Narrativa italiana Romanzi Il cinghiale che uccise Liberty Valance
 

Il cinghiale che uccise Liberty Valance Il cinghiale che uccise Liberty Valance

Il cinghiale che uccise Liberty Valance

Letteratura italiana

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Nell'immaginario paese di Corsignano - tra Toscana e Umbria - la vita procede come sempre. C'è gente che lavora, donne che tradiscono e uomini che perdono una fortuna a carte. E c'è una comunità di cinghiali che scorrazza nei boschi circostanti. Se non fosse che uno di questi cinghiali acquista misteriosamente facoltà che trascendono la sua natura. Non solo diventa capace di elaborare pensieri degni di un essere umano, ma, esattamente come noi, diventa consapevole anche della morte. Troppo umano per essere del tutto compreso dai suoi simili e troppo bestia per non essere temuto dagli umani: «il cinghiale che uccise Liberty Valance» si ritrova in una terra di nessuno che da una parte lo getta nella solitudine ma dall'altra gli dà la capacità di accedere ai segreti di Corsignano.



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Il cinghiale che uccise Liberty Valance 2016-09-08 17:13:52 Anna_Reads
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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    08 Settembre, 2016
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"Sembravano versi d'amore"

Lettura condivisa (e pure proposta da me) a cui mi sono avvicinata con una certa apprensione.
Adoro il film “scimmiottato” (anzi “cinghialato”) nel titolo ed ero a metà fra la curiosità e il timore della “lesa maestà”. Un paio di recensioni ispirate mi hanno fatto superare i timori.
E meno male.
Il libro è particolare, a tratti verboso, denso di citazioni. E se ti riempi di orgoglio quando ne cogli qualcuna, hai altrettanto netta la percezione delle molteplici che ti sfuggono (però a quella di Tekkaman mi son commossa, lo devo confessare, tanto che la riporto:
“A Durante, d’istinto, era venuto di fare sì con la testa. Poi la corazza di inadeguatezza gli s’era vestita addosso, lamiera e filo spinato e scariche elettriche come l’armatura di Tekkaman.” L’altra che mi ha fatto gioire è quella in cui – velatamente – irride Pascoli, la “grande proletaria” che si è mossa, e i suoi rapporti ambigui, ma soprassiedo, va’).
Il progetto dell’autore è ambizioso: linguistico, letterario, filosofico, etico.
Viene narrata la vita di un immaginario – ma piuttosto realistico – borgo fra Toscana e Umbria.
La vita della comunità degli esseri umani – poco di nuovo sotto il sole – amori, tradimenti, fughe, truffe, inganni, suicidi, vizi, motti e lazzi e quella della comunità dei cinghiali.
Uno di essi in particolare, Appenbohr, per motivi che ignoriamo riceve in dono… come dirlo? La conoscenza? La consapevolezza?
Il fatto è che il cinghiale diventa improvvisamente consapevole di sé e degli altri.
Della bellezza. Della musica. Dell’amore. Della morte. Della memoria.
E – sono le parti più struggenti – della necessità di trovare un linguaggio per esprimere – prima a sé stesso e poi agli altri – quello che adesso sente e vive e di cercare una condivisione con gli altri compagni del branco.
Appenbohr scopre la musica, L’uomo che uccise Liberty Valance, l’amore (cioè l’essere “quasi-te”) e la morte. E cerca di comunicarla agli altri rvrrn (cioè “cinghiali” nella lingua che l’autore immagina che parlino i cinghiali, con tanto di glossario e capitolo in “lingua”). Queste pagine riecheggiano un po’ Faulkner (L’urlo e il Furore), un po’ il Peter Fortune di McEwan e un po’ Fiori per Algernoon di Keyes, pagine in cui, attraverso il linguaggio, si descrive il linguaggio, la mente, la conoscenza e la consapevolezza.
È un’operazione ardita, se mai ve ne furono.
Però mi ha convinto.
Il resto della storia “umana” conta personaggi che restano nel cuore: da Raniero Vannuccini che manda a stendere prima il Duce, dalla gremita e festante piazza del paese (con un memorabile: “A ’mme nun mi ci contare!” Pausa. “Coglione!”...» ) e poi il papa – in persona – sollevando condivisibili perplessità sulla sua “lucidità di giudizio”:
(« “Santità” (…) Voi credete che un òmo nato da madre vergine è morto appeso a una croce e dopo tre giorni è risuscitato in carne e ossa... ... capirète se non mi fido proprio proprio della Vostra lucidità di giudizio”...»), a Durante Salvani che ha in sé tutta la dolcezza e la rabbia di un Arturo Bandini adolescente (quello della Strada per Los Angeles, il “re dei granchi” che ricorda anche Albinati; eccolo qui: “Eccheccàzzo, tutti geni, in questo stramaledettissimo, noiosissimo, merdosissimo, inutile paesino del cazzo che nemmeno il cristomorto potrebbe redimerlo, si limiterebbe ad appoggiare la croce ai muriccioli, ficcherebbe la corona di spine nel rettangolo truciolato del braccio orizzontale, poi via, la scesa esterna verso le Fonti: e ancora, fino alla provinciale, prenderebbe giù giù, al bivio, per l’Arlecchino, e «vaffanculo a voi, a Corsignano, a tutti ’sti geni e alle stracazzo di pustole che m’hanno rovinato la faccia, vaffanculo»— ché nelle sue derive cristologico-kazantzakisiane la sagoma di Durante lui si sostituiva alla figura vagamente defoeforme che appoggiava la croce ai muriccioli: e si trasformava nell’archetipo dolorante di un diciassettenne sovrappeso che santiàva contro Corsignano e le sue manchevolezze. Ché poi le manchevolezze non erano di Corsignano; o non soltanto. Erano le sue, soprattutto. Per questo poi – dopo aver augurato alle persone più care e vicine la morte per affogamento, tisi, paralisi, sfiancamento del miocardio, consunzione da cancro ematico, schioppo, impalamento, dilatazione e devastazione sanguinolenta (e reiterata) dello sfintere, lebbra, pellagra, gotta fulminante, sindrome di Matusalemme con rigurgito e via e via in tourettismo funzionale – Durante veniva preso da un senso di colpa da competizione che lo avviliva, letteralmente; lo abbatteva per ore. Mostrandogli a maggior ragione la pochezza del suo essere in vita a fronte della schiumante bellezza dei giorni di tutti gli altri”).
E poi c’è l’Antonia che, piantata dal fidanzato la mattina del matrimonio, ricava tende e centrini dal suo abito da sposa, Alvaro (e la sua alvarità) ed Adriano, l’unico, alla fine, che allaccia un sottilissimo legame con il mondo dei “cinghiali sapienti” che, tuttavia, sono destinati a venir meno con la morte di Appenborh.
[“Llhjoo-wrahh (la “cinghiala” compagna di Appenborh) grida quello che non sa; come fanno tutti i mhrhttrhrsh del pianeta: quando s’incontrano loro malgrado con il dolore, e con la morte. E con l’irreale, inaccettabile verità di essere finiti. Che almeno non lo diméntichi, grida Llhjoo-wrahh controvento: sta già patteggiando il futuro che non possiede con chiunque – bestia o mhrhttrhrsh – possa esaudirla. Che almeno non dimentichi Apperbohr, grugnisce, ma il grido si riempie di nuovo dolore, perché Apperbohr, ormai, è poco più di un nome. E presto, lei lo sa, Llhjoo-wrahh lo sta gridando al mondo perché qualcuno, qualcosa lo aiuti a restare, non c’è tempo, non c’è più tempo, il nome di Apperbohr diventa parte del grido, e del grugnito e presto, troppo presto, nemmeno più quello.
Adriano allarga le braccia, come se non riuscisse a trovare le parole. Come se le parole per spiegare a sua moglie Bruna, dopo cinquant’anni di matrimonio, dopo due figlie; dopo le fughe in Guzzi e i funerali degli amici, le corse al Nardile di quand’erano ragazzi, e la notte in cui il vecchio Antonio morì— Come se le parole per spiegarle quello che aveva davvero provato sentendo quel grido, in realtà, non esistessero. «E la cignàla sgrufolava, faceva aghéin, aghéin... ... E’ sembravano versi d’amore».]

