Narrativa italiana Romanzi L'anniversario
 

L'anniversario L'anniversario

L'anniversario

Letteratura italiana

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Si possono abbandonare il proprio padre e la propria madre? Si può sbattere la porta, scendere le scale e decidere che non li si vedrà più? Mettere in discussione l’origine, sfuggire alla sua stretta? Dopo dieci anni sottratti al logoramento di una violenza sottile e pervasiva tra le mura di casa, finalmente un figlio può voltarsi e narrare la sua disgraziata famiglia e il tabù di questa censura “con la forza brutale del romanzo”. E celebrare così un lacerante anniversario: senza accusare e senza salvare, con una voce “scandalosamente calma”, come scrive Emmanuel Carrère a rimarcarne la potenza implacabile. Il racconto che ne deriva è il ritratto struggente e lucidissimo di una donna a perdere, che ha rinunciato a tutto pur di essere qualcosa agli occhi del marito, mentre lui tiene lei e i figli dentro un regime in cui possesso e richiesta d’amore sono i lacci di un unico nodo. L’isolamento stagno a cui li costringe viene infranto a tratti dagli squilli di un apparecchio telefonico mal tollerato, da qualche sporadico compagno di scuola, da un’amica della madre che viene presto bandita. In questo microcosmo concentrazionario, a poco a poco si innesta nel figlio, e nei lettori, un desiderio insopprimibile di rinascita – essere sé stessi, vivere la propria vita, aprirsi agli altri senza il terrore delle ritorsioni. Con la certezza che, per mettersi in salvo, da lì niente può essere salvato.



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L'anniversario 2025-09-08 16:19:21 lego-ergo-sum
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lego-ergo-sum Opinione inserita da lego-ergo-sum    08 Settembre, 2025
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L'enigma di una Madre

Molti, compreso l’autore, lo hanno definito un romanzo sul patriarcato, ma la vicenda narrata appare più quella di una famiglia disfunzionale che quella di un padre-padrone. Al posto di quest’ultimo c’è invece un uomo debole, incapace di controllare la sua rabbia, egoriferito all'eccesso, la cui violenza non è la conseguenza di un sistema sociale di regole, ma il portato di un vero e proprio caso clinico (ricordiamo che siamo dinanzi ad una autofiction, frutto di rielaborazione e di invenzione, e non ad un racconto autobiografico). E comunque non è certamente a questa figura che si deve guardare per cogliere il valore e il senso de L’anniversario, perché il personaggio più originale, più vero, quello su cui si sofferma e, per così dire, si tormenta la fantasia creativa dell’autore, nel tentativo di fissarla e di individuarla, è quello della madre. Succube del marito, rassegnata al suo ruolo di vittima, ripiegata nell'ombra, incapace di avere di sé un briciolo di autostima, ella appare talmente appiattita sulla figura del marito che il narratore deve porsi innanzitutto l’obiettivo di staccarla dall'immagine di lui con il bisturi della memoria, selezionando quei momenti in cui ebbe un suo ruolo autonomo, una sua peculiare fisionomia. Sul piano della scrittura è sintomatico che il narratore ricorra frequentemente alla negazione per costruirne l’immagine, ad esempio nel riferire il contenuto di una telefonata con la quale lo invitava a farsi vivo : “Ma mio padre -ripeteva- era pronto a perdonare la mia temporanea lontananza. Di sé non diceva niente, non riteneva potesse essere di qualche rilevanza. Non c’era disperazione, in quello che diceva, credo sapesse già che non c’era nulla da fare, ma andava fatto anche quell'ultimo tentativo di madre”(p.118). Si veda anche il commento ad una sua mail di tenore non diverso, spedita dopo aver subito una rapina: “Qualche ora dopo arrivò la mail di mia madre… Non si menzionava tra le persone che contavano. Non nominava il borseggiatore né la lussazione. Non nominava mia sorella o le nipoti. Chiudeva dicendo che non capiva come mai mi fossi allontanato” (p.126). L’occhio del figlio-narratore indugia su alcuni particolari che la mostrano goffa, patetica, non senza un margine di tenerezza: la caviglia sottile, la leggera, quasi impercettibile zoppia, esito della polio contratta da piccola, la sveglia portata con sé in uno dei primi appuntamenti col futuro marito, non avendo trovato l’orologio nell'ansia frenetica dei preparativi. Né sfugga l’incipit del romanzo e forse il suo momento più prezioso, quando violando le regole (assurde, ma consolidate da una inveterata sottomissione) sopravanza il marito sulla soglia nell'atto di congedare il figlio e gli domanda: “Tornerai a trovarci?" (p.12). Nulla c’era stato in apparenza, almeno durante quella cena, che lasciasse presagire la catastrofe, ma aveva avvertito prima degli altri, prima dello stesso interlocutore, l’appressarsi dell’imminente e definitiva rottura. Se la condanna del padre è netta, recisa, senza possibilità di riscatto, questa figura sottile rimane quasi enigmatica e a tratti si ha l’impressione che ella abbia piena coscienza della nevrosi da cui il marito è affetto e che il suo mettersi da parte, il suo cedere sistematico, il suo ruotare intorno a lui come l’ultimo e il più sperduto dei satelliti, sia una più o meno consapevole strategia per salvare matrimonio e famiglia. Tentativo vano e fallimentare, ma non lascia indifferenti, tra i battiti nascosti della scrittura, quell'ultima scena in cui il protagonista, osservando il suo bambino che dorme, coglie sul suo viso i tratti materni (p.127).
Lo squilibrio del padre e l’assurda negazione di sé della madre trovano una conseguenza inevitabile nella nevrosi del figlio, costretto a ricorrere ad una psicoterapeuta ottantenne, che riceve anche a Natale e prolunga al telefono le visite dei suoi pazienti quando ne hanno bisogno. Questa vecchietta sempre più striminzita nel suo camice bianco è una delle creazioni poetiche più originali del testo.
Alcuni lamentano una qualche freddezza dello stile. In realtà si tratta di quella ricerca della precisione di cui si parla nel finale e che viene annoverata tra gli insegnamenti ricevuti dalla figura sapienziale dell’analista. Al contrario, dall'intera rievocazione, traspaiono un’emozione trattenuta e l'agitarsi, come una sorta di sottotesto, di una domanda che anche il lettore si pone: fu giusta quella separazione, non fu forse eccessiva, troppo brusca, severa, punitiva? Il fascino del romanzo sta proprio in questo dubbio che si insinua tra le sue pagine e rischia di rovesciarne il senso razionalmente dichiarato. Ciò che probabilmente rappresenta la vera misura del suo fascino.

