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Delitti a Fleat House
 
Delitti a Fleat House 2022-06-03 16:34:40 FrancoAntonio
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3.8
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
4.0
FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    03 Giugno, 2022
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Omicidi in collegio

Jazmine Hunter-Coughlin, per gli amici Jazz, per i colleghi londinesi, invece, detective ispettrice Hunter, sta faticosamente rimettendo assieme i pezzi della sua vita. Tradita dal marito, poliziotto pure lui, che aveva una relazione con una collega più giovane, ha piantato tutti e tutto, s’è fatta un lunghissimo viaggio in Italia e, poi, s’è trasferita a Norwich con l’intenzione di lasciare per sempre la polizia. Qui la raggiunge il suo (ex?) capo che la prega di accettare un ultimo caso (proprio lì, nel Norfolk), almeno per fare una prova, prima di confermare definitivamente le dimissioni.
Un ragazzo è stato trovato morto a Fleat House, apparentemente per cause naturali, ma conviene andare a fondo nella questione, visto che Charlie Cavendish era figlio e nipote di autorevoli personaggi del Regno Unito che vogliono vederci chiaro.
Fleat House è un pensionato studentesco collegato alla St. Stephen School. Si tratta di una cupa e cadente residenza in cui il passato, anche macabro, sembra ancora aleggiare tra i vecchi muri. Lì, nella sua camera, Charlie sarebbe morto per shock anafilattico: era allergico all’aspirina. Tuttavia, perché il ragazzo ha ingoiato due pasticche di ciò che per lui era veleno, invece di assumere le solite compresse per il controllo dell’epilessia? E se le pillole gli fossero state sostituite dolosamente?
A complicare la faccenda, un paio di giorni dopo, viene trovato morto, suicida, il prof. Hugh Daneman, uno dei responsabili della residenza studentesca, uno dei pochi che avrebbe potuto sostituire le pillole di Charlie. Scavando tra i segreti della scuola si scopre pure che il giovane Cavendish era un bullo che terrorizzava i ragazzini più piccoli, uno in particolare, Rory Millar, il cui padre, prima stimato broker londinese, a seguito di una serie di traumi (licenziamento, divorzio, alcolismo) è divenuto instabile e, forse, pericoloso. Ma possono esserci pure altri moventi: rancori non sopiti, intrighi familiari, segreti inconfessabili e antiche rivalità che animano i vari protagonisti della storia.
Ai problemi professionali Jazz dovrà aggiungere quelli personali: la casa da ristrutturare, il padre anziano e invalido con una salute fragilissima, l’ex marito che ritorna a pressarla insistentemente perché tornino insieme. Insomma un vero caos: riuscirà a venire a capo di tutto?

Lucinda Riley è stata una famosa scrittrice di romanzi storico-sentimentali e questo libro, scritto nel 2006 e mai uscito dal cassetto sino alla sua morte, avvenuta l’anno scorso, è la sua prima e unica prova nel campo dei thriller e polizieschi. In tutta onestà, questo fatto traspare abbastanza dalla lettura. Si nota, infatti, come la scrittrice si trovi più a suo agio quando si occupa della sfera emotiva e familiare della protagonista. In quegli episodi, che rubano spazio alla vicenda principale senza tanto contribuire a dar maggior spessore ai personaggi, si percepisce una migliore attenzione e partecipazione, forse pure con schegge di esperienze autobiografiche. La storia poliziesca, invece, è abbastanza convenzionale, non mal scritta, anzi, ma ingessata entro uno schema già troppo spesso utilizzato: la scuola inglese con i suoi rigidi rituali nei seriosi palazzi vittoriani cupi e vagamente minacciosi; fugaci apparizioni di sagome che scrutano dalle finestre; oscuri intrecci familiari e segreti gelosamente custoditi che ammorbano i rapporti tra le persone; una lenta indagine alla Miss Marple (non a caso più volte evocata dai protagonisti) che si scontra con reticenze e omertà di casta. Insomma, nel romanzo possono trovarsi quasi tutti i cliché del genere. Anche l’epilogo non sorprende più di tanto.
Il collage che se ne ottiene è un racconto ben articolato e con un giusto ritmo che mostra come l’A. abbia piena padronanza delle varie tecniche letterarie e delle regole per tener vivo l’interesse del lettore. Tuttavia in me non è scoccata quella scintilla che spinge a divorare le pagine una dopo l’altra. Anzi, sul finire, sono subentrati pure un po’ di stanchezza e un recondito desiderio di arrivare il più presto possibile alla conclusione. Ciò, nonostante i periodici colpi di scena e i cliffhanger che scandiscono abilmente la narrazione. Non contribuisce ad accrescere il piacere della lettura la lunghezza del testo, quasi 500 pagine (troppe per un thriller tutto sommato monotematico) e le frequenti digressioni dalla vicenda principale.
In definitiva ne è uscito un libro di discreto interesse, ben costruito e pensato, ma sicuramente migliorabile. A questo punto dispiace che il figlio dell’A., che ne ha curato la pubblicazione, abbia ritenuto di non poter o voler mettere mano al testo della madre in una operazione di editing che, probabilmente, avrebbe migliorato l’opera, evitando alcuni scivoloni logici e, soprattutto, rendendola più agile e scorrevole.

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