Narrativa italiana Romanzi Il seme sotto la neve
 

Il seme sotto la neve Il seme sotto la neve

Il seme sotto la neve

Letteratura italiana

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L'uomo in fuga, perseguitato, clandestino in patria, vittima innocente dell'ingiustizia umana, ma testimone sempre e comunque della giustizia. Un romanzo nel quale l'elemento politico si somma alla essenzialità nella descrizione della vita dei contadini meridionali.



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Il seme sotto la neve 2021-02-14 07:36:15 anna rosa di giovanni
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anna rosa di giovanni Opinione inserita da anna rosa di giovanni    14 Febbraio, 2021
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un seme che non può germogliare

IGNAZIO SILONE (1900-1978) pubblica IL SEME SOTTO LA NEVE in lingua tedesca nel 1941 a Zurigo, dove si trova già da anni come esule antifascista. Qui di seguito alcuni cenni biografici che ho riunito a partire dalla sezione di wikipedia dedicata allo scrittore abruzzese.

LA VITA: travagliata, e perciò estremamente interessante, come quella di tutti gli Italiani che parteciparono attivamente alle lotte politiche successive al Primo conflitto mondiale, da cui nel Ventennio scaturì l’insediamento di regimi totalitari di destra in Europa e di un regime totalitario di sinistra (Silone parla di “fascismo rosso”) in Russia, e, soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale, le variegate evoluzioni della posizione degli intellettuali e dei partiti di sinistra dei vari paesi rispetto al regime sovietico.

Nel 1931 Silone è riparato in Svizzera da circa due anni per sfuggire alle prigioni fasciste, quando viene espulso dal PCI per le posizioni antistaliniste che ha assunto fin da quando nel 1927 conobbe da vicino il regime sovietico, essendosi recato in URSS con Togliatti in qualità di delegato al VIII Plenum dell’Internazionale. Respinto da sinistra e avversario del fascismo, è perciò in Svizzera che avvia la sua carriera di saggista politico e di romanziere impegnato, riscuotendo significativi successi con “Fontamara” (1933), “Pane e vino” (1936) e “Il seme sotto la neve” (1941).
Nel ‘44 rientra in Italia, dove è in contatto con eminenti personalità degli ambienti antifascisti (da Pertini a George Orwell) e continua la sua attività di animatore culturale, in particolare da direttore dell’edizione romana dell’Avanti!, con la fondazione e la direzione del giornale Europa socialista, col romanzo “Una manciata di more” (1952), vero j’accuse contro i comunisti che ancora non si sono smarcati da Stalin (il quale avrà il tempo di mietere vittime ancora per un anno). Sul piano dell’attività politica in senso stretto, Silone se ne allontana definitivamente nel ‘53, dopo la sconfitta che subisce alle elezioni politiche nelle liste del PSDI (Partito Socialista Democratico Italiano) di Saragat, per le quali si era candidato proprio nella circoscrizione della sua città natale, Pescina, in Abruzzo. Non per questo si esime però dal prendere posizione in questi anni di guerra fredda da “socialista senza partito”, insofferente nei confronti di tutte le gerarchie, compresa quella ecclesiastica. La fama di cui gode all’estero fin dai tempi di “Fontamara” si estende infine anche in Italia solo verso la metà degli anni ‘60, in seguito alla pubblicazione di “Uscita di sicurezza” (1965), sorta di diario politico che conferma la sua indipendenza di pensiero, tuttavia è “L’avventura di un povero cristiano” (Premio Super Campiello 1968) che gli vale la consacrazione definitiva in patria e che rappresenta secondo i critici l’apice della sua produzione letteraria. In quest’opera Silone racconta, attualizzandola ed evidentemente rispecchiandovisi, la storia di papa Celestino V, quello del “gran rifiuto”, che proprio in terra d’Abruzzo, nacque e si ritirò a vivere da eremita, rifiutando di tradire la purezza del messaggio evangelico.
La sua salute, cagionevole fin dalla giovinezza, gli impongono una progressiva diminuzione dell’impegno di scrittore e di osservatore politico, determinandone la morte a 78 anni.