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L'opera di Bajani si inserisce nella ricca tradizione del romanzo familiare italiano, rinverdito nell'ultimo periodo da Leggenda privata di Michele Mari e Via Gemito di Domenico Starnone.
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L'anniversario 2025-04-06 15:43:38 Mian88
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    06 Aprile, 2025
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Retroscena della scena

«Se non ho mai scritto di mia madre, né ho mai avuto un pensiero su di lei, è perché per farlo va scorporata da mio padre. Il che comporta un’operazione delicata, richiede un’attitudine chirurgica specifica, una freddezza della mano. Richiede lentezza e precisione, un bisturi grammaticale. Cioè puntare le parole nelle porzioni non ancora compromesse. Individuarle, isolarle dal resto, e poi incidere, fare male con nettezza.»

Cosa si cela dietro l’apparente normalità? Cosa si cela dietro quel mondo casalingo e quotidiano dove tutto sembra andare perfettamente dal di fuori, limitandosi alla facciata?
Prima grande caratteristica del testo è quella della spersonalizzazione: ogni soggetto e io è individuato solo per mezzo del proprio ruolo di figlio, madre, padre, sorella, madre di mio padre etc; nessun volto ha però un nome e una definizione ideologica di caratterizzazione. Il protagonista e voce narrante del figlio si caratterizza per fare un qualcosa di estremamente lontano al nostro quotidiano vivere: abbandonare i genitori. Un abbandono che è vissuto senza rimorso, senza dubbi. Un abbandono che dopo dieci anni è ancora concepito come una liberazione. Perché quel legame che troviamo tra queste pagine e che Bajani recide per mezzo del suo personaggio è un legame tossico, non sano, non benefico. Siamo in una famiglia disfunzionale, un microcosmo logorante e dove a regnare è la brutalità esplicita e la violenza sottile e onnipervasiva di un padre su tutti gli altri soggetti. Da qui segue l’abnegazione di una madre, l’incapacità generale di rispondere a quelle prevaricazioni e a quegli abusi psicologici.

«Questa, fra tutte, credo che sia stata la più grande responsabilità di mio padre. Venne colpita a morte e sopravvisse lasciandosi morire. Il che, tra tante cose tristi che se ne possono dire, fu anche uno spreco.»

