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Un ghostwriter per lascito testamentario
Laust Troelsen è un professore di letteratura al liceo; frustrato e insoddisfatto del suo lavoro, al punto che, ogni anno, quando tocca con mano che ai suoi studenti non imposta nulla della letteratura danese, si sente morire dentro. In gioventù aveva provato a diventare un giallista, ma non era mai riuscito a completare neppure un romanzo, così s’era adattato a quella vita per lui squallida e priva di scopo.
In uno di quei giorni in cui è veramente depresso, tornando un po’ prima a casa dalle lezioni, farà una scoperta agghiacciante che gli cambierà la vita. Nel soggiorno di casa sua c’è il cadavere di un famosissimo scrittore di gialli, William Falk. L’uomo, che aveva appena terminato un’intervista televisiva per presentare al pubblico il sesto romanzo del suo seguitissimo ciclo “Il Pescatore”, in qualche modo era riuscito a penetrargli in casa e a spararsi in testa con una pistola.
Il dramma è che Laust conosceva bene Falk quando ancora si chiamava Jørgen Brink, erede primogenito di una ricca famiglia danese di avvocati e uomini d’affari. Dieci anni prima avevano frequentato assieme un corso estivo bandito da una casa editrice per formare nuovi romanzieri di libri polizieschi. Dopo quello stage avevano continuato a frequentarsi per circa un anno, assieme ad altri giallisti in pectore, cercando di incrementare le loro conoscenze nel settore, anche tentando esperimenti estremi, non di rado pericolosi e talvolta pure al limite dell’illegalità. In quel periodo Jørgen aveva già concepito la sua serie poliziesca e sfruttava ogni occasione per documentarsi e fare esperienze. In seguito a un evento tragico, però, i due avevano smesso di incontrarsi.
Ma, allora, perché, dopo tanti anni, Jørgen ha deciso di ammazzarsi proprio a casa sua? Ma soprattutto, perché (come scoprirà di lì a qualche giorno) lo ha designato come il successore che dovrà portare a termine la sua opera scrivendo l’ultimo romanzo della serie?
Per Laust sarà l’inizio un periodo febbrile in cui da un lato si vedrà schiacciato dalle responsabilità che non aveva certo cercato e, dall’altro, mentre riaffioreranno tragici ricordi del passato, si troverà coinvolto in una spirale pericolosissima e potenzialmente letale.
“Il Successore”, è un thriller algido come fredde e nebbiose sono le atmosfere dello Jutland, sulle cui coste è ambientata la storia.
Apparentemente, dopo la scoperta del cadavere, l’aspetto giallistico viene messo in secondo piano e pure il poliziotto che investiga sui fatti sarà posto da parte per tre quarti della narrazione, anche se i morti non mancheranno e i misteri tenderanno ad accrescersi.
L’A., infatti, con uno distaccato stile cronachistico, si concentra soprattutto sulla descrizione delle ansie di Laust e dell’ambiente claustrale e asfissiante in cui verrà costretto a vivere per sottostare alle rigide disposizioni testamentarie di William, in vista della stesura del romanzo.
In un susseguirsi di scene tra un presente nebuloso ed enigmatico e frequenti flashback su quel convulso, folle, anarchico anno di frequentazione con il freddo calcolatore Jørgen, tutto sembra convergere solo verso il problematico assolvimento del compito che è stato assegnato al “successore”.
Ma la stesura del romanzo conclusivo, che era stata presentata a Laust come una banale sine cura, si rivelerà una specie di mission impossible. Non si tratterà solo di cercare di rifare lo stile di William Falk, per non tradire i milioni di lettori che aspettano l’uscita del libro, ma di comprendere quale evoluzione era stata da esso pensata. Ma farlo senza avere la minima traccia di cosa intendesse scrivere sembra essere un compito superiore alle sue forze, Inoltre c’è pure una domanda incombente: per quali oscuri motivi Jørgen ha deciso di porre fine ai propri giorni, e sfuggire a una realtà che pareva perfetta? I messaggini criptici che il morto gli farà trovare qua e là non gli saranno di grande aiuto. Nel frattempo le minacce si addenseranno sulla sua testa senza che lui se ne renda davvero conto.
