Narrativa italiana Romanzi La primavera del lupo
 

La primavera del lupo La primavera del lupo

La primavera del lupo

Letteratura italiana

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Pietro, un orfano di dieci anni, ci racconta la sua fuga rocambolesca da un convento su un'isola veneziana insieme a un gruppo di singolari compagni, negli ultimi mesi della Seconda guerra mondiale e nell’attesa spasmodica della liberazione. La storia di Pietro e di Dario è una fuga dalla guerra e dal suo linguaggio torbido e ottuso, dalla violenza che tutto contamina. E alla lingua dell’infanzia, con la sua incredibile capacità di accogliere e divertire, di sconvolgere e amare, spetta il privilegio di mettere alla berlina l’odio e la paura che minacciano e governano il mondo.



Recensione della Redazione QLibri

 
La primavera del lupo 2013-05-15 15:51:40 Maso
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Maso Opinione inserita da Maso    15 Mag, 2013
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Gli instancabili cercatori di senso

La guerra vista con gli occhi del bambino, filtrata da un immaginario differente e meno consapevole, è qualcosa che è già stato presentato ai vasti pubblici in varie e numerose vesti. Un tentativo di reinterpretazione di questo genere di lettura non mi sembra al momento un affare da poco. Mi pare addirittura un tentativo che mostra molto coraggio, visto il panorama già ricco di esempi. E credo di poter gioiosamente affermare che Andrea Molesini, con “La primavera del lupo”, abbia fatto centro, senza riserve. Ne sono veramente contento, così come lo sono di aver avuto la possibilità di leggere questo delizioso libretto. Ad essere così “deliziosa” non è certo la parte più meramente contenutistica del romanzo, ovvero quella più strettamente legata alla guerra nelle sue fasi del tramonto, con le sue ben note crudezze. Ciò che invece colpisce positivamente, ciò che incanta, è la straordinaria bravura dell’autore nell’imitare così accuratamente il modo di pensare, parlare, agire proprio dei bambini decenni, con i loro ragionamenti in alcuni casi sorprendentemente ineccepibili, per quanto balzani e teneramente puerili agli occhi raziocinanti del lettore adulto. Ragionamenti che nella loro sbagliata illogicità fanno sorridere e al contempo possiedono una potenza evocativa straordinaria, tipica piuttosto di linguaggi poetici molto più astratti e complessi. Le immagini che il protagonista, Pietro, di dieci anni, evoca inconsciamente si caricano di un lirismo raffinato, con quella nota di magico/surreale che determinate situazioni e determinati oggetti sembrano racchiudere agli occhi di un bambino. Ed è proprio la voce di Pietro che ci guida nella fuga dai nazifascisti, raccontata dal suo punto di vista sgrammaticato, sebbene sicuro, pungente, ironico, pimpante e meravigliosamente conscio, a suo modo, di una realtà circostante portatrice di paura. Pietro è assieme al coetaneo Dario, “quello che sa i numeri”, e a una eterogenea comitiva in cui troviamo suor Elvira, seconda ed ultima voce narrante della vicenda, frate Ernesto, le attempate sorelle Maurizia e Ada, quelle che quando camminano insieme, di cui una col bastone, sembrano un mostro con cinque gambe chiamato, per praticità, “Mauriziada”. Altri personaggi si aggiungeranno alla comitiva, mentre altri cadranno nelle imboscate del destino, lo stesso che accompagna la rocambolesca fuga da un monastero di un’isola della laguna veneta fino a luoghi in cui cercare rifugio dalle persecuzioni ben note perpetrate nei confronti degli ebrei. Una trama dinamica che si abbina a una narrazione altrettanto dinamica, che merita un’ultima osservazione per mettere in luce un merito da non dare per scontato. Quello dell’equilibrio. Equilibrio stilistico che ha permesso all’autore di non cadere mai, nell’imitazione di un linguaggio infantile, nel lezioso e nella forzata ricerca di ispirare tenerezza. Egli resta sempre su un piano sinestetico di infantilismo che tenta a tutti i costi di apparire adulto. Allo stesso modo della sveglia personalità di Pietro, nel tentativo di dimostrare in ogni occasione la sua maturità, o quello che egli considera tale. E’ tramite lui che abbiamo la possibilità di trarne il lampante messaggio: i bambini capiscono molte più cose di quanto credano gli adulti e di quanto loro stessi diano a vedere. Comprendono anche le situazioni peggiori, nonostante siano così fortunati da avere dei filtri potenti, capaci di addolcire, travisare, proteggere, per quanto possibile, da un mondo che avrà tempo e modo, ainoi, di ferirli in un secondo tempo. Colui che svolge questa funzione, per Pietro, è un lupo immaginario. Forte, mansueto, misterioso, sicuro nella sua figura di garante e protettore della vita e dell’innocenza di quell’infanzia da preservare a tutti i costi. In definitiva, per quanto gli si voglia preservare, per quante precauzioni si prendano per mascherare le peggiori verità, i bambini capiscono, sono vigili, danno spiegazioni e, come dice la stessa suor Elvira, sono “infaticabili cercatori di senso”. Un senso che magari a noi fa sorridere, intenerire, rimembrare, ma che per loro è una certezza in cui credere e con cui spiegarsi quello che accade intorno a loro, come a tutti è capitato di fare da piccoli, come al sottoscritto, che credeva che le cose scure lasciate sotto il sole si scaldassero di più perché il sole stesso, credendole ombre, mettesse maggior luce nei propri raggi per illuminarle.
Sono cose in cui si crede, fino a che non si cresce e tutto sfuma in una consapevolezza più grande, e un po’ meno colorata. Ma questo è.
Leggetelo, sarà un bel viaggio in voi stessi.

