la sua scrittura; inoltre, ogni volta in cui leggo un suo libro, ho come la sensazione di ritornare nel Marocco che ho conosciuto e vissuto per diverso tempo in passato, ritrovando tra le pagine non soltanto luoghi, ma persino mentalità e modi di vivere della sua gente. Al di là della vicenda di fantasia, dunque, anche il romanzo in questione si rivela perfettamente aderente alla realtà locale.
Una lettura scorrevole, molto istruttiva e interessante. Non sarà forse il migliore Tahar Ben Jelloun, se paragonato a quello di diverse pubblicazioni precedenti, ma si tratta comunque di una prova più che buona dello scrittore marocchino che, come di consueto, non manca di suscitare nei lettori emozioni e riflessioni non di poco conto, anzitutto sul senso dell’umano vivere al di là di ogni possibile contesto culturale. E anche stavolta, infine, il miele è poco e l’amarezza tanta.

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ornella donna Opinione inserita da ornella donna    17 Giugno, 2022
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Una finzione animalesca

Roberto Alajmo, vive a Palermo. Tra i suoi libri: Notizia del disastro, Cuore di madre, E’stato il figlio, Palermo è una cipolla, L’arte di annacarsi. Con Sellerio ha pubblicato Carne mia, L’estate del ’78, Repertorio dei pazzi della città di Palermo, Io non ci volevo venire , la prima indagine con protagonista Giovanni Di Dio. Ora torna con una seconda indagine, intitolata La strategia dell’opossum. Un giallo divertente e molto ironico.
Qual è la strategia dell’opossum? E’:
“Il suo animalesco istinto di sopravvivenza gli suggerisce di fingersi morto per scoraggiare i predatori. Gli opossum quando si vedono perduti fanno così: svengono, simulando di essere morti. O perlomeo , è una simulazione in cui l’opossum è il primo a credere veramente, cadendo in un forma di coma detta tanatosi, che prevede anche l’ulteriore realismo di una emissione di liquido puzzolente dall’apposito sfintere. (…) a quel punto l’opossum, rimasto solo, si alza come se niente fosse stato e va a cercarsi qualche frutto da sgranocchiare a mo’ di festeggiamento per lo scampato pericolo.”
Ed è esattamente quello che Giovanni Di Dio , detto Giovà, cerca di fare in questo romanzo. Lui di lavoro fa il metronotte, ogni sera compie il solito giro di villette, controlla che sia tutto a posto, si siede in macchina e cerca di arrivare a fine turno senza colpo ferire. Vorrebbe solo essere lasciato in pace, a vivere e a mangiare senza occuparsi di nulla. Lui ha un dono:
“non hai idea di niente, non esiste un afferra cazzi n’tall’aria peggio di te, ma in un modo o nell’altro il risultato lo porti sempre a casa.”
Invece non può, perché sua madre glielo impedisce. Lei è l’espressione di:
“come funziona il maschilismo matriarcale, modalità fondante della società siciliana. E’ vero che tra le mura di casa è la donna che comanda, ma quando si palesa un potere superiore lei capisce che deve solo badare a limitare i danni.”
Così a Giova tocca l’ingrato compito di far luce sulla scomparsa di toni, promesso sposo, che abbandona la sorella di Giova, Mariella, sull’altare, provocando all’interno della famiglia, e non solo, una specie di tsunami potente e violento. Che cosa è successo mai a Toni? Cosa faceva il bel tomo a Torino in una non meglio precisata industria? Riuscirà Giova a trovare il bandolo della matassa?
Un giallo fortemente ironico, dove si sorride molto di fronte all’impicciato protagonista che, suo malgrado, riesce sempre a superare gli ostacoli e le difficoltà. Un giallo di genere, ricco di ombre scure, intrallazzi, mafiosi terribili, e vendicativi travestiti da agnellini, doppie vite, traffici illeciti e quant’altro. Un romanzo che diverte, per trascorrere un paio di ore in compagnia di un romanzo scritto bene, con arguzia e ricerca letteraria. Per sorridere un po’ e gustare un ottimo testo, composto da una trama ben congegnata e un finale a sorpresa, inaspettato e curioso.

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Consigliato a chi ha letto ed apprezzato anche il precedente, Io non ci volevo venire. Stesso protagonista.
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    12 Giugno, 2022
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Lucy e il suo Wiliam che fu

«E sembrava che non ci fosse niente da fare. E niente infatti si fece. Perché io non riuscivo a parlarne, e William diventò meno felice e si andava chiudendo in tanti piccoli modi, accadde davanti ai miei occhi. Con questa consapevolezza continuammo a vivere le nostre vite.»

Avvicinarsi alle opere di Elizabeth Strout è sempre una esperienza di grande prosa narrativa e stilistica. Sia che si tratti di opere autobiografiche, racconti che di opere di narrativa focalizzate su storie di grande intensità e contenuto. Vincitrice del Pulitzer del 2008 con “Olive Kitteridge”, ogni sua pagina sa essere intrisa di eleganza e padronanza. Grazia e vita, empatia e speranza. Un caleidoscopio di emozioni che ogni volta sopraggiunge con diversa intensità nel lettore. Talune volte con maggiore incisione, altre con minore forza evocativa ma pur sempre mantenendo quel centro narrativo capace di lasciare al conoscitore interessanti esperienze di lettura. Questo perché in primo luogo i suoi narrati sono storie di vita, traumi, ricordi di vissuto, miserie del quotidiano ma anche fratture mixate a fragilità e perdita e solitudini. Sono storie di persone.
Torna ad essere protagonista Lucy Barton dopo “Mi chiamo Lucy Barton” e “Tutto è possibile”, opere che già la vedevano protagonista (Einaudi, traduzione a cura di Susanna Basso). Lucy ha adesso sessantaquattro anni. È una donna matura esattamente come mature sono le sue riflessioni. Sul primo marito William con cui esordisce in questo scritto, su quei ricordi che la vedevano convalescente in un letto d’ospedale in attesa della visita delle sue bambine con il papà che poi ha lasciato per i tanti tradimenti. Ed è importante dire che adesso Lucy è una donna di successo, con una carriera consolidata, con delle figlie con cui ha mantenuto un rapporto forte e premuroso, e ora anche vedova perché da un anno ha perso il secondo adorato marito, David. William dal suo canto di anni ne settantuno ed è sposato con la terza moglie, Estelle che di anni ne ha ventidue meno di lui. Ha una carriera di scienziato agli sgoccioli e una vita da vivere ancora.
Ed è proprio questo “Oh William” di cui al titolo a reggere la narrazione. Perché sarà proprio questo rapporto bonario con il primo marito a suscitarlo ogni volta con una diversa accezione. Ed è proprio di questo matrimonio che ora Lucy ci parla. Di un uomo che è stato prigioniero di guerra, di un tedesco, di lavori forzati, di una fattoria di patate nel Maine in cui si innamora, di un segreto mai svelato dalla madre e della madre. Ma soprattutto, Lucy per mezzo di Elizabeth, ci racconta dell’intimità e della distanza che caratterizza ogni persona e ogni legame con l’altro. Anche e soprattutto quando ci si sente in bilico, inadeguati, invisibili, irriconoscibili. Quando la distanza prende e la fa da padrona anche se noi vorremmo che così non fosse.
Non mancano ancora riflessioni sulla classe sociale, sulla realtà americana, su quella mobilità sociale che spesso è solo parvenza ma non anche verità. Non dimentichiamo che è proprio la Strout che per prima ha parlato della “white trash” i cd. bianchi poveri e cioè quella classe sociale senza possibilità d’appello e voce. Tra presente, passato, solitudine e insicurezze. Ancora, invisibilità. Perché la protagonista persiste a sentirsi tale. Nonostante la sua vita piena, un affresco di un doppio matrimonio, un equilibrio tra le figlie, un vivere denso e ben cadenzato.