IL SEME SOTTO LA NEVE. Fra il ‘35 e il ‘36 (a p. 154 si fa cenno a “l’attuale guerricciola d’Abissinia”) Pietro Spanò, ultimo rampollo di una famiglia di contadini agiati che sono ormai, da qualche generazione, entrati nel novero dei notabili di un borgo abruzzese, cioè della cerchia dei “don” (fra i quali c’è anche qualche “don” sacerdote), è rientrato clandestinamente nel suo paese natale, a casa della nonna, donna Maria Vincenza, dopo - si intuisce - esperienze di militante antifascista vicissitudini che lo hanno portato anche all’estero. Per l’appunto, lo si intuisce e mai viene detto cosa abbia fatto da antifascista. D’altra parte nel romanzo non c’è nessun riferimento esplicito alla storia di quegli anni, anzi la politica è chiamata “oratoria”o “arte oratoria”, il fascismo è sistematicamente denominato con le parole “nuova oratoria” e “nuova eloquenza”, e i gerarchi fascisti sono chiamati “(nuovi) oratori”. Il protagonista mi ricorda il personaggio interpretato da Gian Maria Volonté in “A ciascuno il suo”, per la sua sostanziale incapacità di capire la realtà delle cose e degli uomini, insomma per la sua inettitudine. Che però nel caso di Pietro attinge livelli tali che ne fanno un personaggio del tutto irrealistico, ancora più degli altri, in quanto è evidentemente presentato come “puro” e perciò “ideale”. La stragrande maggioranza del testo è occupato da conversazioni, come dirò nel paragrafo successivo, menre l’azione consiste sostanzialmente negli sforzi che la nonna e Simone fanno per salvarlo dal carcere, finchè lui, in un estremo conato di amore per gli ultimi, anzi l’ultimo, cioè il povero scemo che ha preso a cuore, non si attribuisce la responsabilità del parricidio da questi perpetrato. Mah!

CARATTERISTICHE STILISTICHE. Mi dispiace moltissimo, dopo aver letto della vita di Silone, dover dire che sono stata molto delusa da quest’opera, che ho voluto leggere perché “Fontamara” è una delle pietre miliari della mia formazione di adolescente. Questo romanzo è una sequenza infinita di scene teatrali, senza però un crescendo di tensione: si ha l’impressione che si continui a battere la panna in attesa di un esito rivelatore, però alla fine la panna non monta e anzi si liquefa con quell’atto incomprensibile di Pietro che ho detto sopra, utile solo a mettere fine a un romanzo che non sa dove va. Perchè non è realistico che siano spacciati per buoni quel paio di personaggi che si isolano perché tutti gli altri sono cattivi. Insomma, questi “semi” che stanno sotto la neve dell’universale cattiveria non sono semi di bontà se l’umanità è tutta uniformemente cattiva. Oltretutto, a me sembra che in questo romanzo si senta in maniera troppo diretta l’influenza di certi autori che sicuramente Silone ha letto. In particolare Balzac, Flaubert e Zola, oltre a Verga beninteso. Balzac perché nella Commedia umana l’avidità è uno dei vizi capitali degli uomini, però intanto in Balzac l’azione è sempre ben condotta, l’umanità non è tutta uniformemente dominata dall’avidità come nel mondo di Silone, e poi Balzac rende affascinanti anche i suoi mostri. Quanto all’influenza di Flaubert, Silone mi ricorda il piglio quasi cinematografico della descrizione, in Madame Bovary, dei “comizi agricoli”, laddove nei primi capitoli, i più riusciti, “riprende”, spostandosi dagli uni agli altri, i vari gruppi di personaggi nell’atto di conversare tra loro. L’influsso di Zola, infine, ma anche di Verga, con la sua “narrazione corale” (ricordi dei tempi del liceo) è presente nella tecnica di raccontare attraverso il punto di vista dei personaggi. Però Zola racconta fatti cui i personaggi prendono parte, mentre Silone mette in scena, sistematicamente, dei conversari, peraltro ripetitivi, sempre tutti invariabilmente pervasi da invidia avidità e paura di compromettersi. Insomma i suoi personaggi non fanno che parlare.
Mi spiace per Silone, ma ... pollice verso. Rileggerò “Fontamara” per un confronto e per vedere se mi ero sbagliata cinquant’anni fa.

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Fontamara, Vino e pane
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Il seme sotto la neve 2011-10-27 18:42:45 Renzo Montagnoli
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    27 Ottobre, 2011
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Uno strumento di battaglia civile

“Non avevo mai pensato che una zolla di terra, osservata da presso, potesse essere una realtà così viva…La stranezza è giusta: sono nato qui, in campagna, e poi ho viaggiato mezza Europa, sono stato una volta, per un congresso, fino a Mosca; quanti campi, quanti prati ho dunque visto…; eppure non avevo mai visto, in quel modo la terra…Quale avvenimento emozionante fu per me un mattino la scoperta, in quella zolla di terra, d’un chicco di grano in germoglio.”


