L'ingrato
Letteratura italiana
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Ah le chiacchiere, che chiacchiere!
«Tutta brava gente, per carità, umile e di poche pretese. Ma infarinata con le cose di dentro quanto un pesce con la sabbia […]. Era per le novità che la gente veniva a scandalo. Ciò che andava ad alterare l’equilibrio semplice dei vicoli e delle contrade suonava come una minaccia, facendo storcere il grugno alle comari di vedetta sui balconi; i maschi bofonchiavano all’istante di quanto il mondo stava andando a rotoli.»
“L’ingrato” rappresenta l’esordio letterario di Sacha Naspini in libreria. Viene ripubblicata per Edizioni EO e nella sua struttura anticipa i temi che poi si ritroveranno in alcune delle opere più famose quali, ad esempio, “Le case del Malcontento”. Non mancano per questo le ambientazioni claustrofobiche ed ancora quella focalizzazione interna che sa caratterizzare i suoi scritti ove i personaggi sono voce costante e narrante.
Luigino Calamaio è maestro alla soglia della pensione. Ha bisogno di evadere dalla realtà e vi riesce solo quando nello stanzino del sottoscala copia i quadri di Toulouse Lautrec. Questi sono i momenti in cui può sognare, lasciarsi andare al bisogno di velleità. Per i compaesani è artista stravagante, un fiorentino matto. A fargli da paravento vi è solo il fatto che, tutto sommato, sia un uomo perbene. Ma quanto può bastare questo a tenerlo lontano dalle maldicenze?
Ed è qui che arriva il borgo, comprimario protagonista, un po’ come ne “Le case del malcontento”, già precedentemente citate. Eh sì, perché è proprio nel borgo che si ergono i pettegoli e i giudici, le voci che mormorano e che sondano e scrutano ogni movimento del maestro. Questo soprattutto quando si avvicina a Chiaretta offrendole il suo aiuto e prendendo da lei il colore per i suoi dipinti. È qui che il paese ancor di più vocifera spietato e incurante del danno di voci false e bugiarde. Di contro l’uomo pensa, pensa, pensa, pensa e pensa ancora. Pensa alla sua esistenza in cui non si riconosce pienamente, pensa al suo passato, alla sua giovinezza ormai trascorsa, invidia quei giovani che sono animati da quella scintilla che lui osserva e vede nei quadri di Lautrec.
Poco importa se a farne le spese, di tutto questo vociferare, è l’anima stessa.
«Se le donnette del paese avessero avuto cura delle persone come ne avevano per i vasi dei ballatoi, sarebbe stato un altro mondo.»
“L’ingrato” è una storia che sin da subito si sedimenta nella mente, questo anche grazie a un personaggio che viene percepito quale vivido e reale dai lettori. È anche la storia di una ossessione, della ricerca costante di “quel senso” per mezzo dell’arte. Quest’ultima sconvolge le carte, travolge e rende l’uomo fiero ed orgoglioso di sé e di quello sguardo con cui guarda al mondo. La realtà è però un’altra: tutto ciò non fa che allontanarlo dalla realtà, dalla comunità che lo circonda.
E se da un lato l’arte lo riscatta, egli si riscopre artista e in questa trova il suo perché, dall’altro ecco che il mondo fuori lo condanna e sfocia e affonda nel grigiore del bieco e pusillanime. Non ammette e contempla riscatto di alcuno. Perché non esiste riscatto alcuno per i deboli e ancor meno per i diversi.
Al tutto si somma uno stile narrativo minuzioso, pungente, stigmante per i dogmi del chi non è accettato perché diverso. Le scene sono ben descritte, le sequenze rapide, i personaggi tridimensionali e tangibili per chi legge. Non mancano, ancora, i giusti colpi di scena.
“L’ingrato” uscì per la prima volta nel 2006 con Effequ Edizioni, è stato poi ripubblicato dal Foglio Letterario nel 2010, è stato diffuso anche gratuitamente in forma di e-book successivamente a scopo promozionale ed ora torna in libreria con questa nuova veste grafica made in Edizioni EO. È un testo in cui Naspini ricompone una sorta di remake di Lolita, una Lolita di provincia e priva di ogni implicazione sessuale. Il testo rappresenta una perfetta novella maremmana in tutto e per tutto.
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Maldicenza di provincia
Primo romanzo di Sacha Naspini, L’ingrato già rivela le indubbie qualità di questo giovane autore e che potrei sintetizzare in una scrittura matura, ma mai greve.
In effetti in questo libro si avvertono alcune linee base che poi si ritrovano, perfezionate e in piena sinergia, ne I sassi.
L’analisi psicologica approfondita, l’ambientazione definita nei suoi aspetti essenziali, quasi delle indicazioni, e una trama senza intoppi sono caratteristiche che appaiono proprie di Naspini e quindi non dovute al caso, delle vere e proprie fondamenta su cui contare per dare vita a nuove situazioni, a vicende che non sono mai ripetitive.
I pregi e i difetti della provincia (nel caso specifico un paesino toscano) sono il pretesto per una spietata denuncia della maldicenza, di questo vizio sottile, latente anche in persone insospettabili e che appare come una valvola di sfogo per frustrazioni sempre presenti.
Certo il maestro Calamaio, il personaggio principale, ha anche le sue stranezze, come quella di spiare le bambine quando vanno in bagno, ma quest’anomalia, che si limita a una semplice osservazione, appare quasi insignificante rispetto all’acredine, alla storia del tutto inventata che sorge in questo paesino e che attecchisce in modo estremamente rapido.
E non è che la vox populi lo condanni per questo spirito guardone, ma per qualche cosa di immorale che gli stessi creatori ignorano e che nasce come frutto di fantasticherie che si dilatano di bocca in bocca, come a dire che uno starnuto nel giro di tre vie diventa un boato.
No, a Calamaio gli si rinfaccia l’ingratitudine, non gli si perdona che lui, accolto in paese proveniente dalla città, non abbia accettato le regole ferree che regnano sovrane nel tempo e che rendono una comunità al tempo stesso carnefice e vittima di se stessa.
Per dirla più chiaramente, Calamaio ha violato i confini sacri non tanto dell’etico, ma del conformismo, delitto senza possibilità di appello in una società chiusa che può solo accettare o respingere.
Fatto il primo passo, la maldicenza si amplifica, trae forza dalla sua stessa debolezza di iniziare da una bolla di sapone, perché è evidente che si viene a creare un inconscio legame fra chi per primo ha cominciato e l’ultimo che chiude e riapre il cerchio, in una sorta di girotondo senza fine.
L’individuo preso di mira non ha più cittadinanza e vive un’emarginazione che è fatta di forzata solitudine e di dispetti ricorrenti, quasi fosse considerato un corpo estraneo da cui liberarsi.
Il pregio dell’opera sta proprio nella capacità che ha avuto Sacha Naspini di rappresentare questa realtà, che non è un caso limite, ma che invero è frequente, con quella distorta volontà di trovare a tutti i costi un capro espiatorio su cui sfogare le proprie pulsioni represse.




