Come si nota anche dagli estratti, le lingue usate da Meacci sono tre: italiano, “cinghialese” e toscano (trascritto con tutti i suoi fastidiosissimi – al mio orecchio – raddoppiamenti fonosintattici icche e così via). Allo stesso modo ci sono pezzi teatrali, tragedie greche (!), accenni di giallo e gotico. È un’opera estremamente “parlata” ricorda l’arte di Massimo Troisi, cambiando solo il dialetto. Si tratta di una parola ribadita, ricercata, analizzata, scelta, messa lì, sempre con un motivo e (quasi) sempre con un rimando ad altro.
Quando il gioco riesce, l’effetto è davvero sorprendente e particolare.
Quando stenta (e devo ammettere che i primi capitoli – fino a quello dell’Antonia – ero un po’ perplessa) suona un po’ verboso.
Comunque son contenta di aver letto questo romanzo.
Devo confessare che alcuni autori italici, fra indagini finte e seriali e ricette, mi avevano un po’ allontanato dal piacere di leggere nella mia lingua madre. Be’ adesso sto leggendo Albinati e Fois.
Un po’ di merito a Meacci – che mi ha restituito fiducia – devo riconoscerlo.
Prendo congedo con un pezzo che forse è quello che ho amato di più.
Parla Appenbohr (di musica e memoria e morte).
“Se solo potesse richiamarli in vita per un momento, tutti loro, forse, grazie al ragazzo, riuscirebbe a fargli capire quello che ha sentito lui. Ché vivere senza poterlo spiegare alle ossa e alle pelli dure e ai peli e alla carne della tua vita non è uguale, manca la condivisione, e la gratitudine, e l’abbraccio agitato che Apperbohr cerca in ogni wrgckhee: alle volte, come in questo momento, riesce difficile anche a lui trovare la parola giusta, alle volte gli sembra che qualcuno abbia cambiato le etichette delle parole. Alle volte gli sembra che esistano parole giuste dai significati sbagliati (la parola è significati) — e che è vero anche il contrario. (…) Tutti i rvrrn passati, e anonimi, che hanno corso i boschi tra Budo, e Corsignano, e Torracchio, e Taverne di San Biagio, quando ancora non esistevano i nomi per chiamarli, e tutto era Bosco, e ancora gli Alti sulle Zampe non sapevano dare nomi, confondevano anche loro le etichette delle parole come le confonde ora Apperbohr, adesso che la magia è finita e che le lacrime continuano a scendere, il loro nome orribile per testimoniare una cosa così bella— pensa maledizione, Apperbohr: e per la prima volta ne coglie il senso con tutta la forza che quel senso prevede.” (…) Apperbohr ha capito che quando le parole non ci sono bisogna trovarle, masticarle come se fossero ossa di cervo da spolpare: e se al dio delle parole non va bene allora che si perda, che mi perda, grugnisce Apperbohr, ora che mi ha lasciato qui, da solo; e non riesco a convincere Chraww-nisst a svegliarsi.”

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