Gli increati Gli increati

Gli increati

Letteratura italiana

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Gli increati è un romanzo vertiginoso, che coinvolge e cattura con la sua spinta narrativa travolgente, un testo autonomo e, nello stesso tempo, il culmine di un unico progetto cominciato più di trent'anni fa con Gli esordi e proseguito con Canti del caos. È un'opera che taglia e oltrepassa i nostri giacimenti narrativi, poetici, mitici, religiosi, i saperi scientifici, economici, storici, filosofici, il nostro sentimento del mondo, il nostro pensiero e le nostre conoscenze. Che ci trasporta in una dimensione dove non eravamo mai stati, in zone ritenute inaccessibili. Ci confronteremo con un'idea di letteratura a tutto campo, che prende di petto l'indicibile, ancora capace di portare sfida, rischio, avventura, sfondamento, invenzione, visione e passaggio, con un'opera che, mai come in questo caso, si pone non solo come mondo ma anche come ultramondo, abolendo le barriere di vita, morte, vita dopo la morte e immortalità.



Recensione della Redazione QLibri

 
Gli increati 2015-03-26 22:57:46 Mario Inisi
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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    27 Marzo, 2015
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Fitta nebbia

Sono nato il 30 ottobre 1947, all’imbrunire, brandello di carne rigettato con furia da un altro corpo, concepito 9 mesi prima da un soldato reduce dalla più grande guerra combattuta su questo pianeta e da 6 anni di campo di concentramento, e da una domestica non più giovane, sventrata al momento del parto dalla mia grossa testa infelice. Sono morto il 30 ottobre 2010, nel cuore della notte, investito da una macchina mentre camminavo per strada succhiando un tronchetto di liquerizia e fantasticavo.
L’ incipit precipita il lettore nel romanzo, una specie di Divina commedia, di viaggio nel caos primordiale che si articola in tre parti: il proemio dei morti, il proemio dei vivi e il proemio degli increati.
In un certo senso il romanzo per la tematica potrebbe ricordare vagamente Unamuno (Nebbia) nel suo esplorare il rapporto tra creatore e creatura, ma mentre Unamuno è un filosofo e persegue le sue riflessioni con una logica ferrea, Moresco è un poeta, un visionario e le sue sono visioni, incubi, sogni, deliri.
“Noi siamo quelli che hanno sognato e che adesso sono sogni, noi siamo tracimati nei nostri sogni, se non eravamo prima dei sogni e se adesso non siamo sogni che sognano di essere sogni.”
La scrittura di Moresco è un flusso di “incoscienza”. Non c’è un briciolo di affettazione o di autocompiacimento nella sua scrittura. Antonio vuole incernierare il lettore e trascinarlo dentro le sue visioni, senza l’obiettivo di capire la vita o la morte ma di annullarle (soprattutto la vita). La vita è un luogo buio, è la vera selva oscura mentre la morte descritta nel proemio dei morti ha un suo calore e colore, è un luogo accogliente e pieno di energie positive e costruttive e vitali. L’amata Pesca è la guida nel viaggio tra vita e morte, tra creazione, distruzione fino al ritorno nell’increazione, beato mondo delle possibilità. Moresco ha un modo molto romantico di vedere le cose. Chi ama è al di sopra della vita e della morte.
Nel romanzo ci sono finiti anche personaggi storici come Lenin, Aldo Moro ecc… Ma anche loro hanno ruoli distorti come dentro un sogno. Le figure più belle sono quelle di Moro, di Pasolini, della Callas (se ho capito bene) e i morti bruciati che diventano nel proemio degli increati delle lucine, qualcosa di bello, dei portatori di speranza.
Il proemio dei morti è un viaggio tutto di corsa nel mondo dei morti che inizia appunto il 30 ottobre 2010 (morte dell’autore). Non si capisce verso dove l’autore corra e perché: all’inizio sembra che corra per sfuggire alla resurrezione, che corra verso strati sempre più profondi di morte. (Ma alla fine invece risorge.) Alcuni morti corrono verso la resurrezione dalla morte che viene dopo, altri verso la resurrezione dalla morte che viene prima, altri non vogliono risorgere ma il motivo delle scelte non è mai chiaro (almeno a me), per cui parlare di scelte è azzardato. Il moto dei morti assomiglia al moto browniano dei gas, un moto caotico. Moresco chiude gli occhi, apre il suo terzo occhio e descrive al lettore quello che vede con questo straordinario occhio: un flusso di immagini bellissime. Il proemio procede al ritmo tribale e incalzante dei tamburi percussivo e ossessivo suggerito dal ripetersi di certe parole o frasi (vita, resurrezione, morte, morte, morte) o da certe immagini. Il ritmo coitale dei morti, che genere sciami sismici nella faglia tra vita e morte è ossessivamente ricordato. Bellissimo il palazzo che pulsa al ritmo di un cuore a causa dell’impulso percussivo coitale di milioni di morti, le città con le luci nere che si creano e si disfano, i fiumi sotterranei e le cascate di liquido seminale fluorescente, la pioggia nera martellante, e alla fine, finalmente, la neve (ovvero liquido seminale in fiocchi), bianca come il velo da sposa di Pesca, l’amata dell’io narrante che lui insegue per tutto il romanzo che è tutto scritto in un’unica frenetica, inarrestabile corsa. Questo proemio non è da leggere, nel senso che non ha una trama, ma da guardare e da ascoltare come una serie di immagini o una canzone: mi ha ricordato il film su Salgado Il sale della terra. Moresco sottolinea il fatto che la vita nasce dalla morte, ne è una parentesi, che la morte è creativa e costruttrice mentre la vita è distruttrice, la storia dell’uomo è fatta di guerre, di violenze, di una folle corsa verso la morte così come dentro la morte c’è una folle corsa verso la vita. Le due faglie si attraggono all’infinito. La continua tracimazione tra vita e morte, morte e vita è giustificata e causata dall’amore.