Il seme sotto la neve esce nel 1941 a Zurigo in lingua tedesca e il medesimo anno a Lugano in italiano, quando Ignazio Silone ha già raggiunto fama internazionale prima con Fontamara e poi con Pane e vino. Come in quest’ultimo romanzo il protagonista principale è l’esule antifascista Pietro Spina, che può essere considerato, a buona ragione, l’erede di Berardo Viola, il personaggio principale di Fontamara. Silone realizza così una trilogia, affascinante, di alto valore letterario e storico, su un tema, per niente facile, e che è rappresentato dalla condizione sociale in epoca fascista, anche se in questo si innestano altri filoni, che vanno dall’analisi attenta dell’arretratezza economica alla ricerca di un senso della vita, al di sopra di qualsiasi ideologia politica.
Le esperienze che l’autore aveva avuto, i contrasti insanabili, dapprima con i membri del Partito Comunista e poi con la sua stessa coscienza, avevano fatto maturare una visione realistica della situazione con uno sbocco di altissimo valore cristiano, una soluzione proposta non per un determinato periodo, ma per il futuro dell’esistenza umana, con il ricorso alla gratuità in contrapposizione alle leggi fameliche e distruttrici di un’economia di mercato.
Se Vino e pane è un romanzo dalla struttura armoniosa che trasmette, senza impedimenti, un flusso continuo di emozioni, lo stesso non si può dire per Il seme sotto la neve, a tratti eccessivamente elaborato, a volte grevemente statico, altre ancora invece arioso, quasi etereo e in questi casi entusiasmante.
C’è da dire, però, che la condizione dell’autore, nei suoi contrasti con la realtà dell’ideologia in cui così tanto aveva creduto, unita all’assenza, forzata, dal proprio paese, alimentano un desiderio maniacale di rappresentare un mondo soffocato da una coperta di silenzi, di omertà, di timori, di sostanziale amoralità; si tratta di un compito di per sé estremamente difficile e che lascia tracce nell’ambito strutturale, che si presenta altalenante, con una parte intermedia lunga e sovente pesante, quasi da scrittore russo dell’ottocento, ma con le pagine iniziali e finali che riscattano ampiamente il disagio, peraltro modesto, che si incontra appunto nella lettura della parte centrale.
Tuttavia, è necessario evidenziare come le lunghe pagine in cui si parla dei salotti dei gerarchi, dei loro discorsi di eloquenza senza costrutto, ma dove anche si intrallazza, sono, oltre che indispensabili, anche altamente illuminanti di un epoca di abulia e di sciocco servilismo che ricorda, non poco, i nostri giorni.
Lì ci sono assenze di anime, pavoneggiamenti da infanti viziati, crudeltà, quella crudeltà propria del mediocre che ricopre un ruolo superiore senza averne il merito, né l’umiltà. La vacuità è la norma, come gli sgambetti, come la conduzione di una vita ben lontana da qualsiasi convincimento di solidarietà, di unione, di partecipazione per uno scopo comune, se non, e solo a volte, per un affare dai contorni ben poco puliti. Questa nuova società assume così le caratteristiche di una vera e propria cricca, servile, forte con i deboli, sottomessa con i forti.
Ne deriva un clima pesante, di sospetti, di delazioni, di paure, di astrazione da una realtà troppo opprimente, in cui, chi non è parte degli ingranaggi, finisce con il vegetare.
Ma come sotto la neve germoglia il seme del grano, sotto questa coltre soffocante c’è ancora chi anella alla libertà e alla giustizia, come Pietro Spina, e vi sono anche altri germogli dormienti, ma che, se stimolati, possono crescere, come Simone la faina e il sordo Infante, e altri ancora. Basta camminare per queste terre di miseria, per queste montagne brulle e quasi inospitali - ma accorato e tenero è l’amore per la propria terra così lontana – per trovare altri che hanno una dignità, per dare loro una speranza, e in questo Pietro Spina, sceso fra loro, resosi umile fra gli umili, è un maestro, anzi verrebbe voglia di dire che è il Messia.
Apprenderà e insegnerà il significato autentico della parola libertà, si donerà agli altri per ricevere quel poco, ma che è invero tanto, che gli daranno, e infine, in un convinto altruismo, rinuncerà alla libertà del proprio corpo, per essere definitivamente libero, un gesto non fine a se stesso, ma che tanto ricorda il sacrificio di Gesù Cristo per la salvezza degli uomini.
Il seme sotto la neve, pur con i limiti che ho sopra evidenziato, è talmente bello e profondo da poterlo considerare un altro capolavoro di questo grande scrittore abruzzese.


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