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Il sequestro di Aldo Moro ha segnato la fine della Repubblica dei partiti. Marco Damilano torna su quell'istante, le nove del mattino del 16 marzo 1978, in cui il presidente della De fu rapito e gli uomini della sua scorta massacrati. Fu l'inizio di un dramma nazionale e di una lunga rimozione. Un viaggio nella memoria personale e collettiva, nei luoghi, nelle correlazioni con altri protagonisti di quegli anni come Sciascia e Pasolini. Le carte personali di Moro rimaste finora inedite, le foto, i ritagli, gli scambi epistolari con politici, intellettuali, giornalisti, persone comuni. La ricostruzione della sua strategia e della sua umanità, strappata all'immagine di prigioniero delle Brigate rosse e restituita al ruolo politico di chi aveva capito meglio di tutti l'Italia, "il paese dalla passionalità intensa e dalle strutture fragili", e la debolezza del potere. Dopo l'assassinio di Moro, il 9 maggio, al termine di 55 giorni di tragedia, sono arrivate la morte di Berlinguer, la dissoluzione della Dc, Tangentopoli e la latitanza di Craxi in Tunisia. Fino all'ultima stagione, con la politica che da orizzonte di senso per milioni di italiani si è fatta narcisismo e nichilismo, cedendo alla paura e alla rabbia. Per questo la voce di Moro parla ancora, come aveva previsto lui stesso: "lo ci sarò come un punto irriducibile di contestazione e alternativa".



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Un atomo di verità 2018-07-17 10:18:09 GPC36
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GPC36 Opinione inserita da GPC36    17 Luglio, 2018
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Il delitto Moro nella memoria di un bambino che qu