Nel proemio dei vivi il ritmo rallenta molto. Non è più un canto tribale ma un una nenia che culla il lettore e lo fa entrare nel mondo dei ricordi dell’autore. Nel mezzo dei ricordi si inserisce anche la terza guerra mondiale tra vivi, morti e immortali. Anche questa parte non sembra un romanzo ma un canto in cui il ritmo non è dato tanto da parole ripetute ma da frasi e domande che ricorrono ossessivamente rendendo la scrittura ipnotica e, immagino, autoipnotica per l’autore. In questa parte Antonio mi è sembrato come un bambino che abbia costruito la scatola magica capace di ridimensionare e rimpicciolire i ricordi sgradevoli e di rivivere all’infinito quelli belli: inquadrare la vita come una parentesi tra due (almeno due) morti serve a focalizzare il pianetucolo vita in un universo brulicante di morte. I ricordi: la madre, la casa piena di merde di gatto, la violenza del padre sono rimpiccioliti in questo modo di osservarli come impatto emotivo.
“Perché io credo che tutta la nostra vita e tutto il nostro mondo siano dentro una prigione buia, perché io non riesco a stare dentro questa prigione buia, perché cerco di tenere accesa una lucina in tutto questo infinito buio, perché cerco disperatamente un passaggio nella cruna della mia vita, nella vita e nella morte del mondo, perché non ci può essere assoluzione da una simile colpa, perché questa colpa non sta sullo stesso piano di ogni possibile assoluzione.”
Antonio ci fa entrare in alcuni ricordi lasciando la sensazione di essere una persona senza pelle, che espone al lettore i suoi pensieri, tutti, senza protezione (ad esempio l’immagine della madre massacrata di botte che l’io narrante vorrebbe medicare). La scrittura ha un ritmo ossessivo ma suscita tenerezza per certi passaggi. Strano l’ambiente del seminario, a tratti inquietante come ambiguo è il personaggio del seminarista Gatto. C’è un capitoletto in cui i seminaristi si guardano aspettando le vivande dalla giostrina delle suore con una tensione tipo Mezzogiorno di fuoco tanto che il lettore si aspetta che le monache facciano arrivare delle bombe a mano anziché la frutta. Tra tutti i ricordi l’amore per Pesca viene continuamente rivissuto. La scatola magica permette all’io narrante di rivivere questo amore infinite volte in un eterno presente, un amore immortale che vuole come condizione per continuare a esistere l’assoluta mortalità dei protagonisti. Alla fine, Pesca sarà l’unico ricordo che rimane (con la scelta del protagonista di increarsi). Moresco non ha simpatia per il mondo dei vivi. Un mondo pervaso da uno spirito distruttivo e di morte. Un posto dove tutto corre verso la morte. Più simpatia c’è per la morte, ma tra i vari tipi di morte Moresco predilige quella che viene prima: l’increazione. Nell’increazione i germi della vita non si sono ancora manifestati.
Nel proemio degli increati, bellissimo, il creatore, il distruttore e l’increatore si fronteggiano. L’io narrante parla con la voce di dio. Già dalle prime righe si intuisce tutta la simpatia dell’autore per la creazione:
“”Sia la luce!!”, ho detto all’inizio. E la luce fu. E io mi sono preso in faccia una scarica di 300000 chilometri al secondo di fotoni di luce che hanno cominciato a tormentare, a sfigurare, a bruciare, a evidenziare e a inventare e a creare i contorni e le linee di contenimento del mondo.”
Bellissima la figura di dio che si sente solo e che non sa bene cosa va facendo con questa creazione.
In tutto il romanzo abbiamo un creatore e un distruttore, un dio e un demonio che si scambiano i ruoli e che non hanno una connotazione precisa di bene e di male. Ai due si contrappone alla fine l’increatore, il dio migliore, che cancella non solo i brutti ricordi ma riavvolge il nastro della malriuscita creazione, con una sola eccezione, quella della prima donna che nell’ultima pagina del romanzo, quella in cui l’increatore stesso scompare, mi pare sia ancora presente. Moresco non riesce proprio a liberarsi della donna.
Certamente il romanzo non è una lettura semplice. Non è una lettura per tutti o certamente non è adatta per chi ama seguire una storia. Per chi ha letto gli incendiati o fiaba d’amore che il romanzo ricorda molto per alcuni spunti, bisogna dire che qui la trama è molto più rarefatta. E’ una lettura diversa, visionaria e allucinata. A me è piaciuto moltissimo il proemio dei morti e quello degli increati mentre ho faticato e patito con quello dei vivi. Non è un romanzo da leggere d’un fiato ma con l’avvertenza: non superare le dosi consigliate, sia per la forma della scrittura (ossessiva e ipnotica) sia per il contenuto. In ogni caso non credo che ci sia un altro autore con le stesse intuizioni e i livelli di scrittura che raggiunge Moresco in alcune pagine. La scrittura non è mai artificiosa e affettata. E’ come leggere una lunga poesia, anzi un canto.

