Narrativa italiana Romanzi Cose che non si raccontano
 

Cose che non si raccontano Cose che non si raccontano

Cose che non si raccontano

Letteratura italiana

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Non è mai il momento giusto per fare un figlio. Prima vogliamo vivere, viaggiare, lavorare. Antonella vuole diventare una scrittrice: la sua è un’ambizione assoluta, senza scampo. Per questo a vent’anni, per due volte, interrompe volontariamente la gravidanza. Quando anni dopo si sente invece pronta, con un compagno a fianco, è il suo fisico a non esserlo. E così inizia l’iter brutale dell’ostinazione, dell’ossessione, della medicalizzazione. Certi supplizi, le aspirazioni inconfessate, la felicità effimera e spavalda, la sofferenza e la collera. Si direbbe una storia già scritta, ma qui non c’è nulla di consueto: è come raccontare da dentro una valanga, con la capacità incredibile, rotolando, di guardarsi e non crederci, e sfidarsi, condannarsi, sorridersi per farsi coraggio. In un crescendo di indicibile potenza narrativa, Antonella Lattanzi descrive (sulla sua pelle) la forza inesorabile di un desiderio che non si ferma davanti a niente, ma anche i sensi di colpa, l’insensibilità di alcuni medici, l’amicizia che sa sostenere i silenzi e le confidenze più atroci, il rapporto di coppia sempre sul punto di andare in frantumi, la rabbia ferocissima verso il mondo (e le donne incinte). Tenendo il lettore stretto accanto a sé, incollato alla pagina, con un uso magistrale del montaggio, capace di creare una suspense da thriller. La cosa strabiliante è che pur raccontando una storia eccezionale, e cruda, questo romanzo riesce in realtà a parlare in modo vero, e profondamente attuale, di tutte le donne – madri e non madri – che in un punto diverso della loro vita si sono chieste: desidero un figlio? qual è il momento giusto? dovrò rinunciare a me stessa, alle mie ambizioni? e perché tutte restano incinte e io no?



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Cose che non si raccontano 2023-04-27 09:40:01 marialetiziadorsi
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marialetiziadorsi Opinione inserita da marialetiziadorsi    27 Aprile, 2023
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Storia di una madre mancata

Un libro necessario questo per squarciare un velo su una situazione frequente, troppo facilmente giudicata dall’esterno con tanti luoghi comuni e sulle sofferenze che porta con sé il fatto e i facili giudizi.
Antonella Lattanzi sceglie di raccontare se stessa e l’esperienza della sua mancata maternità così come l’ha vissuta, in tutta la sua tragicità. Dopo due aborti voluti perché si sentiva troppo giovane e con la carriera da scrittrice ancora da costruire, incontra alla fine Andrea con il quale inizia un rapporto stabile. Passano gli anni e di rimando in rimando il campanello dell’età biologica a 38 anni in qualche modo avverte che per avere un figlio occorre muoversi. Però il bambino non viene.
Inizia quindi la fase della medicalizzazione della maternità con la peregrinazione tra specialisti, ospedali, esami, farmaci, rapporti frequenti e a comando nei momenti “giusti”. Tutto inutile.
Lo step successivo, con lo sfondo del Covid e della pandemia alla loro massima espansione, sono le stimolazioni ormonali, i monitoraggi, i farmaci e alla fine i tentativi di fecondazione assistita. Dopo il primo fallito ecco che il secondo pare andato a buon fine. E’ uno, poi no, sono due gemelli, anzi alla terza ecografia sono addirittura tre.
Ecco quindi che la protagonista oscilla tra felicità e umane incertezze (saprò essere madre? E la mia carriera di scrittrice? Riuscirò ad avere il tempo? Lo voglio davvero?) e il rifiuto (e se sono due? E con tre come faccio?). Ma c’è un problema ulteriore. Non solo sono tre gemelli, ma condividono la stessa placenta con distinti sacchi amniotici, sono gemelli monocoriali triamniotici. Quindi una gravidanza rarissima ed estremamente difficile e pericolosa, per i bambini, che potrebbero non vedere mai la luce, e per la madre.
Il rischio si fa ancora più concreto e pulsante, la speranza si riduce al minimo. I medici suggeriscono, per mantenere accesa la fiammella della possibilità, seppur remota, che possano nascere, di effettuare una “riduzione”, in pratica di abortirne uno.
Con la storia qui mi fermo anche se la scrittrice il finale ce lo racconta subito: se qualcosa poteva andare male nelle varie fasi di questa storia è andato sempre e senza esclusioni male, anche peggio di quanto sarebbe potuto andare.
Il racconto è drammatico e oscilla continuamente tra il desiderio che i bambini nascano, i giudizi terribili di parte del personale ospedaliero, i problemi legati al lavoro, una candidatura allo Strega da firmare, le presentazioni del libro alle quali partecipare, il covid e le sue restrizioni. Il lettore non è chiamato a giudicare, perché tutte queste preoccupazioni sono concrete e vere, soprattutto se leviamo alla maternità l’alone della favola. Una donna è e rimane una donna con la sua vita da preservare anche quando nasce un figlio. E la paura di non farcela e di vedersi la vita stravolta è umanissima.
In tutto questo La protagonista sceglie di non raccontare a nessuno cosa sta vivendo salvo ovviamente al compagno e a due amiche fidate.

“Ci sono cose che non si raccontano per vergogna, rabbia, troppo dolore, e perché se non le racconti, in fondo puoi sempre credere che non siano successe.”

Un tentativo di allontanare sofferenza e contraddizioni. Non è però purtroppo così e quanto sta avvenendo è tutto drammaticamente vero.
Nel frattempo il rapporto di coppia si fa complesso, lei aggrappata alla speranza e al desiderio insopprimibile di diventare madre pur tra mille contraddizioni, lui che cerca di essere tranquillizzante.
Tutti o quasi gli altri all’esterno ignorano ciò che sta avvenendo.

Il racconto si configura come un lungo soliloquio nel quale la scrittrice dialoga con se stessa con una lingua parlata, semplice, immediata e molto drammatica. Non ci sono rifiniture, ricercatezze, pensieri profondi o periodi complessi. La lingua sgorga come il pensiero, le emozioni e il dolore vengono a galla nella storia.
Non c’è volutamente grande profondità psicologica nei personaggi. Al centro c’è lei, la protagonista, unica figura sulla quale la scrittrice indaga e accende con estrema spietatezza una luce fortissima.
Il romanzo è costruito con il ritmo di un thriller, del quale in realtà sappiamo già tutto dall’inizio, ma la scrittura è tesa, ritmata, emozionante e non lascia scampo al lettore che non riesce a staccarsi dalle pagine perché sente in esse una straordinaria verità e tanta vita vera. Non ci sono svolte, sorprese dietro l’angolo che non ci siano state annunciate, eppure vorremmo non smettere di leggere fino all’ultima pagina.

Credo che questo ultimo romanzo della Lattanzio fosse necessario perché affronta un argomento sempre taciuto circa la maternità. Quanto è essenziale e necessaria per sentirsi pienamente donne? Si può vivere una vita felice anche senza un figlio? Quanto possono essere pesanti, sfiancanti e lasciare il segno i tentativi di maternità? Come vengono vissuti all’interno della coppia?
A queste domande si cerca di dare risposta attraverso una storia molto dolorosa e che sentiamo risuonare dentro di noi mentre leggiamo. Un bel romanzo del quale consiglio la lettura.

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