«Va detto però che non ho mai afferrato i meccanismi del sistema di classi americano, perché io arrivavo dal fondo assoluto e quello è un marchio che non ti levi più. Voglio dire che non sono mai riuscita a superare le mie origini, la miseria, credo sia questo.»

“Oh William” è uno scritto di gran contenuto riflessivo, che conferma le capacità dell’autrice, che descrive e delinea un’altra fase della vita della protagonista che ha accompagnato le letture di molti conoscitori, ma è uno scritto che talvolta è un poco ridondante, che tende in parte ad arrovellarsi su se stesso. Questo per i fatti narrati, per l’età descritta, per lo stile narrativo volutamente scelto che è sempre elegante e ben strutturato ma che in questo caso finisce con l’essere anche ripetitivo tanto da rallentare la lettura e renderla a tratti più difficoltosa soprattutto nel ritmo che perde di intensità.
Nel complesso resta un buon titolo, uno scritto che approfondisce tematiche care alla romanziera, uno scritto che tocca corde intime e che non teme di mettersi a nudo. Perché alla fine ciascuno è un mistero, un mistero di se stesso, per se stesso e per il mondo di fuori.

«E poi ho pensato, Oh William! Ma quando penso Oh William!, non voglio dire anche Oh Lucy!? Non voglio dire Oh Tutti Quanti, Oh Ciascun Individuo di questo vasto mondo, visto che non ne conosciamo nessuno, a partire dai noi stessi? Tranne forse un pochino, un minimo sì. Però siamo tutti misteriose costellazioni di miti. Siamo tutti un mistero, ecco che cosa voglio dire. Potrebbe essere l’unica cosa al mondo che so per certo.»

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    12 Giugno, 2022
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Miriam & Diego e il mondo dentro e fuori

«Negli occhi nerissimi teneva il coraggio che l’aiutava a campare fuori, nel rione e per le strade di periferia nell’esistenza precaria di ogni giorno, in quegli occhi Miki riconobbe il suo stesso convincimento, quello che tocca agli sfortunati: che l’altro sia il nemico da sconfiggere, e che dentro ogni essere umano ci sia un diavolo impossibile da estirpare. E sentì ancora una volta di trovarsi dalla parte sbagliata, lui prigioniero come lei, anche se in maniera diversa, prigioniero del suo lavoro, del passato, della famiglia, dei muri che la vita, il carceriere più crudele, gli aveva alzato attorno, della diffidenza costante che consuma e ti fa triste, solo, e morto, quella diffidenza che spesso basta a giustificare l’inganno altrui, perché chi in nessuno crede da nessuno verrà creduto.»

Il suo nome è Miriam. È una giovane e bella donna dagli occhi scuri e il carattere forte che mai mostra la sua fragilità al mondo che la circonda. Anche adesso, ancor più adesso. Adesso che la sua vita è approdata in un Icam, Istituto di detenzione attenuata, insieme a Diego il figlio di nove anni. La condanna, detenzione illegale d’armi, per proteggere forse altri, quel padre ancora più assente di cui il figlio ha ben poco ricordo. Diego che di anni ne ha nove e che non ha artigli per difendersi in quel mondo fatto di rione e strade, Diego che è troppo buono per il quartiere napoletano in cui è cresciuto e in cui è stato deriso per i suoi piedi piatti, gli occhiali e la pancia. Diego che tra queste mura cambia, cresce, acquista sicurezza in sé, Diego che impara a sua volta l’universo delle parole che la cara Melina annota e trascrive perché le “parole belle” devono essere custodite, Diego che muta volto, forma e faccia perché in quel mondo fuori ci deve ritornare. Lui che già conosce l’esclusione e l’isolamento. E ancora Miriam che non riesce a fidarsi del prossimo, soprattutto degli uomini. Che sente una morsa strapparle il respiro ogni volta che sente l’occhio maschile sul proprio corpo, Miram che non può mostrarsi debole e ancor meno può cedere. Miriam che non si fida e ancor meno affida. Una madre che cerca di tirar su forte e duro quel figlio che, al contrario, sorride a chi incontra perché nelle persone vede il buono.

«[…] Giacomo si chiese se l’accesso di rabbia che l’aveva pervaso non fosse solo invidia per Gramigna, che s’era liberato del desiderio di vivere, che rende inevitabilmente schiavi.»

E così, pagina dopo pagina, impariamo i ritmi di una vita dietro le sbarre. Una vita fatta da una parvenza di quotidianità, una vita tra divani e sbarre alla finestra perché pur sempre una condanna deve essere scontata. Ed ancora Melina che è una bambina fragile che ama le “parole belle”, le annota e cerca un ordine per quel mondo così disordinato e caotico. Ancora Amina fuggita dalla Nigeria che la vuole schiava. E Dragana che nei pensieri belli non riesce a credere. Anime devastate a cui si affiancano altrettante rose dai propri incubi. Tra queste vi è Miki, abbreviazione di Michele, che con la sua Tilde divide la vita ma che è schiacciato tra demone e desiderio, Greta con la sua ferita che non sembra aver ancora trovato una cura, Antonia che rifugge dalla monotonia. E Giacomo che rappresenta il confine tra mondo di fuori e mondo di dentro.