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Genesi, Divina Commedia, Nebbia, gli incendiati, la lucina Fiaba d'amore.
Andrebbe letto dopo gli esordi e i canti del caos.
Consiglio a chi non conosce l'autore di iniziare con la Lucina, Fiaba d'amore e gli incendiati.
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Gli increati 2020-02-24 16:47:37 ferrucciodemagistris
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ferrucciodemagistris Opinione inserita da ferrucciodemagistris    24 Febbraio, 2020
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A ritroso nell'incoscienza

Terzo volume della trilogia dell”Increato” o dell'eternità, successivo a “Gli esordi” e “Canti del caos”; da premettere che il romanzo (si può definire romanzo?) può essere letto in autonomia senza aver necessariamente letto i precedenti. Alcuni flash riportano a vicende e accadimenti narrativi inclusi nei primi due romanzi, ma non importanti per la comprensione e il plot narrativo della storia.

Ho scritto “comprensione” ma la parola in sè potrebbe dar luogo a forti rilievi, a elaborazioni soggettive, a messaggi indecifrabili che l'autore cerca di inviare al singolo lettore e non a una vasta platea. Voglio dire che la narrazione intrinseca può essere interpretata in maniera soggettiva e comunque non credo che l'autore voglia indirizzarsi a un pubblico vasto; insomma non è un romanzo (?) che segue i canoni della varia letteratura in tutte le sue accezioni anche le più estreme.

Il libro è diviso in tre parti: proemio dei morti, proemio dei vivi e proemio degli increati; Antonio Moresco ci conduce in dimensioni al di fuori dei giusti e corretti stereotipi cui è abituata la stragrande maggioranza; si affrontano situazioni di estrema elucubrazione mentale dove ciò che appare reale potrebbe essere immaginazione allo stato puro ai confini di ciò che la nostra mente è in grado di elaborare e trovare una logica umana.

Il passato e il futuro si intrecciano con un evanescente presente del quale non è chiaro qual è l'inizio, il percorso, la direzione e il camminamento a ritroso. Ci si domanda spesso dove la lettura ci stia portando: luoghi inverosimili, personaggi improbabili, accadimenti ai limiti della razionalità.

Leggere l'opera di Moresco può dar fastidio alla nostra sensibilità, al nostro raziocinio, al nostro modo di interpretare la vita e tutto ciò che c'era prima di essa; la dualità vita-morte è messa in difficoltà, si aprono altri scenari forse indesiderabili ma pur sempre utili, anche se per niente affascinanti o accattivanti, a tentare di cambiare i nostri punti di vista sul perchè dell'esistenza e addentrarsi, con deciso sforzo mentale, in ciò che potrebbe celarsi all'interno della increazione.

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Altre opere di Moresco e romanzi di David Foster Wallace
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