Il racconto si snoda lento e brumoso. Tuttavia non viene meno l’interesse per il lettore. Certo che chi si aspettasse un tipico racconto thriller, incalzante, pieno di colpi di scena e di azioni intense rischia di rimanere deluso, perché tutto si gioca su un piano sottilmente psicologico, su esili allusioni, su brevi accenni che rischiano di scivolare sotto il livello d’attenzione del lettore distratto. Il progresso verso il climax finale è pigro e spesso inavvertibile. Anche l’ambiente claustrofobico di Falkenborg, la lussuosa, ma isolatissima residenza della famiglia Brink in cui Laust verrà costretto a trasferirsi, può apparire solo come una sorta di gabbia dorata. Ben presto, però, anche i muri ci appariranno minacciosi, e molte delle persone che circondano il protagonista mostreranno di custodire pesanti segreti che potrebbe farne nemici mortali. E lo stesso Laust, che ci viene descritto come il classico uomo comune, un po’ ingenuo e un po’ travolto dagli eventi, potrebbe essere ben diverso da ciò che si lascia trasparire all’esterno.
Come in un gorgo che alla periferia appare pigro e, apparentemente, innocuo, il protagonista, e con esso il lettore, vengono risucchiati inavvertitamente, ma ineluttabilmente, verso il centro di un vortice sempre più impetuoso, verso un “abisso” finale concitato e ad altissima tensione.
Ho trovato stimolante il doppio binario su cui procede la storia, perché sia le vicende presenti che quelle passate celano tenebrosi misteri che, seppur accennati già dalle primissime pagine, restano indecifrabili sin quasi alla fine, quando le due vicende mostrano le loro tragiche connessioni e gli influssi reciproci.
Altrettanto interessante il fatto che non esista una cesura manichea tra i buoni e i cattivi della storia, perché tutti, come nella vita reale, si agitano in una zona grigia dove il bene e il male sono difficilmente distinguibili.
Ma, soprattutto, intrigante la chiave di lettura finale del libro: sino a che punto ci si può spingere per ottenere la verisimiglianza e la partecipazione emotiva in un’opera letteraria? Per scrivere un capolavoro o, quantomeno, per ottenere un’opera affascinante e coinvolgente, è davvero necessario stravolgere e coinvolgere addirittura la propria vita reale, fino a condividere le sensazioni dei propri personaggi? Uno scrittore non dovrebbe semplicemente comportarsi come suggeriva il grande Laurence Olivier al giovane Dustin Hoffman, nell’aneddoto che uno dei protagonisti riferisce ai compagni nei primi capitoli?
«”Be’, quando hanno iniziato a girare Il Maratoneta, un giorno Dustin Hoffman stava raccontando di come si fosse preparato per la scena della tortura – quella col dentista – non mangiando per tre giorni, e si lamentava di quanto fosse stata dura. E a quel punto, Laurence Olivier gli ha detto: “Why don’t you just try acting?”» [perché non cerchi solo di recitare?].
La risposta (pleonastica?) viene lasciata al lettore, ma non è escluso che l’A. voglia pure lanciare una frecciatina (il libro non manca certo di ironia salace) a quei colleghi che si vantano di essersi documentati fino allo sfinimento per rendere credibili le vicende da loro narrate.
In conclusione si tratta di un romanzo divertente e relativamente nuovo come impostazione, fonte di alcune ore di piacevole lettura.
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Una piccola nota di colore (acido): sembra che l’A. sia particolarmente ossessionato dalle secrezioni corporee dei suoi personaggi: non passa capitolo (capitoli che sono tutti brevi, quindi numerosissimi) in cui non ci venga descritto questo o quel personaggio sudato, o con le mani così madide da non poter impugnare gli oggetti, o non ci venga dato conto delle gocce di sudore che gli cadono dalla fronte, degli odori dovuti alla traspirazione o degli indumenti imbibiti dopo uno sforzo o una situazione di stress. E nelle rare occasioni in cui non si parla di sudore entrano in campo muco, urina, feci e vomito. Insomma c’è tutto il campionario di “schifezze”.
Non c’è da meravigliarsi, perciò se, dopo un po’, si cominci a provare un irrefrenabile desiderio di farsi una doccia purificatrice, anche se, alla fine, la cosa può apparire pure divertente.





