«[…] Capitava spesso negli ultimi tempi che la tristezza scendesse improvvisa sulle cose, a rubarsi il sorriso della mamma e il buonumore suo, allora in quelle occasioni lui strizzava gli occhi e provava a immaginarsi lontano, sul camion del babbo, a percorrere con lui una strada dritta in un giorno di festa, il vento d’estate che entrava dai finestrini, e suo padre allegro che mordeva un panino alla mortadella tenendo il grosso volante con una sola mano.»

Nato dall’esperienza diretta occorsa nel 2021 dall’autore in un Icam in provincia di Avellino (Icam di Lauro), “Le madri non dormono mai” è uno scritto meditato e cadenzato in cui si è protagonisti e non solo spettatori. Si cerca lo stesso abbraccio nell’altro, si cerca la possibilità di fidarsi e affidarsi, si osserva il paradosso del “mostro” che è sempre in agguato, pronto a coglierti di sorpresa. C’è ancora Napoli con i suoi paradossi fatti di arroganza, violenza e mancanza di opportunità mixata a una cordialità corale. C’è un dolore misto a speranza, ci sono silenzi che sono pause necessarie. Ci sono volti vividi e vivi che sono delineati con verità e concretezza.
E c’è la riflessione. Perché quando si è davvero liberi? Quando si è invece prigionieri? Qual è il confine tra prigionia e libertà? È possibile essere prigionieri anche in quello che è un mondo apparentemente libero e senza sbarre?
Lorenzo Marone torna in libreria con un romanzo con un grande obiettivo: quello di sensibilizzare il lettore e spronarlo a riflettere su tematiche importanti che vanno dalla detenzione penale, alle carceri, alla maternità, alla libertà.
Non mancano le assonanze con altri titoli del medesimo genere, anche di recente pubblicazione, non manca un ritmo ben cadenzato anche se talvolta più lento rispetto a quella che è la narrazione complessiva. Nel complesso una piacevole lettura in cui si ritrovano alcune tematiche care allo scrittore ma altrettante frutto di una chiara e ponderata meditazione dettata dall’esperienza in prima persona. Un buon prodotto per chi ama questo format.

«Te l’ho detto che la gente è cattiva, ma forse non è manco cattiva, è che non se ne fotte di niente, la gente, non se ne fotte se cambi o muori, se tieni paura o no, se tieni fame o stai bene. La gente, io ho capito questo, tiene a pensare solo ai cazzi suoi. E però ho capito pure un’altra cosa, che la gente non se ne fotte niente perché non conosce, perché quando incontri una persona e le vuoi bene allora te ne importa. Anche io ti ho incontrato, e ti ho conosciuto, e ora ci tengo assai a te. E quindi penso che bisogna muoversi e incontrare a tutti quanti nella vita perché se no non vuoi bene a nisciuno, ma allora che campi a fare? […] Vorrei essere più grande, così potrei venirti a cercare. E vorrei pure che tutti tenessero la dolcezza tua, perché il mondo sarebbe un posto bello assai. E invece così non ho l’ho capito se mi piace. Però quando mi viene la tristezza apro il quaderno e leggo le parole belle una a una e mi pare di vederle, mi pare di sentire il loro odore nel naso e davanti agli occhi mi appari tu e mammà, e anche quei giorni belli, e così la tristezza mi passa. Ciao Melina mia, ti mando un bacio sulla fronte, come facevo in carcere. A volte mi pare che quella cella è stata l’unica casa che ho avuto.»

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ALI77 Opinione inserita da ALI77    09 Giugno, 2022
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LA STORIA DI YOELA E LEAH

L'incipit di questo romanzo è molto forte e toccante, una donna di nome Yoela è fuori in strada, davanti alla casa dove abita la figlia. E' lì ferma, da sola, che la guarda attraverso la finestra, vede anche il genero e le nipoti che non ha mai conosciuto. Ha compiuto un viaggio di oltre cinquemila chilometri per vedere da lontano l'amata figlia Leah che vive a Groningen, in Olanda.
La donna non si azzarda ad avvicinarsi a loro, a bussare alla porta ma osserva quello che accade da lontano, quasi si vergogna di essere riuscita a trovare la figlia, a vedere dove vive, come era andata avanti con la sua vita senza di lei. Non avrebbe nemmeno saputo come giustificare la sua presenza lì in quel momento e ad un certo punto decide di tornare a casa in Israele.
Leah ha abbandonato la sua casa e i suoi genitori molti anni prima, era successo qualcosa di drammatico che l'aveva portata a scappare via e a ricominciare una vita altrove. Cosa aveva spinto la ragazza ad andarsene? Cosa si era spezzato nel rapporto di complicità e reciproca fiducia che avevano sempre avuto le due donne?
Yoela non si aspettava nulla e non pretende di rientrare nella vita di sua figlia ma vuole solo assicurarsi, con i propri occhi, che Leah stia bene e che sia felice.
Inizia così la narrazione che viaggia tra il presente e il passato della vita di Yoela, il suo matrimonio con Meir, il rapporto con l'unica figlia, la paura della gravidanza, il suo essere madre, la voglia di un altro figlio, le preoccupazioni per la crescita e l'educazione di Leah.

"Voglio scrivere tutto di Leah ma è come se le parole dovessero passare attraverso la cruna di un ago.
Vorrei scrivere di lei senza parole ma è impossibile." (cit.)

Yoela ha un amore incondizionato per la figlia, a volte eccessivo e possessivo, ma l'amore di una madre non si può spiegare, questo traspare dalle pagine e attraverso il racconto della vita di questa donna capiamo quanto forte, disperato, potente sia questo sentimento. Un legame unico e speciale che lega una madre al proprio bambino.
Per Yoela, la paura inizia quando capisce di essere incinta, ma tutto il dolore e le preoccupazioni passano quando nasce Leah, non sa se il suo amore sarà mai abbastanza, se la figlia sarà felice, se come genitore fallirà o meno. Ma ci prova lotta contro se stessa, contro l'ansia che la pervade, con la paura che succeda qualcosa a sua figlia, la vorrebbe proteggere e salvare da ogni dolore, cerca di rassicurarla, di consolarla, la rimprovera raramente e cerca di darle una buona educazione e farla diventare una brava persona.

"La maternità cancellò tutto ciò che l’aveva preceduta. Non ricordavo piú cosa avessi programmato, cosa mi aspettassi, cosa temessi. Niente mi faceva piú paura." (cit.)

Nel corso della storia assistiamo al racconto di un dramma famigliare, Yoela non ha una famiglia perfetta, lei e Meir si amano però lei vorrebbe un altro figlio ma il marito no, i loro vent'anni di differenza si sentono molto, la protagonista cerca di tenere insieme la sua famiglia, di fare sempre la cosa giusta.
I legami famigliari sono difficili, a volte la famiglia può rappresentare un ostacolo, può essere un rifugio nel quale tornare nei momenti difficili ma non sempre è così. In una famiglia si commettono degli errori, ci sono litigi e incomprensioni ma di base c'è sempre l'amore, ma quando questo diventa eccessivo può intrappolare. E allora l'unica soluzione è scappare e forse un giorno tornare e ritrovare il calore di un abbraccio tra genitore e figlio.