Ed ecco allora che osserviamo a nostra volta quel figlio che assiste impotente alla realtà di quel padre e di quella madre. Il padre è un uomo che mira all’affermazione del proprio io per mezzo di autoritarietà e irascibilità. È un uomo che nasconde un bisogno d’amore e che per mezzo di scenari violenti, tiene in scacco a famiglia. Il tutto tramite a una logica patriarcale per la quale la minaccia era la costante imprescindibile che si fondeva alla paura insita in noi.
La madre, di contro, non è tanto vittima quanto donna che sceglie di annullarsi, di vivere ai margini. Davanti alle violenze del marito cerca di sopravvivere con il suo essere servile così da portarlo a chiedere un perdono per venire “assolto”. Un rapporto contraddittorio, perverso, malsano in cui per la donna la morte finisce con l’essere un qualcosa che semplicemente accade così come vale per la vita. Come scorporare la figura della donna da quella dell’uomo? Come restituirle centralità?

«Questo, in generale, credo fu uno dei grandi fraintendimenti tra i miei genitori: lui voleva che lei fosse niente per potere, lui, essere qualcosa, e lei voleva essere niente perché essere niente era almeno qualcosa.»

Bajani non ha paura di toccare e minare una delle istituzioni più consolidate e intoccabili del nostro vivere; la famiglia. Non teme, ancora, di mostrare il male che può celarsi dietro alle apparenze.
“L’anniversario” di Andrea Bajani racconta una realtà fatta di apparenze normali, una realtà in verità carceraria e claustrofobica e vi riesce con l’ausilio di una penna asciutta, diretta, priva di fronzoli, che scava, entra dentro, taglia e incide come un bisturi. In sole 128 pagine sa essere evocativo, lirico ed ancora metafisico. Un testo forse piccolo nella mole ma non certo nel contenuto.

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L'anniversario 2025-03-14 18:00:44 68
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68 Opinione inserita da 68    14 Marzo, 2025
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Quale salvezza?

…una finzione protratta per quarantuno anni, giorno dopo giorno…

Un lessico famigliare ripetuto, gesti che fanno male, monosillabi di infelicita’, silenzi parlanti, giorni trascorsi in un ristretto spazio non condiviso, lo sguardo sulla propria sofferenza, su quello che resta di se’ nella consapevolezza tardiva di una vita da viversi altrove.
Le parole addolorate di un figlio quarantunenne in un romanzo sulla famiglia che ritorna all’ origine, a quei genitori abbandonatati da dieci anni, un racconto dell’ inverosimile, quel legame ancestrale che sopravvive al proprio senso insensato.
Nella stesura del romanzo il potere dell’ invenzione supera il ricordo separandosi dal reale per accedere al vero, scindendo i genitori l’ uno dall’ altro per viverli singolarmente, la scrittura un modo per leggersi dentro, trasferire emozioni inarrivabili, sentimenti difficili da allocare, grazie alle parole giuste, scavando nei ricordi, in un dialogo personale e con quella parte degli altri incisa dentro di se’.
Il breve romanzo di Bajani penetra con grazia, eleganza e una certa dose di imbarazzo i segreti inconfessabili di una famiglia come tante, vestita di normalità, una vita apparecchiata per conservarsi, al suo interno errori, mancanze, violenze, una coazione a ripetere, ruoli stabiliti cui attenersi.
Tra le pagine dettagli, riflessioni, ricordi, un giudizio personale schietto, il tacito dolore di un figlio nel difficile compito di rivelare l’ incomprensibile.
I propri genitori, figure antitetiche e complementari, una simbiosi costruita sulla fragile negazione dell’ una e sull’ ingombrante presenza dell’ altro, un rapporto di forze squilibrato ma necessario per sopravvivere.
Della madre poco da dire, una vita piccolo borghese, studi classici, nessuna traccia prima del matrimonio, un corpo inesistente, una donna timida e schiva che ha fatto di tutto per non apparire, una presenza-assenza che ha sacrificato se stessa per preservare l’ idea di un amore.
Per contro un padre-padrone violento, maniacale, manipolatore, che si legittima delegittimando gli altri, un passato irrisolto, che esige scuse dalle sue vittime, figlio di un patriarcato che rasenta il totalitarismo, voce unica e braccio della legge.
All’ interno di questa idea di famiglia distorta e manipolatoria i due genitori sopravvivono ai propri fraintendimenti, il niente dell’ uno nell’ ingombrante presenza dell’ altro, il non essere già’ qualcosa, un patto vicendevole mai espresso, il loro segreto, un corpo che si sottrae e uno che avanza, negandosi per legittimare una presenza, perdonando per farsi perdonare, la consapevole e irrazionale protezione dell’ altro dal male che fa a tutta la famiglia.
Dopo il trasferimento da Roma, negli anni ‘ 70 epicentro della vita socio-politica italiana, alla provincia piemontese, c’è chi vive in uno spazio intermedio tra il succedersi delle cose e il prenderne atto, uno stato di distrazione per salvarsi, la negazione di se’ per non essere visti e colpiti.
C’è chi fa uso della violenza per farsi amare, trasformando la vita dell’ altro in un deserto, un luogo che solo una madre è in grado di abitare, rinunciando a tutto e a tutti, una donna che non ha paura del marito.
C’è un figlio che non ha avuto la forza di denunciare, di andarsene definitivamente, avvelenato e costretto all’ anestesia del presente, tra parole ripetute e insignificanti, gesti che pesano come macigni, lo sguardo sull’ inguardabile, chiedendosi origine e significato di tutto questo, occhi che guardano altrove, a un amore, a un’ idea di famiglia sostitutiva, a qualcuno che sappia ascoltare e dare consigli.
E ci sarà un distacco, inevitabile, definitivo, per riuscire a vivere, respirare, assaporare la libertà , grato a chi gli ha permesso di comprendere che