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La primavera del lupo 2013-06-07 14:02:51 Renzo Montagnoli
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    07 Giugno, 2013
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Dagli occhi di un bambino

“E adesso sono triste anche se la mia zuppa non scotta più e me la mangio con questo pane buono. Perché delle volte la tristezza viene che non te l’aspetti, e così penso a Mauriziada, penso a Lirlandese, penso a frate Ernesto. Loro sono là fuori che camminano nel bosco sotto la pioggia, forse parlano con i lupi, forse parlano con le faine, dormono nella tana delle volpi e sono contenti che io e Dario stiamo al caldo di un fuoco, nella baita, con la zuppa. Sono fatti di gocce, i morti, e si vestono con gli aghi di pino, borbottano con le civette, entrano nei sogni per ridere e piangere con noi, di noi, dell’aria, dei gufi, delle cose che brillano come le pietre preziose, le stelle e tutto l’oro della luna. Siete voi, Mauriziada frate Ernesto Lirlandese, quelli che mi fido per davvero. Voi che non sento più le vostre voci quando c’è la paura e c’è che si scappa. Voi che di notte siete la pioggia che cade, le stelle che se allungo la mano vanno più in là, voi che di notte siete il mio lupo e una musica che si allontana.”


Ho scoperto Andrea Molesini quasi per caso, anche se lui in campo letterario non era di certo uno sconosciuto, in quanto autore di libri di poesia, di saggistica, e traduttore dall’inglese di opere soprattutto di Derek Walcott. Ricordo che era l’anno 2010 e avevo letto una recensione di Ferdinando Camon al suo primo romanzo (Non tutti i bastardi sono di Vienna), recensione che mi aveva non poco incuriosito per le caratteristiche del libro, ambientato nel corso della prima guerra mondiale al di là del Piave dopo la tragica ritirata di Caporetto.
In quella occasione ho apprezzato la struttura, la narrazione fluida, scorrevole, in un italiano impeccabile, e in generale un’impostazione che, per quanto classica, è riuscita ad avvincermi dall’inizio alla fine, una sorta di lungo adagio che, ogni tanto, si impenna, ma senza mai arrivare a eccessi, insomma quello che si può definire un libro scritto bene e senz’altro molto bello. E infatti ha incontrato un notevole successo di pubblico e anche di critica, ottenendo perfino premi prestigiosi, fra i quali il Comisso e il Campiello.
Del tutto naturale è stata quindi l’attesa per il suo secondo romanzo, La primavera del lupo, uscito sempre per i tipi della Sellerio nella prima metà dello scorso mese di maggio.
Infatti mi chiedevo se questa nuova opera avrebbe potuto riconfermare le eccellenti qualità della prima, oppure se, come abbastanza di frequente capita, il nuovo lavoro, magari pur gradevole, sarebbe risultato inferiore al precedente.
L’ho letto, con immenso piacere, e mi sento tranquillamene di affermare che Molesini ha confermato il suo talento.
La primavera del lupo presenta alcune analogie con il precedente Non tutti i bastardi sono di Vienna (si svolge durante una guerra, non la prima guerra mondiale, bensì la seconda, e anche qui c’è un’occupazione, non quella dell’impero austriaco, ma quella senz’altro più dura e crudele del terzo Reich). Queste le analogie, poi, per il resto, è completamente diverso perfino come impostazione e struttura.