"Non appena Leah finí di raccontare le cercai il viso, gli occhi, e vidi solo dolore. Una morsa di gelo le stringeva il cuore. Non capivo di che materiale fossa fatta mia figlia. La amavo in maniera insopportabile, forse impossibile, e odiavo quel ragazzo con la stessa intensità." (cit.)

L'autrice riesce a delineare la protagonista in maniera verosimile, trasmettendo al lettore tutte le sensazioni, le emozioni, i sentimenti e le paure che ha provato e le difficoltà del rapporto madre-figlia. E' una storia molto profonda e delicata e molte persone potranno identificarsi in essa, nelle difficoltà dei genitori ma anche in quelle di Leah.
E' un racconto sincero, senza filtri, che racconta una famiglia come tante, ma allo stesso tempo unica, della paura di amare troppo, di questo sentimento così difficile da controllare, di questa protezione eccessiva, che a un certo punto porta a una forte rottura.
Lo stile dell'autrice è lento, a volte un po' prolisso soprattutto nella prima parte, con frasi e capitoli brevi e pochi dialoghi.
E' un romanzo impegnativo a livello emotivo che ti dona una serie di emozioni differenti, ma che ho trovato molto intenso, profondo e che fa riflettere sul rapporto genitori e figli guardando e considerando entrambi i punti di vista.
Un libro che porta anche un messaggio di speranza, che può essere interpretato in maniera differente, un rapporto si può ricostruire e migliorare sempre se lo si vuole, si può perdonare e amare un figlio o un genitore anche lasciando che commetta qualche errore e c'è un momento in cui la separazione è necessaria per far crescere un rapporto, per recuperalo o per ricucirlo.

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    04 Giugno, 2022
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L'ATTRAZIONE FAUSTIANA DELLA COSCIENZA CONDIVISA

“Mai fidarsi di una casa di marzapane!”

