Il disertore Il disertore

Il disertore

Letteratura italiana

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Uscito nel 1961, Il disertore di Giuseppe Dessì è considerato una delle sue prove più mature. Al di là dell'esperienza umana del protagonista - un disertore della Grande Guerra - emergono il contrasto/conflitto fra la morale individuale e il senso del dovere, ricorrente nelle situazioni belliche, e il ritratto di certo ambiente sardo d'inizio secolo, diviso fra l'adesione al patriottismo della Nazione e l'attaccamento alla famiglia e alla cultura degli avi.



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Il disertore 2017-11-20 20:32:15 Laura V.
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    20 Novembre, 2017
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Silenzio…

È lui, secondo me, il principale protagonista di questo romanzo: il silenzio.
Quello che avvolge e scende dalla montagna, che grava spietato sui personaggi, che incombe indifferente sulle vicissitudini umane.
E di silenzio è fatta la straordinaria figura di madre che, seppur minuta e pressoché anonima nel suo abito di lutto perenne, campeggia tra queste pagine con il proprio muto dolore più assordante di tanti inutili discorsi. A lei, Mariangela, riuscito esempio di mater dolorosa, si contrappone la figura di prete Coi che, invece, in quella dimensione volutamente orfana di parole ci sta stretto e cerca allora di spezzarla, convinto che sia possibile; ma anche lui a quel silenzio si dovrà piegare, convincendosi che, alla fine, sia meglio tacere.
Mi è tornata alla mente la madre dell’omonimo romanzo di Grazia Deledda: una figura anch’essa imponente e tragica, scaturita dalla penna del nostro Premio Nobel meno di cinquant’anni prima. Tuttavia, quella de “Il disertore” è ancor più evocativa, ancor più impressionante, forse proprio per via di quel dolore silenzioso e composto che riempirà la vita della donna fino all’ultimo dei suoi giorni e serberà in eterno il suo segreto. Già, perché il silenzio sarà tutto ciò che infine resterà, al di là del tempo, nella vecchia capanna sul monte, custode di una tomba, così come per le vie polverose e inquiete del piccolo paese attorno al monumento ai caduti che, dopo tanto vacuo parlare, strepitare, urlare sarà esso stesso silenzio, profondo silenzio.
Sullo sfondo la Sardegna dell’immediato primo dopoguerra, della quale l’autore, da buon isolano, non si dimentica nei lunghi anni trascorsi nel continente: un’isola con le sue realtà, agropastorale e mineraria, le sue tensioni sociali, gli scontri tra rossi e neri, l’avanzata del fascismo a suon di bastonate e olio di ricino.
Un piccolo capolavoro con cui Dessì, del quale già avevo letto e apprezzato moltissimo il più famoso “Paese d’ombre”, si conferma un grande narratore. E anche una lettura ricca di spunti di riflessione - manco a farlo apposta - a cent’anni dalla Grande guerra.

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Il disertore 2016-05-21 14:53:26 Cristina72
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Cristina72 Opinione inserita da Cristina72    21 Mag, 2016
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Cutrettola

“Per lunga pratica don Pietro Coi era avvezzo a leggere nei pensieri degli altri: i pensieri più semplici, che non trovano la via delle parole”.
Le emozioni più profonde in questo breve romanzo sono quasi tutte in filigrana, mentre la trama si snoda sui fatti di Cuadu, piccolo centro rurale che conta tra i suoi abitanti settantatré caduti della Grande Guerra. Tra questi, i due figli di Mariangela Eca, vecchia contadina che tiene chiuso in sé un dolore senza conforto.
Resta impressa la figura minuta di questa donna, col suo odore di fumo, che torna dalla montagna con la sua tipica andatura trotterellante (“madixedda”, cutrettola, la chiamava il figlio) portando in testa un fascio di legna.
Infastidita dai discorsi pomposi di chi, già con spirito fascista, esalta il sacrificio dei suoi figli morti per la patria, Mariangela trova requie solo nel silenzio, come una creatura selvatica ferita a morte, e don Pietro, viceparroco del paese, pur biasimando l'atteggiamento rigido della donna in qualche modo lo condivide (e si vedrà nel corso della narrazione fino a che punto).
Malgrado dubbi e tormentose riflessioni, che lo scrittore espone con una qualità stilistica simile a quella dei grandi romanzieri russi, don Pietro è guidato da un senso del giusto che si contrappone sia alle leggi del Governo in carica che a quelle della Chiesa, e protegge un disertore dato per disperso in battaglia, figlio maggiore di Mariangela, custodendone il segreto di un omicidio commesso nel corso di un'azione bellica:
“La colpa è di chi vuole la guerra, di chi non sa evitare la guerra”.
Così il prete dal piglio schietto di contadino finirà per adempiere le ultime volontà “profane” di un pastore di capre che grazie a sapienti flashback rivediamo docile e allegro davanti all'ovile mentre lavora il formaggio, così diverso dal “disertore”, uomo cupo e aggressivo, divorato dalla febbre e dal rimorso.
Emblematici, alla fine, i due diversi “monumenti” ai soldati caduti: uno, solenne, eretto con grandi cerimonie nella piazza del Municipio, l'altro, quello del soldato disubbidiente, protetto per sempre dal silenzio della montagna, sepoltura segreta in un vecchio ovile circondato da lumini:
“Continuò, per il resto dei suoi giorni, a portare fasci di legna dal monte...”.