La vicenda di un piccolo gruppo in fuga dai nazisti (si tratta di due bimbi, di cui uno ebreo, di due anziane sorelle, pure esse ebree, di una finta suora, a cui poi si aggregherà in circostanze drammatiche un enigmatico disertore tedesco) potrebbe fare pensare al classico romanzo d’azione, ma non è così.
Infatti l’io narrante, di volta in volta, è Pietro, un bambino di dieci anni, ed Elvira, la finta suora, un’alternanza che, oltre a non stancare, dato l’inevitabile diverso modo di esprimersi, presenta i punti vista dell’infante e dell’adulto che non sono mai coincidenti.
Il primo riesce istintivamente a vedere ciò che più si avvicina alla realtà, il secondo, ormai prigioniero della sua stessa logica, ha un approccio ben diverso, frutto di più di un ragionamento che lo porta ad avere una visione personale.
Ma la forza straordinaria di questo romanzo sta nel linguaggio del bambino, nelle sue osservazioni che, ad differenza dell’adulto, non sono frutto di laboriose riflessioni, ma che risultano istintive, perfino nei suoi giudizi dei grandi. E’ ammirevole e anche stupefacente la capacità di Molesini di esprimersi come se avesse una decina d’anni, nel coniare frasi sgrammaticate, ma di grande valore, un po’, insomma, come se fosse riuscito a retrocedere nel tempo, alla ormai non più vicina infanzia.
E’ del tutto naturale, quindi, che Pietro desti una grande simpatia, superiore a quella degli altri suoi compagni di fuga, ma il gruppo va assottigliandosi nel lungo itinerario che li porta da Venezia a risalire la valle dell’Adige per rifugiarsi in una laterale della Val di Sole, un luogo adatto a ospitare dei fuggiaschi e dei disertori e in cui c’è una baita di proprietà di Elvira. Sempre sotto l’oscura presenza di una lussuosa Mercedes che li segue e su cui si nota la presenza di un misterioso albino, un’ombra malefica che aggiunge terrore alla paura, giungeranno poi alla meta, e mi fermo qui, per non svelare il bellissimo finale che impreziosisce ancora di più un romanzo veramente bello e più che mai avvincente. Scoppiettante, con frequenti colpi di scena, con un ritmo sostenuto e diverso a seconda dell’io narrante, per dirla con l’autore se Non tutti i bastardi sono di Vienna è paragonabile a un’opera di musica classica, La primavera del lupo è invece vero e proprio jazz, ma mai stridente e perfettamente raccordato in un equilibrio armonico di rara efficacia.
Credo che non sia necessario aggiungere altro, perché quando un’opera parla da sé, con le sue qualità, con il suo linguaggio semplice, ma non elementare, è solo opportuno evidenziare, non occorrono spiegazioni, perché queste avvengono spontaneamente in chi legge, tanto che scoprire pagina dopo pagina quanto sia avvincente e appagante finisce con il diventare l’elemento determinante. E solo alla fine resta il tempo per pensare e riflettere, e vi assicuro che di occasioni, passi, frasi al riguardo ce ne sono certamente non poche.
Buona lettura, quindi.

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Non tutti i bastardi sono di Vienna, di Andrea Molesini, edito da Sellerio
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