Nell’ultimo capitolo de “Il tempo è un bastardo” Jennifer Egan immaginava che il protagonista di quel racconto, Alex, cercasse di portare alla memoria Sasha, la ragazza insieme alla quale aveva trascorso una notte molti anni prima, ma alla fine era costretto a riconoscere di non ricordare praticamente nulla di quell’incontro, né come lei si chiamasse, né che aspetto avesse, e persino che cosa avessero fatto insieme. Quei dettagli erano stati completamente cancellati dal tempo, e questa sensazione era frustrante, “come quando cerchi di ricordare una canzone che ti ha fatto sentire in un certo modo, ma senza disporre di un titolo, del nome dell’artista, o anche solo di qualche accordo per richiamarla alla memoria”. Nello stesso libro, lo studente informatico Bix Bouton si trovava di notte con gli amici Rob e Drew davanti all’East River, prima di lasciarli alla loro tragica nuotata nel fiume, e all’auspicio di Drew (“Ricordiamoci di questo giorno, anche quando non ci conosceremo più”) aveva risposto: “Oh, ma noi ci conosceremo sempre. I tempi in cui ci si perdeva di vista sono quasi finiti […] Ci ritroveremo in un luogo diverso. Tutti quelli che abbiamo perduto, li ritroveremo. O saranno loro a ritrovare noi”. L’episodio era ambientato all’inizio degli anni ’90, e l’affermazione di Bix preconizzava l’avvento di Facebook e dei social media, che all’epoca di pubblicazione del romanzo, il 2011, si era ormai trasformato da anni in un fenomeno pervasivo e inarrestabile. Jennifer Egan deve essere rimasta affascinata dalle potenzialità narrative della nuova tecnologia digitale e della sua indissolubile interazione con la nostra vita di tutti i giorni, negli anni successivi affrontata con successo anche da altri autori, come Dave Eggers ne “Il Cerchio” o Richard Powers in “Smarrimento”, e nel suo nuovo romanzo, “La casa di marzapane”, ha voluto spingersi, con quel coraggio e quella capacità visionaria che da sempre la contraddistinguono, fino a immaginare un futuro in cui non solo è possibile condividere con chiunque canzoni, fotografie e informazioni (come normalmente facciamo con Youtube, Instagram e Whatsapp), ma addirittura i ricordi e le sensazioni private dell’intera esistenza. “Riprenditi l’inconscio” viene inventato proprio dal già citato Bix Bouton, nel frattempo diventato un guru del mondo digitale, e la scintilla all’origine di tutto è, guarda caso, l’episodio con Rob e Drew di quasi vent’anni prima, che si rivela sfuggente ed elusivo in maniera sconfortante (“Dov’era rimasto nascosto quel ricordo, fino a quel momento? E dov’era il resto: la voce di Rob, e quella di Drew, e tutto quello che avevano detto e fatto in quell’ultima mattina della vita di Rob? […] Sentì il mistero del proprio inconscio simile a una balena che fluttuava invisibile al di sotto di un minuscolo nuotatore. Se non era capace di consultare o di recuperare o di vedere il suo passato, allora quel passato non era veramente suo: era perduto”). La nuova tecnologia di Bix sembra fin da subito una sorta di incantesimo, di bacchetta magica capace di esaudire i nostri più reconditi desideri. In fondo, chi non vorrebbe rivivere il giorno in cui si è innamorato, ha scalato una vetta himalayana o ha imparato per la prima volta ad andare in bicicletta? Senza parlare della possibilità di rivedere in maniera vivida amici perduti o familiari scomparsi. Esternalizzando il contenuto della propria coscienza in un hard disk apposito, il Cubo della Coscienza, tutto questo diventa possibile. Ma non è tutto. Caricando la memoria su un collettivo condiviso, una sorta di “cloud”, si ha la possibilità di accedere ai pensieri anonimi e ai ricordi di tutte le persone che hanno accettato di fare altrettanto: come dire che diventa possibile sperimentare il raduno di Woodstock o la caduta del muro di Berlino attraverso gli occhi di chi quel giorno c’era! E’ una cosa apparentemente meravigliosa, allettante oltre ogni più audace speranza, e difatti la Egan immagina che l’invenzione di Bix abbia un successo enorme, planetario, al punto che diventa abituale regalare il Cubo della Coscienza a tutti i neo-ventunenni come regalo per festeggiare l’entrata, oltre che nella maggiore età, anche in una nuova, incommensurabilmente più ampia dimensione esistenziale. Ma, ovviamente, c’è un grosso “ma”. Come abbiamo imparato con l’avvento di Internet, nulla è davvero gratis. Napster e i suoi emuli, ad esempio, ci hanno permesso di condividere una moltitudine enorme di canzoni, ma questo ha giocoforza comportato una grave crisi dell’industria discografica, e lo stesso può dirsi di quella cinematografica e, in una certa misura, anche dell’editoria. Il più grave danno, quello forse meno percepibile a prima vista, ma evidentissimo nelle sue conseguenze a lungo termine, è la rinuncia alla propria privacy. Se qualcuno si chiedesse come sia possibile accedere illimitatamente a video, immagini e informazioni nella rete, e dove i vari Facebook, Twitter e Whatsapp traggano i loro guadagni, la risposta non potrebbe che risiedere nella mole di dati personali che ogni giorno accettiamo di cedere, acconsentendo senza pensarci troppo ai cookie che ci vengono proposti. Non c’è nulla di orwelliano in questo, la rinuncia alla privacy è accettata volontariamente, anzi a cuor leggero, a fronte di una contropartita in apparenza molto più remunerativa e gratificante. Anche “Riprenditi l’Inconscio” funziona così, anzi il suo fascino è un irresistibile canto delle sirene cui non è possibile resistere, una droga che crea una fatale dipendenza, e non è un caso che sia proprio la tossicodipendente Roxy a essere nel romanzo la più entusiastica fautrice del Cubo della Coscienza, il quale le offre l’illusoria e ingannevole impressione di poter finalmente “lasciare la sua impronta” nel mondo. E’ in questo problematico contesto che la Egan immagina che, a fronte della stragrande maggioranza che considera la nuova tecnologia alla stregua di un progresso enorme, epocale per l’umanità, una invenzione da cui non si può prescindere senza dover rinunciare a una parte essenziale della propria personalità, vi siano invece persone le quali, avendo subodorato i pericoli ad essa connessi (la rinuncia alla propria intimità, perché se è vero che tu sai tutto di tutti, è altrettanto vero che tutti sanno tutto di te; l’impoverimento della vita sociale, dal momento che i rapporti finiscono per esaurirsi in una narcisistica e fondamentalmente inautentica esibizione del proprio ego; il ripiegamento nel passato, che diventa, con la possibilità di riviverlo senza più amnesie, fin nei minimi dettagli, molto più interessante del futuro), cercano di eludere la propria identità digitale, e delle organizzazioni “resistenti” (che mi hanno ricordato un po’ gli esuli guidati da Granger di “Fahrenheit 451”) che li aiutano in questa opera, al fine di boicottare la creazione di Bouton.
“La casa di marzapane”, alla luce di quanto detto finora, sembra il libro ideale per un gruppo di discussione che si proponga di analizzare i pro e i contro delle nuove tecnologie digitali. Jennifer Egan è chiaramente consapevole di questo aspetto, ma fa di tutto per non ridurre la sua opera al rango di un facile pamphlet. Il suo atteggiamento non è sfacciatamente partigiano, perché se da una parte mette in risalto i rischi di “Riprenditi l’Inconscio”, dall’altra non nasconde i suoi risvolti positivi: “la giusta sanzione per decine di migliaia di delitti rimasti impuniti; lo sradicamento totale della pornografia infantile; la riduzione netta dei casi di Alzheimer e demenza senile mediante re-infusione di coscienza integra precedentemente salvata; la conservazione e la rinascita di lingue quasi morte; il ritrovamento di schiere di persone scomparse”. Quello che per la Egan è il vero aspetto dirimente della questione, al di là di tutti i vantaggi e i rischi finora considerati, è soprattutto questo: “Riprenditi l’Inconscio”, con la possibilità che dà a chiunque di rendere consultabili in forma anonima le coscienze di tutti, genera un eccesso di informazioni da cui si rischia di venire sommersi. Sapere tutto è in fondo la stessa cosa di non sapere nulla. E siccome “non tutte le storie meritano di essere raccontate”, il risultato finale di questa pletora di informazioni sarebbe la morte delle storie, la fine dell’immaginazione. Pensiamo per un attimo alla sorte della “Recherche” di Proust se all’epoca ci fosse stato il Cubo della