Maigret
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Il pensionato Maigret
Questo ventesimo romanzo della serie, secondo Simenon, sarebbe dovuto essere l’ultimo in quanto l’autore belga era intenzionato a proseguire la sua attività letteraria dedicandosi esclusivamente ai “romanzi duri” senza quindi dare ulteriore spazio al famoso commissario.
Ovviamente (e per nostra fortuna!) questo desiderio non ha poi avuto seguito. In ogni caso il Maigret di questo libro è un ex commissario andato in pensione ritiratosi con la moglie in campagna per godersi il meritato riposo, fino a quando il nipote entrato anche lui in polizia, si affida al famoso zio per essere tirato fuori da un guaio, essendo stato incastrato in una brutta storia di vendette trasversali tra componenti di una banda criminale.
Rispetto agli altri romanzi della serie, qui Maigret ha le armi spuntate non essendo più in attività. Recalcitrante nel dovere per forza tornare a Parigi (“Ma non era certo un Maigret pieno di entusiasmo. E neppure sicuro di sé. Per ben due volte si era girato a guardare la sua casetta che scompariva in lontananza”), una volta nella capitale dimostra comunque di non avere perso il suo buon fiuto. Sa esattamente come muoversi, che posti frequentare, facendo emergere il suo inimitabile talento nell’osservare le persone (“Il commissario studiava il suo interlocutore con la stessa passione che sempre metteva nella conoscenza di tutto ciò che era umano”).
Mirabile il confronto diretto con il capo banda, il mandante di più omicidi, nel quale pur non essendo in servizio dimostra di sapere mettere a frutto anni di interrogatori conducendo allo svelamento dei fatti. Come sempre Simenon delizia il lettore non solo con una storia altamente introspettiva ma anche con le atmosfere a cui ci ha abituati: locali notturni, ambigui pieni di un’umanità caratteristica.
Indicazioni utili
L'importante è finire
Doveva essere l’ultimo e lo fu, seppure solo per cinque anni. Per suggellare le avventure del suo ormai ingombrante personaggio, Simenon sceglie il titolo eponimo e immagina Maigret già in pensione e impegnato soprattutto ad andare a pesca in quel di Meung, sulle rive della Loira. Una notte, il tranquillo tran-tran viene sconvolto dal nipote: giovane poliziotto a Parigi, è accusato di aver ucciso il padrone (un prestanome, come si scoprirà ben presto) del locale che era incaricato di sorvegliare. Di malavoglia, lo zio ritorna in città e, sfruttando gli appoggi che ha ancora in polizia malgrado le inevitabili gelosie, riesce a ristabilire la verità. Le modalità sono le solite – molto spirito di osservazione, testardaggine al limite del masochismo (Maigret resta seduto allo stesso tavolo di un bistrot per un infinito numero di ore) e alcune brillanti intuizioni – ma l’indagine svolta nell’ambiente della piccola criminalità parigina che sfrutta prostituzione, spaccio e locali equivoci segue un percorso diverso dal solito: non c’è la caccia a un assassino misterioso bensì il lungo lavorio necessario per spingere alla confusione l’evidente colpevole. Il piccolo e non più giovanissimo boss Cageot, detto il Notaio, viene lavorato ai fianchi con le tecniche che utilizzerebbe un tenente Colombo e infine fatto cadere in trappola in un estenuante faccia a faccia giocato tutto in punta di dialettica in cui il commissario si fa aiutare da qualche astuto sotterfugio. Il ritorno al buen ritiro è il meritato premio che serve probabilmente anche a disintossicare il fegato provato dagli abbondanti sbevazza menti al termine di un’avventura interessante, ma che procede a strappi: le stasi nell’indagini si riflettono nel ritmo della scrittura e nel complesso, se lo fosse davvero stato, si sarebbe trattato di un addio in tono minore.




























