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Le poesie di Gian Franco Magenta soddisfano il suo profondo bisogno di fermare l’attimo, di affidare all’inevitabile trascorrere del tempo ciò su cui è necessario fissare l’attenzione: un sentimento provato, una sensazione, una visione legata ad un paesaggio naturale… sprazzi di vita che il poeta Gian Franco Magenta ferma su carta in un arco di tempo di oltre quarant’anni, dal 1963 al 2004, con un salto temporale tra la penultima e l’ultima poesia di vent’anni. Impariamo tanto, tantissimo, da questa raccolta. Innanzitutto a lasciar andare il superfluo, atteggiamento sempre più difficile in un mondo “troppo pieno” che continua a “riempirsi. E poi, aspetto oggi ancora più importante, queste poesie ci fanno vedere un ritorno alla natura reale, concreto, intimo, non “sbandierato” come frutto di sensi di colpa che durano dal mattino alla sera per poi dissolversi. Sì, per un ritorno alla natura abbiamo bisogno di un’intimità che “l’ultimo viandante” ci fa davvero toccare con mano. Come scrive Laura Vargiu nell’efficacissima postfazione, «(…) alla Natura, quella più autentica, intensa e vibrante, (…) il poeta fa sempre ritorno come a un rifugio sicuro, portando con sé, ineludibili, i propri affanni, le inquietudini, gli interrogativi devastanti dell’umano vivere.»



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Ultimo viandante 2019-06-17 10:32:35 Laura V.
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    17 Giugno, 2019
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Nel silenzio della Natura

Una scrittura poetica intrisa di colori, suoni e profumi del bosco, quella di Gian Franco Magenta, nella quale ho avuto il piacere di imbattermi inaspettatamente.
È poesia lieve e delicata che sa essere però particolarmente incisiva e potente nel suo dipingere l’esistenza e partecipare “alla vita di una natura misteriosa” che, ipnotica, tiene legato a sé il cuore del Poeta.

“Io amo il bosco,/ amo la sua vita,/ il suo palpitare,/ il suo linguaggio/ muto, discreto.”

Si alternano così le frondose immagini silvane e quelle che indugiano preferibilmente, in una malinconia antica d’ombre e sfumature di luce, sul mesto finire dell’estate.

“Incombe ormai,/ il freddo sul verde./ Il cielo cinereo/ volge all’equinozio. Freme l’autunno.”

E alla Natura, quella più autentica, intensa e vibrante, carica di quieto indifferente silenzio che parla a suo modo, il Poeta fa sempre ritorno come a un rifugio sicuro, portando con sé, ineludibili, i propri affanni, le inquietudini, gli interrogativi devastanti dell’umano vivere.

“La terra non risponde al mio grido./ […] Abbraccio i ruvidi tronchi/ nella verde luce dell’amata foresta,/ cerco il sollievo nel lieve respiro/ delle foglie, ora fitte ora rade;/ chiedo ad essi di lenire il mio affanno,/ chiedo ad essi, parte del tutto,/ cosa è il mondo,/ questo essere piccolo e smisurato,/ tangibile ed inafferrabile,/ che mi solleva ed opprime,/ che mi fa paura e coraggio,/ che io penso di stringere e mi sfugge,/ che mi rende triste e contento,/ in una continua illusione,/ nel dubbio, nel tormento.”

Come sono lontani, in quell’eterna intensità di attimi, i rumori assordanti di un mondo che tra le auto in corsa, in una quotidianità ormai di lamiera e gomme, avido divora ragione e sentimenti rendendoci semplici automi, pressoché ignari della nostra essenza più profonda.
I versi spaziano malinconici sopra campi “colmi di riso”, prati rugiadosi di primavere mature o ancora acerbe, acque di fiume che elargiscono vita e morte, cieli di myosotis che si tingono d’indaco e tristezza nell’opacità della sera che, come di consueto,“stende sul mondo/ la sua veste trapunta di stelle.”
Da leggere e rileggere ascoltando il lirico palpitar delle sue parole, una silloge meravigliosa che canta dunque l’amore: per la Vita, per la propria terra, per l’amore stesso, quello più intimo che si fa inscindibile intreccio di carnalità e spirito per riflettersi nello sguardo e sul volto di chi si ama, magari tra le ombre della sera, mentre il cuore, proprio come un ultimo instancabile viandante, percorre il cammino astruso della vita che viene meno e, inevitabilmente,“si fa più fatale”.

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