Coscienza: non ci sarebbe stato bisogno di alcuna madeleine per riesumare miracolosamente il passato, e al posto del selciato sconnesso di palazzo Guermantes sarebbe stato sufficiente un anonimo hardware dove esternalizzare la propria coscienza e un banale visore per far risorgere dall’oblio, senza alcuna fatica, Swann e Odette, madame Verdurin e il barone di Charlus. Il prezzo che il mondo avrebbe pagato per l’irrisoria facilità di accesso al proprio passato sarebbe stato la perdita di un insostituibile capolavoro della cultura, e la precisione delle informazioni ottenute sarebbe inevitabilmente andata a detrimento della poesia. “La casa di marzapane” può essere quindi letto come una sorta di inno all’immaginazione, alla capacità della letteratura di creare e condividere storie in maniera migliore di quanto la tecnologia digitale, con le sue sterili e anodine funzionalità, è in grado di garantire. Per fare una similitudine molto approssimativa ma efficace, l’arte starebbe alla tecnologia come l’erotismo alla pornografia. Il personaggio che meglio incarna questa posizione è sicuramente quello del figlio minore di Bix Bouton, Gregory, l’aspirante scrittore che al termine del romanzo ritrova la vena creativa perduta: “Gregory fissava, folgorato, la neve che gli cadeva addosso come detriti spaziali, disordinati stormi di uccelli; come se l’universo volesse svuotarsi. Capì subito il senso di quella visione: le vite umane, passate e presenti, intorno a lui, dentro di lui. […] Una galassia di vite umane che precipitavano verso la sua curiosità. In lontananza, sfumavano nell’uniformità, ma si muovevano, ognuna spinta da una forza singolare e inesauribile. Il collettivo. Riusciva a sentire il collettivo senza bisogno di macchinari. E le storie di questo collettivo, infinite e particolari, sarebbe toccato a lui raccontarle.”
Nonostante tutto quello che si è detto finora, si cadrebbe in un imperdonabile errore se si pensasse che l’invenzione di Bix Bouton è sempre, ossessivamente al centro del romanzo, monopolizzando ed esaurendo le sue potenzialità narrative. Al contrario, “Riprenditi l’Inconscio” fa da semplice, anche se costante, sfondo alle tante storie del libro, come una cosa che, per quanto rivoluzionaria, è stata ormai assimilata da tutti, e non c’è più bisogno di essere didascalicamente spiegata da ogni personaggio. Pensiamo, per fare un esempio, a Internet e a come la rivoluzione digitale ha cambiato la nostra esistenza: ebbene, nella normalità delle nostre giornate, non riflettiamo quasi mai sulla costante presenza degli smartphone, dei device digitali, delle piattaforme di condivisione e dei social media, dandoli praticamente per ovvi, per scontati, anche se grazie a essi le nostre abitudini di vita non sono più le stesse di qualche anno prima. Allo stesso modo, “Riprenditi l’Inconscio” di Bix è già presente come una realtà normale nella maggior parte dei capitoli, e il lettore si trova praticamente catapultato in media res, costretto a destreggiarsi per capire cosa siano i “gray grabs” e quale ruolo abbiano nel sistema i “contatori”, i “proxy” e gli “elusori”. L’impressione non è quindi quella di un romanzo distopico e fantascientifico, ma al contrario di un romanzo che racconta, se non proprio l’oggi, di certo un domani imminente, ormai alle porte, con l’ottica di chi ha proprio di fronte agli occhi, se solo si sforza di afferrarlo, il cambiamento nel momento stesso in cui si sta producendo. L’apparizione stessa nel romanzo dei personaggi già conosciuti ne “Il tempo è un bastardo” ha l’effetto di cucire insieme passato, presente e futuro, con il risultato di rendere tutto estremamente verosimile e naturale. Ne “La casa di marzapane” i personaggi del libro di undici anni prima ci sono praticamente tutti, come inattese e sorprendenti agnizioni, che la ispiratissima prosa della Egan riesce a orchestrare con un sapiente dosaggio lungo tutto il romanzo, il quale assume in un certo senso la forma di un complesso mosaico in cui ogni pezzo rimanda, con una sorta di inevitabile necessità, a un altro tassello vicino, e questo a un altro ancora, con un affascinante effetto domino il cui esito è un universo sì autoreferenziale, in cui però è estremamente naturale da parte del lettore rispecchiarsi. Tale era l’appeal di personaggi come Bennie, Sasha, Lou, Dolly o Bosco che deve essere sembrato naturale alla scrittrice di Chicago dar loro un ulteriore sviluppo, seguirli ancora un po’ nelle loro traiettorie esistenziali. A eliminare ogni effetto nostalgia è però il predominio diegetico acquistato dalle nuove generazioni, personaggi che non fanno rimpiangere, dal punto di vista narrativo, i loro progenitori. Alcuni di loro sono costruiti in maniera esemplare, con una poliedrica complessità e una affascinante problematicità (come Alfred, ossessionato dall’autenticità a tal punto da cercare di provocarla inducendo negli altri, con le sue immotivate urla in pubblico, reazioni di profondo disagio, o Molly, con il suo costante assillo di stare con gente “cool” e la paura adolescenziale di non venire accettata, di essere scartata) tali da renderli tra i più interessanti caratteri scaturiti dalla letteratura contemporanea.
Lo schema narrativo de “La casa di marzapane” è in fondo lo stesso de “Il tempo è un bastardo”: ogni capitolo è appannaggio di un personaggio diverso, normalmente apparso come figura secondaria in uno dei capitoli precedenti, con l’uso ora della prima ora della terza persona singolare (ma, nel brano riservato a Lulu, persino della seconda persona plurale), e i singoli capitoli, ambientati in epoche diverse (si va suppergiù dal 1965 al 2035, con un fugace accenno addirittura al 2070), potrebbero anche essere letti come racconti a se stanti, senza per questo perdere nulla del loro fascino. Oltre alla cronologia e al punto di vista, a differenziare le varie parti del romanzo è poi lo stile, che cambia a seconda dei personaggi: nel capitolo dedicato a Chris, il suo lavoro di programmatore fa sì che ogni situazione che si trova a vivere venga inconsciamente trasformata in una formula algebrica, in un algoritmo; la storia spionistica di Lulu è scritta interamente come una serie di messaggi e di istruzioni operative della lunghezza di un “tweet”; “Vedi sotto” è invece composto di sole e-mail, una sorta di rivisitazione contemporanea del romanzo epistolare di una volta. A distinguere maggiormente “La casa di marzapane” dal suo illustre predecessore è invece la sua atmosfera. Se “Il tempo è un bastardo” era una profonda e originale riflessione sul tempo e sul fatto che il trascorrere degli anni tende a far emergere impietosamente lo scarto nei confronti dei sogni e delle aspettative della propria giovinezza, l’ultima opera della Egan è in apparenza meno pessimistica (alla fine Lulu si riconcilia con il padre famoso che era scomparso precocemente dalla sua vita, Gregory supera il suo paralizzante blocco dello scrittore, Lincoln sposa, nonostante il suo autismo, la ragazza di cui si è innamorato, Miles, dopo aver perfino tentato il suicidio, si lancia con successo nella carriera politica), ma dietro a tutte le sue storie di caduta e di redenzione c’è il sottile, subdolo sospetto che l’umanità abbia dovuto accettare una sorta di patto faustiano per riuscire a realizzare la propria felicità, ed in questo diabolico accordo abbia perso irrimediabilmente la propria anima.
A conclusione di queste riflessioni, ritengo di poter affermare che, per tutti coloro che hanno amato “Il tempo è un bastardo”, “La casa di marzapane” sia un libro davvero imprescindibile: pur essendo bandita ogni vieta nostalgia, pur non essendoci alcun facile ricorso alla serialità oggi così tanto di moda, la presenza di personaggi a cui ci si era affezionati garantisce un effetto di confortevole familiarità. Per quelli che invece quell’opera non l’hanno mai letta, è l’occasione ideale per scoprire un talento narrativo genuino e anticonvenzionale, una scrittura in grado di riportare in auge un genere che mi verrebbe da definire “postmodernismo 2.0”, uno stile che a tratti (il capitolo “i, il Protagonista”, ad esempio ) mi ha ricordato il miglior Wallace, pur essendo profondamente personale, e una visione che, benché proiettata nel futuro, non si crogiola mai nella distopia, ma propone, senza bisogno di parallelismi e di metafore, una efficace chiave di lettura per interpretare il nostro complicato e confuso tempo presente.