“I ricordi dei bambini selezionano, sono emotivi, non si muovono, restano fissati lì, incastrati nella memoria al contrario dei ricordi degli adulti che cambiano, escludono, dimenticano, tradiscono”: con questo incipit Marco Damilano offre la chiave di lettura del libro dedicato al delitto Moro. Un racconto di un evento tragico che coinvolse lo scrittore, bambino di dieci anni, quando visse il marasma che si verificò nella sua scuola, vicinissima a via Fani, il giorno del rapimento dello statista e dell’uccisione della sua scorta. Tornato a casa capì che tutta quell'agitazione riguardava lo statista che vedeva alla televisione e che non era per lui una persona sconosciuta, poiché il padre, giornalista, glielo aveva mostrato una mattina, mentre lo accompagnava a scuola, facendolo entrare in una chiesa dove Moro pregava.
Il ricordo di quel giorno e di quella figura, la prima persona importante che ha incontrato, rimane nitidamente fissato nella sua memoria, sino a quando, quarant’anni dopo, l’autore vuole dare corporeità a quell'ombra apparsa nella sua infanzia e si impegna nella ricerca di tutto ciò che può portarlo a capire il significato, la motivazione di una pagina tragica della storia della repubblica italiana.
Non è l’ennesimo saggio sul delitto Moro, ma la ricerca di quell'’“atomo di verità” che lo statista chiedeva in una delle lettere scritte durante la prigionia. L’autore è consapevole che, dopo tanti libri, processi, commissioni parlamentari non potrà trovare prove adeguate per una verità giudiziaria. Indica però con decisione come fattore determinante il trattato di Yalta, il duro accordo spartitorio del mondo in due blocchi, che ha consentito l’accadere di episodi tragici in Cecoslovacchia, Ungheria e Polonia da una parte e in Cile dall’altra, senza reazioni se non di facciata. Un accordo che ha consentito di evitare nuovi, tragici conflitti mondiali, ma che ha comportato la rinuncia alla ricerca di verità e giustizia di fronte a episodi drammatici, conseguenti a fatti che potevano far temere alle due maggiori potenze che venisse minata la base del precario equilibrio internazionale.
L’autore sente il fascino dell’intelligenza di Moro e di un progetto che nella mente dello statista avrebbe dovuto portare ad un cambiamento radicale della politica italiana, aprendo la strada in prospettiva ad un’alternanza fra i due maggiori partiti, comportando una loro trasformazione. Tuttavia era evidente che l’alleanza fra Democrazia Cristiana e Partito Comunista, che doveva concretizzarsi il 16 marzo 1978 con il nuovo governo Andreotti, fosse vista negativamente da entrambe le superpotenze, per motivazioni diverse, ma convergenti nell'ostilità a questo accordo politico. L’azzardo di Moro, statista estremamente cauto, nel farsi protagonista di tale progetto, dopo che il dramma cileno di sei anni prima aveva dimostrato la durezza della reazione a cambiamenti radicali della linea politica all'interno dei blocchi, è comprensibile solo nella sua sensibilità etica, nella sua volontà di trovare in una nuova coesione politica la capacità di rispondere ad uno stato di emergenza, alle problematiche di un “Paese dalla passionalità intensa e dalle strutture fragili”.
Damilano vuole dare a quell'ombra, apparsa ad un bambino, l’aspetto umano, scavando a fondo nella sua vita interiore. Ne cerca le tracce nelle pagine di Sciascia, ma anche nei luoghi dove lo scrittore scrisse “L’affaire Moro”. Damilano prende però le distanze dalla rappresentazione di Moro, visto unicamente come uomo di potere, per riportarlo “alla sua dignità di persona, pienamente sé stesso nelle ore liete del potere e nei momenti tragici della prigionia”. Per questa ricerca si reca nei luoghi dove aveva le radici politiche, nell’università in cui aveva insegnato; nella ponderosa raccolta di documenti e fotografie dell’archivio Flamigni; ad Hammamet, dai figli di Craxi, per cercare nei ricordi dell’unico leader politico che si era dichiarato a favore della trattativa con i brigatisti; nell’Archivio di Stato dove sono depositati gli atti giudiziari, sino al cimitero in cui riposa. Interroga chi visse con lui la vita politica e universitaria; si ferma con sofferenza, trasmessa pienamente al lettore, sulle lettere scritte durante i 55 giorni di prigionia: quelle sdegnate ai politici che, cinici o imbelli, non seppero o non vollero agire per la sua liberazione; quelle struggenti scritte alla moglie ed ai figli.
Fuori dalla prigione il vano agitarsi delle istituzioni, una micidiale miscela di cinismo, connivenze occulte e inanità, la totale inefficienza dei servizi, in totale contrasto con la rapidità di intervento che verrà dimostrata tre anni dopo con la liberazione in una quarantina di giorni del generale Dozier.
Non cerca di sapere altro dai responsabili materiali dell’omicidio di Moro e dei cinque uomini della scorta: nei loro confronti dichiara solo un assoluto disgusto, limitandosi ad inevitabili citazioni o a irriderne l’incapacità di capire il valore intellettuale ed umano del loro prigioniero e degli scritti durante la prigionia: nei loro confronti Damilano sembra optare per la “damnatio memoriae”. Una scelta condivisibile, anche se è su questi personaggi, tragiche marionette mosse da altri, che gravano gli interrogativi più pesanti ed inquietanti dei molti che ancora oggi circondano il delitto Moro-
Da questa ricerca emerge tutta la profonda umanità e l’intelligenza di una figura politica da non dimenticare o, per i giovani, da conoscere.
C’è un solo punto su cui si può formulare un rilievo: il libro ha come sottotitolo “Aldo Moro e la fine della politica in Italia”, ma la politica non ha fine, così come non l’ha la storia, nonostante le previsioni di Fukuyama. Assistiamo, invece, oggi al suo degrado, ad una politica che, come giustamente chiarisce Damilano, non coltiva più la speranza, ma la paura dei cittadini e la loro rabbia. Sembra oggi finita la Politica, con iniziale maiuscola, intesa come leva del cambiamento, in grado di fornire un orizzonte in cui identificarsi, di elaborare grandi progetti.
Una reale commozione trapela dalle pagine del libro, quella di un bambino che un giorno di quarant'anni fa è diventato grande. Una lettura consigliata sia a chi ha vissuto il dramma di quelle giornate del 1978 e non vuole limitarsi agli aspetti giudiziari, sia ai giovani che in queste pagine troveranno un’occasione per comprendere che la politica può essere qualcosa di ben più alto di quanto appare oggi nei dibattiti da talk show.

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