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La chiesa della solitudine La chiesa della solitudine

La chiesa della solitudine

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Maria Concezione uscì dal piccolo ospedale del suo paese il sette dicembre, vigilia del suo onomastico. Aveva subita una grave operazione, le era stata asportata completamente la mammella sinistra, e, nel congedarla, il primario le aveva detto con olimpica e cristallina crudeltà: Lei ha la fortuna di non essere più giovanissima, ha vent'otto anni mi pare, quindi il male tarderà a riprodursi, dieci, anche dodici anni. Ad ogni modo si abbia molto riguardo: non si strapazzi, non cerchi emozioni. Tranquillità, eh?



Recensione della Redazione QLibri

 
La chiesa della solitudine 2015-01-09 11:17:05 silvia t
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silvia t Opinione inserita da silvia t    09 Gennaio, 2015
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La chiesa della solitudine

Dal buio ovattato e privo di sogni, attraverso le palpebre chiuse, la luce con violenza riporta alla vita e l'odore di morte e di malattia si rarefà laciando una sensazione di stordimento e panico; un nemico è stato estirpato, ma il danno più grande è stato ormai fatto: la convinzione tipica dei giovani di essere immmortali si è dissipata e con essa la possibilità di progettare un'esistenza che si sente come condannata e quindi inutile.

Così deve sentirsi Maria Concezione una volta scoperto che l'intevento a cui è stata sottoposta l'ha liberata da un cancro mammario, ma non certo dalle metastasi che inesorabili avrebbero rosicchiato ogni sua goccia di linfa vitale, col tempo, in modo lento, ma continuo.
Il più autobiografico dei romanzi della Deledda, senza dubbio il più intenso che abbia mai letto.
L'essenza che sottende alla struttura che lo sostiene è il senso di colpa, atavico, vissuto come precetto religioso che si oppone ad ogni pulsione carnale.
Come già avvenuto per Elias Portolou la lettura avviene in modo veloce, un lento susseguirsi di azioni, di sguardi, sensazioni ed emozioni.
Non è il piano narrativo a suscitare l'interesse del lettore, perché questo appare lineare, privo di guizzi talentuosi o originali: la vicenda è semplice e a tratti banale, ma gli attori che la interpretano la rendono viva, nonostante la morte che aleggia ovunque e che rende quasi palese la sua presenza nella pur totale assenza di consapevolezza da parte di tutti ad eccezione della malata.
I personaggi sono i fili colorati che compongono il ricamo, si intrecciano dando sostanza ad un canovaccio che altrimenti sarebbe scarno e anonimo.
Lo stile della Deledda è ancora più moderno ed essenziale che in passato: abbandonata quasi del tutto l'ispirazione verista attinge dal decadentismo, ma crea uno stile tutto personale che affonda le radici in un terreno imbibito si religione, ma anche di superstizione, di provinvialismo ed egoismo.
Ancora una volta descrive la Sardegna per raccontare il mondo, racconta la storia di Maria Concezione per parlare dell'Umanità.

Va letto, lasciato decantare e come un buon vino d'annata assaporato con calma e pazienza, affinchè possa penetrare nel profondo del proprio essere.

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