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"Il tempo è un bastardo" di Jennifer Egan
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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    03 Giugno, 2022
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Omicidi in collegio

Jazmine Hunter-Coughlin, per gli amici Jazz, per i colleghi londinesi, invece, detective ispettrice Hunter, sta faticosamente rimettendo assieme i pezzi della sua vita. Tradita dal marito, poliziotto pure lui, che aveva una relazione con una collega più giovane, ha piantato tutti e tutto, s’è fatta un lunghissimo viaggio in Italia e, poi, s’è trasferita a Norwich con l’intenzione di lasciare per sempre la polizia. Qui la raggiunge il suo (ex?) capo che la prega di accettare un ultimo caso (proprio lì, nel Norfolk), almeno per fare una prova, prima di confermare definitivamente le dimissioni.
Un ragazzo è stato trovato morto a Fleat House, apparentemente per cause naturali, ma conviene andare a fondo nella questione, visto che Charlie Cavendish era figlio e nipote di autorevoli personaggi del Regno Unito che vogliono vederci chiaro.
Fleat House è un pensionato studentesco collegato alla St. Stephen School. Si tratta di una cupa e cadente residenza in cui il passato, anche macabro, sembra ancora aleggiare tra i vecchi muri. Lì, nella sua camera, Charlie sarebbe morto per shock anafilattico: era allergico all’aspirina. Tuttavia, perché il ragazzo ha ingoiato due pasticche di ciò che per lui era veleno, invece di assumere le solite compresse per il controllo dell’epilessia? E se le pillole gli fossero state sostituite dolosamente?
A complicare la faccenda, un paio di giorni dopo, viene trovato morto, suicida, il prof. Hugh Daneman, uno dei responsabili della residenza studentesca, uno dei pochi che avrebbe potuto sostituire le pillole di Charlie. Scavando tra i segreti della scuola si scopre pure che il giovane Cavendish era un bullo che terrorizzava i ragazzini più piccoli, uno in particolare, Rory Millar, il cui padre, prima stimato broker londinese, a seguito di una serie di traumi (licenziamento, divorzio, alcolismo) è divenuto instabile e, forse, pericoloso. Ma possono esserci pure altri moventi: rancori non sopiti, intrighi familiari, segreti inconfessabili e antiche rivalità che animano i vari protagonisti della storia.
Ai problemi professionali Jazz dovrà aggiungere quelli personali: la casa da ristrutturare, il padre anziano e invalido con una salute fragilissima, l’ex marito che ritorna a pressarla insistentemente perché tornino insieme. Insomma un vero caos: riuscirà a venire a capo di tutto?

Lucinda Riley è stata una famosa scrittrice di romanzi storico-sentimentali e questo libro, scritto nel 2006 e mai uscito dal cassetto sino alla sua morte, avvenuta l’anno scorso, è la sua prima e unica prova nel campo dei thriller e polizieschi. In tutta onestà, questo fatto traspare abbastanza dalla lettura. Si nota, infatti, come la scrittrice si trovi più a suo agio quando si occupa della sfera emotiva e familiare della protagonista. In quegli episodi, che rubano spazio alla vicenda principale senza tanto contribuire a dar maggior spessore ai personaggi, si percepisce una migliore attenzione e partecipazione, forse pure con schegge di esperienze autobiografiche. La storia poliziesca, invece, è abbastanza convenzionale, non mal scritta, anzi, ma ingessata entro uno schema già troppo spesso utilizzato: la scuola inglese con i suoi rigidi rituali nei seriosi palazzi vittoriani cupi e vagamente minacciosi; fugaci apparizioni di sagome che scrutano dalle finestre; oscuri intrecci familiari e segreti gelosamente custoditi che ammorbano i rapporti tra le persone; una lenta indagine alla Miss Marple (non a caso più volte evocata dai protagonisti) che si scontra con reticenze e omertà di casta. Insomma, nel romanzo possono trovarsi quasi tutti i cliché del genere. Anche l’epilogo non sorprende più di tanto.
Il collage che se ne ottiene è un racconto ben articolato e con un giusto ritmo che mostra come l’A. abbia piena padronanza delle varie tecniche letterarie e delle regole per tener vivo l’interesse del lettore. Tuttavia in me non è scoccata quella scintilla che spinge a divorare le pagine una dopo l’altra. Anzi, sul finire, sono subentrati pure un po’ di stanchezza e un recondito desiderio di arrivare il più presto possibile alla conclusione. Ciò, nonostante i periodici colpi di scena e i cliffhanger che scandiscono abilmente la narrazione. Non contribuisce ad accrescere il piacere della lettura la lunghezza del testo, quasi 500 pagine (troppe per un thriller tutto sommato monotematico) e le frequenti digressioni dalla vicenda principale.
In definitiva ne è uscito un libro di discreto interesse, ben costruito e pensato, ma sicuramente migliorabile. A questo punto dispiace che il figlio dell’A., che ne ha curato la pubblicazione, abbia ritenuto di non poter o voler mettere mano al testo della madre in una operazione di editing che, probabilmente, avrebbe migliorato l’opera, evitando alcuni scivoloni logici e, soprattutto, rendendola più agile e scorrevole.

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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    03 Giugno, 2022
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Un caso come tanti

Se un lettore volesse star dietro a tutte le serie di romanzi che la letteratura ci propone al giorno d’oggi, non gli basterebbe un secolo per seguirle tutte. Una di queste è quella creata da Joël Dicker e il suo Marcus Goldman, che fa il proprio esordio in quel romanzo di strepitoso successo che è “La verità sul caso Harry Quebert”, che ha spammato i nostri social, le librerie e le televisioni per un tempo davvero lunghissimo. Dunque un ritorno del protagonista era assolutamente annunciato (e in fondo già avvenuto con “Il libro dei Baltimore”) ed ecco che ci si ripresenta con “Il caso Alaska Sanders”, probabilmente il secondo di una lunga serie di casi che Joël Dicker è deciso a regalare ai propri lettori.
Ma vale la pena leggere questo romanzo? Certo la narrazione scorre facilmente, è un libro che come ogni buon thriller si lascia leggere e ci porta nell’intricata rete delle indagini che hanno al centro l’omicidio di Alaska Sanders, giovane modella e aspirante attrice uccisa oltre dieci anni prima della timeline del romanzo. Goldman, in qualche modo, rivangherà questo omicidio e porterà alla luce come, probabilmente, di questo delitto siano stati puniti ben due innocenti. Fato vuole che ad occuparsi del caso, all’epoca, era Perry Galahowood: questo permette all’autore di riformare una coppia che funziona e unirla definitivamente per i casi a venire, finché morte non li separi. In certi tratti, tuttavia, ho notato più di una forzatura: i testimoni vengono interrogati tantissime volte, perché ogni volta si inventano una balla diversa e gli investigatori devono tornare da loro e dirgli di smetterla di fare i cattivi, altrimenti finisce male; molti elementi dell’indagine si incastrano troppo a fagiolo, in modo che l’intricata rete dell’assassino possa reggersi in piedi, e quando questa si sbroglia si rivelano nella loro artificiosità.
Il racconto non ha nulla di troppo originale, è un omicidio come lo si può ritrovare in tantissime altre serie thriller e questo forse influisce sulla curiosità del lettore, che seguirà sì il dipanarsi degli eventi ma sarà trascinato avanti semplicemente dalla voglia di scoprire il colpevole e senza molti altri interrogativi. Ma un omicidio è un omicidio, mi direte, cosa può inventarsi un autore a riguardo? Guardate la prima stagione di True Detective, e poi ne riparliamo. Vi dico solo una cosa: i dettagli. Quello di Alaska Sanders è una storia come tante altre, che è piacevole ma non riesce a spiccare nel panorama del genere, in cui più che distinguersi per originalità e cercare di raccontare qualcosa che possa elevarsi al di sopra degli altri sembra che gli autori si limitino a trovare la formula che funziona meglio, quella che può accalappiare il maggior numero di persone, e una volta ogni uno-due anni sfornare un libro nuovo con cui tenerli occupati. Joël Dicker non mi sembra faccia eccezione.
Sarò troppo severo? Forse lo sono. Il thriller è in fondo qualcosa con cui passare il tempo, e non è certo da biasimare un autore che decide di dedicarvisi. È vero, ma ci sono alcuni autori che riescono a trascendere il genere a cui appartengono e raggiungere vette più alte: penso a King per l’horror, a Ray Bradbury e Stanislaw Lem per la fantascienza… chi si offre per trascendere il genere del thriller? Ci è riuscito Nic Pizzolatto, ma con una serie tv… attendiamo la svolta letteraria.