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Il disertore 2016-02-18 14:40:51 Renzo Montagnoli
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    18 Febbraio, 2016
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Silenzio, solo silenzio

Dopo aver letto lo splendido Paese d’ombre ho deciso che era necessario conoscere meglio questo autore sardo che tanto mi ha stupito per le indubbie eccelse qualità letterarie, onde anche verificare che quella non fosse da considerarsi un’opera unica e fortunata. È così che ho reperito, non senza difficoltà, Il disertore (e mi sto ancora chiedendo come sia possibile che noi italiani ci dimentichiamo i lavori di artisti così grandi, spesso andando a preferire altri, magari accattivanti, ma senz’altro qualitativamente inferiori).
È questo un romanzo più breve, ma più complesso, scritto nel solito italiano perfetto, senza tanti fronzoli, per nulla dispersivo, anzi intenso in ogni frase. Non sto a raccontare la vicenda, di indubbia originalità, con questa povera madre che ha perso gli unici due figli nel corso della prima guerra mondiale che, nella trama, è finita da poco tempo. In verità caduto in combattimento è solo il più vecchio, mentre il più giovane, dato per disperso, ha invece disertato e arrivato, fra mille traverse, nella sua isola va a morire nella capanna in montagna dove lavorava il latte degli ovini.
Il conflitto, quell’enorme mattanza, ha lasciato i suoi segni e il sangue dei morti si è riversato inesorabile sui vivi; in tanti hanno perso un familiare, in troppi c’è una sofferenza che con il tempo s’indebolirà, ma in una madre che è stata privata delle sue due uniche creature, una povera donna in tutti i sensi, si è aperto un tempo senza futuro, una lenta silenziosa agonia in cui il dolore regna sovrano; ci sono poi quelli che hanno sperato in un mondo più giusto, che si sono illusi con le false promesse e che, sulla scorta del successo della rivoluzione bolscevica, reclamano quei diritti sempre a loro negati e inoltre c’è una classe reazionaria che intende mantenere a ogni costo i suoi privilegi, ricorrendo anche alla forza e appoggiando apertamente il nascente fascismo; e infine, in contrapposizione a coloro che soffrono in silenzio i loro caduti, ci sono quelli che vogliono ricordarli pubblicamente, dando vita a cerimonie e monumenti pasciuti di quella retorica che è sempre foriera di nuovi conflitti. In questo scenario, fra scontri di piazza, non solo verbali, tanto che ci scappa anche il morto, ci sono tre personaggi di grande umiltà che danno vita al racconto: la madre dei due figli caduti, Mariangela Eca, una donna che sembra un’ombra, Don Pietro Coi, viceparroco del paese, un sacerdote scomodo, perché non allineato con i potenti, e il dottor Urbano Castai, medico di un altro villaggio, amico dall’infanzia con il prete, persona capace nella sua professione, uomo libero e indipendente, e perciò visto come strano o addirittura come anarchico. Ognuno dei tre ha un ben preciso ruolo: la prima, la donna, è il ritratto dell’intenso dolore rappresentato dal suo silenzio, il secondo è l’uomo di fede tormentato da un dubbio irrisolvibile (infatti ha assistito il disertore morente, ne ha raccolto anche la confessione, con grande senso di pietà non solo come religioso, ma anche come essere umano e continua a chiedersi se ha fatto bene a non denunciarlo, un obbligo derivante dall’appartenenza allo stato); il terzo, il medico, nulla sa dell’uomo che ha disertato, ma lo intuisce e lo aiuta. Sono tre personaggi emblematici di tre esseri umani che sanno di avere una coscienza, che sono disposti a correre dei rischi per non andare contro questa coscienza, che non conosco alternative, mosse politiche o altro, perché hanno nell’animo quella fiammella che li distingue dalle bestie e inoltre, per loro natura, sono pacifici e di conseguenza, anche se non esplicitamente, aborrono la guerra,
Quindi, come nel caso di Paese d’ombre, i piani di lettura sono più d’uno, anche se nel caso specifico la ricerca intimistica è prevalente.
Sono cessati i fragori dei cannoni, gli strepitii delle armi, per chi se n’è andato, per chi è caduto sul campo di battaglia deve restare solo il silenzio a fronte di roboanti commemorazioni che pretendono di rendere collettivo un dolore che può essere solo individuale.
Nell’assenza di suoni e rumori che chiude il libro si viene vinti dalla commozione, si resta un poco assorti nel pensare alle vittime di quella carneficina e anche noi apprezziamo cosa è il valore e il significato di quel silenzio.
Imperdibile.