…uno dei modi per esprimere la violenza era la distruzione ma l’ altro, più importante e per così dire virtuoso, era la precisione…

L’ Anniversario affronta un tema ben noto, la famiglia come convenzione sociale, sede di violenze fisiche e psicologiche, così lontana dall’ idea di focolare domestico in cui crescere, amare, essere amati. Lo fa a posteriori, quando tutto ormai è perduto, paura e timore hanno capillarizzato le vittime designate riducendole al terrore e alla masochistica indifferenza.
Nel mezzo una vita a propria immagine e somiglianza da parte di chi, a sua volta, si ritiene una vittima, forse lo è stata, e continua a imperversare sulla propria famiglia, ignorandone l’ essenza primaria.
Il dolore può cronicizzare, ci si può convivere, a lungo e con mille artifici, ma giunge il momento in cui va definitivamente estirpato, prima che si faccia insopportabile.

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L'anniversario 2025-02-15 08:41:35 evelyn73
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evelyn73 Opinione inserita da evelyn73    15 Febbraio, 2025
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contesto familiare e sofferenza

Ho acquistato il libro a scatola chiusa, in quanto avevo già molto apprezzato l'Autore, specie in "se consideri le colpe". La prosa anche qui è sublime, t'incanta questa scrittura melodiosa, dolce, penetrante.
Il romanzo, breve, è un intenso racconto delle vicende e dinamiche familiari ricostruite a posteriori dall'io narrante che decide, adulto, di prendere le distanze dai genitori, di fatto abbandonandoli.
La leggerezza che prova, nel lasciarseli alle spalle, è pari alla pesantezza che ha pervaso la sua vita fin lì, pesantezza derivante dal contesto familiare in cui si è (suo malgrado) trovato a vivere.
È un romanzo totalmente introspettivo, psicologico, descrivendo il faticoso percorso del protagonista volto a liberarsi, emanciparsi dalla famiglia di origine, luogo violento, asfissiante, disfunzionale, che ha segnato profondamente la sua personalità. Non è una lettura scorrevole, a tratti l'ho trovata anche pesante, ma ciò è comunque bilanciato dal numero ridotto di pagine. Consente una riflessione importante. A volte si sentono commenti di incredulità di fronte a figli che decidono di troncare i rapporti con i loro genitori, che decidono di non prendersi a carico la loro vecchiaia, che decidono di andare a vivere altrove, molto lontano dai luoghi (bui) dell'infanzia. Non siamo nessuno per giudicare le scelte degli altri, non sappiamo come e dove le persone sono cresciute, come e dove hanno vissuto, quanto hanno patito. La famiglia, lungi dall'essere quel luogo che il sentire comune si ostina a dipingere come il nido, come il posto dove siamo cullati in una bolla di accoglienza, di calore, di amore, diviene a volte in realtà la fonte primaria di disagio e di sofferenza; bambini senza strumenti per capire e per difendersi da pesanti dinamiche relazionali vissute in famiglia; bambini che subiscono violenze, anche sottili, che poi da adulti sviluppano vulnerabilità se non vere e proprie patologie. Questo dunque: serve forza, ma è comunque possibile agire, liberarsi dai sensi di colpa per quello che la società ritiene abietto e pensare, secondo una logica di sano, sanissimo egoismo, a difendere sé, per iniziare a vivere pienamente, liberi dal passato che ingabbiava in sofferenze. E celebrare poi l'anniversario di questa rinascita.

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mi ha ricordato "magnifico e tremendo stava l'amore" di M.G. Calandrone
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