“Apparenze, scrittore. Le apparenze sono il collante della nostra vita sociale. Ma nell’intimità delle nostre case, tutto crolla.”

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ornella donna Opinione inserita da ornella donna    03 Giugno, 2022
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Il mistero case Marsi

Giampaolo Simi, soggettista e sceneggiatore, è autore della fiction “Nero a metà”. Con Sellerio ha pubblicato Cosa resta di noi, La ragazza sbagliata, Come una famiglia, I giorni del giudizio e Rosa elettrica . Ora torna sempre con Dario Corbo ne Senza dirci addio, un giallo oscuro, ricco di atmosfera e di mistero.
Dario Corbo, ex cronista di nera, è in crisi familiare: con la sua e moglie Giulia non fa che litigare, e con suo figlio Luca devono affrontare un processo che vede quest’ultimo commettere un atto grave, che gli segna la vita, per il quale dovrà pagare un alto costo giudiziario. Ma una sera riceve una notizia inaspettata: Giulia viene trovata morta in un campo investita da un camioncino bianco. Chi ha potuto commettere un atto del genere? E’ un incidente o un omicidio? Ci sono alcuni punti oscuri che Dario , in ricordo della moglie e per cercare di placare almeno un po’ il dolore del figlio, decide di approfondire. Anche senza l’aiuto dei Carabinieri, che brancolano totalmente nel buio.
In primo il luogo in cui è avvenuto il fatto: un ambiente sinistro dove molti anni prima è avvenuto un avvenimento tanto oscuro , quanto sinistro, passato alla storia come “il caso delle Case Marsi”:
“ci sono delle stranezze. Prima fra tutte l’idea di Ivan Dardano di rapinare proprio la casa di un carabiniere, uno che almeno una pistola in casa ce l’ha. Chi fa questo genere di lavoretti studia, si informa, si prepara … (…) e l’ultimo posto dove tenere gioielli o contanti. Comunque sia niente mi suona più fasullo di una rapina in casa di un carabiniere.”
Riuscirà Dario a venirne a capo? A che prezzo?
Un giallo nero, ricco di colpi di scena, con una trama ben organizzata e ben pensata.
La prosa è fluida, e ricca di una sottile ironia che conferisce al romanzo un tocco di apprezzamento in più. E’ una storia nella storia, dove i personaggi sono ben descritti al punto di immaginarli in carne ed ossa, e la parte dialogata è in perfetto equilibrio con la prosa. Un giallo di qualità per uno scrittore che riconferma ancora una volta il suo talento.

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Romanzi
 
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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    01 Giugno, 2022
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Manca qualcosa

Questo romanzo di Flanagan contiene tanti temi importanti e interessanti, ma manca di qualcosa. Intanto manca di omogeneità: nello stille, nelle tematiche, nella definizione dei personaggi, nell’essere-non essere onirico o surreale. Lo è in parte e mai abbastanza, per cui risulta un’accozzaglia di cose male amalgamate.
Per esempio nelle prime pagine c’è una stranezza stilistica che poi viene accantonata per una scrittura tradizionale.
“Me-merdosissime prigioni fi-fi-fingono festa fendendo le onde di Hobart sembra il paese dei balocchi vogliono tutti avere sette anni? Sì no chissà
Il tema: sembrerebbe la morte e l’accompagnamento alla morte con le sue problematiche (accanirsi nelle cure o lasciar andare?) per virare all’ambiente e al senso della vita e delle cose.

Oppure i personaggi: c’è la madre moribonda Francie con i tre figli Anna, Tommy e Terzo. Tommy è definito schizofrenico nelle prime pagine ma fa i discorsi più sensati ed è lui ad accudire la madre e ad avere con lei il rapporto più empatico. Poi è il figlio di Tommy ad essere definito schizofrenico ma lo troviamo al capezzale della nonna mano nella mano come una persona affidabilissima. Poi è Anna che vede sparire parti del suo corpo. I temi sono tanti, forse troppi: la morte, l’accanimento terapeutico, il senso della vita, il rapporto uomo-ambiente, i rapporti famigliari. Ci sono gli incendi che hanno afflitto quella parte del mondo. Un’ornitologa Lisa Shahn piomba sul finale del romanzo quasi dal nulla. Tanti argomenti anche interessanti ma sorvolati. La chiusa surreale che si impianta su una storia non abbastanza surreale e che resta un po’ a sé. Come l’idea di Anna di lasciare il lavoro per fare altro che cade come fulmine a ciel sereno sul lettore. O il suicidio del fratello più pragmatico ipotizzato dal niente dei suoi discorsi. Mi pare un minestrone di tante cose poco amalgamate che fatica ad avere uno stile definito e una personalità.
A me piace molto il surreale e anche le tematiche impegnate, o l’inserimento di dettagli irrealistici in una trama realistica come fa Bolano. Ma a questo romanzo manca qualcosa. Non ha spina dorsale, non ha una personalità sua definita e anche se lo stile come proprietà di linguaggio è buono, poi però si perde in mille rivoli. Non riesco a cogliere la profondità e la poesia e l’impegno che vorrebbe avere. Manca di qualcosa che si è cancellato come è successo al corpo di Anna. Andava ripensato meglio e integralmente.

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