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Paese d'pmbre, di Giuseppe Dessì
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Il disertore 2015-10-20 03:53:11 siti
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siti Opinione inserita da siti    20 Ottobre, 2015
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In tempo di guerra e in tempo di pace

Tra le opere che trattano della Grande Guerra è molto utile segnalare al lettore attento questo scritto di Giuseppe Dessì, autore sardo nato a Cagliari nel 1909, un’adolescenza trascorsa però alle pendici del monte Linas, precisamente a Villacidro, paese che con la Fondazione omonima ne mantiene vivo il ricordo, lo studio delle opere e l’organizzazione di un premio letterario giunto alla sua XXX edizione.
Questo romanzo breve venne pubblicato da Feltrinelli nel 1961 e successivamente anche da Mondadori, oggi è fuori catalogo , chi è interessato alla lettura del cartaceo può ricercare il volume fra i tipi di Ilisso, casa editrice nuorese.
Al centro dello scritto è la piccola comunità di Cuadu (Villacidro) agli inizi degli anni venti quando il ricordo della guerra è ancora così vivo da generare non solo l’iniziativa di erigere un monumento ai caduti del paese, ma anche una serie di moti dell’animo e dell’intelletto che sfociano nel mare magnum dell’istituzione di nuovi partiti politici (Psd’az.) , del dissenso nutrito da rivendicazioni di carattere sociale ( il bienno rosso con protagonisti i minatori del Sulcis già trucidati in una sanguinaria repressione nel 1904 nei moti di Buggerru) e del prevalere della violenza e dei privilegi attraverso l’istituzione dei Fasci di combattimento e l’avvento del fascismo stesso.
La storia nazionale è alimentata da quella regionale, non viceversa. Qui a noi interessa evidenziare il piccolo fenomeno sociale , mirabilmente rappresentato da Dessì, che concorre a innescare le stesse dinamiche che in ambito nazionale portarono al periodo oscuro successivo.
Mariangela Eca è una madre chiusa nel suo dolore privato: ha perso i suoi due figli in guerra e la retorica del ricordo e della celebrazione mal si sposano col suo sentimento più vicino alle parole “inutile strage”, impronunciabili. Vive vicino alla casa del viceparroco Don Pietro Coi e ne è la sua domestica da una ventina d’anni, lo vorrebbe fare a titolo gratuito per sdebitarsi col prete ai suoi occhi capace a suo tempo di curargli il figlioletto col potere della preghiera, e non accetta retribuzione che però regolarmente il sacerdote le versa in un libretto di risparmio. Saranno questi soldi, ormai ingente somma , a muovere l’azione di questa mater dolorosa la quale deciderà di devolverli per la costruzione del monumento funebre, innescando però all’interno della comunità delle dinamiche latenti che porteranno al conflitto aperto tra le varie parti sociali. Progressivamente, attraverso l’uso sapiente della tecnica della focalizzazione, verranno alternati i punti di vista della donna e del sacerdote che lentamente contribuiranno, anche tramite ampie analessi, a scoprire quale vero rapporto leghi i due.
La scrittura asciutta, tersa e limpida arriva più volte al cuore ed è capace di emozionare delicatamente. Poche righe, niente fronzoli e un realismo pungente animano le pagine migliori sulla scia di un debito artistico evidente e riconducibile al Lussu di “Un anno sull’altipiano” e di “Marcia su Roma”, debito non solo letterario ma umano e di pensiero considerato che il messaggio che lascia questo scritto è profondamente pacifista. Il disertore e il fenomeno della diserzione sono l’altro importante punto di frattura, contribuisce ad alimentare il secondo piano della narrazione attraverso l’accostamento all’humus culturale della latitanza da bandito,suscita la riflessione sul potere e sul delicato equilibrio su cui si fonda la legge in tempo di guerra e in tempo di pace.

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Emilio Lussu, Un anno sull'altipiano, Marcia su Roma
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