L'ora di greco
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Saudade
«All’epoca, non c’era ancora una spada tra me e il mondo e mi bastava così.»
Quando Han Kang ha vinto il Premio Nobel per la Letteratura 2024, è stato un po’ uno scompiglio. Tra lettori che già l’avevano letta con la sua “Vegetariana”, vincitrice del Man Booker Prize nel 2016, ed altrettanti che al contrario desideravano, e desiderano, scoprirla, la scelta del titolo con il quale avvicinarsi a lei, è ardua. Ognuno ha con l’autrice un diverso battesimo, chi lo ha avuto con il titolo più famoso, chi con, al contrario, “Atti Umani”, opera tratta da una storia vera e in cui Han riesce a creare un testo tanto veritiero quanto mistico grazie a una prosa evocativa e una serie di volti, vite e storie che si trasmutano nella voce della morte.
Ma si può scrivere un libro per mezzo dei silenzi? Sì, si può. “L’ora di greco” (Adelphi, 2023) è esattamente questo. Premesso che la mia lettura non è fresca perché è passato molto tempo dal giorno in cui ho per la prima volta sfogliato queste pagine, il ricordo ne è però vivido come se la lettura risalisse allo ieri. La prosa, in particolare, è interamente strutturata sul “non detto”, sul “percepito”.
Due i protagonisti di questa storia. Da un lato abbiamo un professore che sta perdendo la vista, dall’altro una donna, sua allieva in un corso di greco, che a seguito di un trauma ha perso la facoltà, o la volontà, di parlare. Entrambi non hanno un nome, cosa che nella lettura diventa superflua.
Pochi, ancora, i dialoghi: tra queste pagine si “parla” con il silenzio. Quello che prende campo in modo sempre più pregnante è l’incontro di due solitudini. Sullo sfondo, Seul. Una Seul rovente, una Seul che è una città in preda a una estate perenne ma che giunge come fredda, una atmosfera invernale, ovattata, fatta di un tempo che sembra essere sospeso.
Ma vi è un altro pregnante tema che regola le sorti de “L’ora di greco” ed è l’incomunicabilità. Questo viene introdotto sin dalla prima pagina per mezzo delle parole di Borges e del suo epitaffio.
«Non pensava più in parole. Agiva senza parole, comprendeva senza parole. Il suo corpo era assediato dentro e fuori da un silenzio che risucchiava lo scorrere del tempo, un silenzio ovattato come prima di imparare a parlare – anzi, come prima di venire al mondo.»
Tornare alla letteratura classica, a Platone, alla lingua greca antica, è un momento di liberazione. È un processo di riapprendimento degli strumenti della comunicazione. Costruire, decostruire ed ancora decostruire e costruire. E Han Kang vi riesce per mezzo di una lingua morta che mira proprio a ricercare il senso ma anche ad introdurre tematiche eterogenee e molteplici che si interrogano e ci interrogano sul senso del vivere ed esistere, sull’amore, sul darci una seconda possibilità.
Ma quando il silenzio cessa di essere privazione e si tramuta in incontro e fusione?
“L’ora di greco” di Han Kang è un romanzo silenzioso ma potente, senza “voci” ma pieno di “voci”, ricco di introspezione e forza evocativa e narrativa. Non è forse un libro immediato, forse non è nemmeno tra i libri più belli della coreana ma, certamente, è un testo che sa dare tanto al suo lettore e non teme di mostrarsi per quel che è in tutta la sua capacità di smuovere cuori e animi.
«[…] Una lingua fredda e dura come una colonna di ghiaccio.
Una lingua di un’autosufficienza estrema, in cui un vocabolo non ha bisogno di combinarsi con nessun altro per essere usato.
Una lingua che fa aprire bocca solo dopo che il rapporto di causa-effetto e l’atteggiamento siano stati irrevocabilmente decisi.»
Indicazioni utili
Parole suadenti
…” i cuori e le labbra che si toccano, uniti ed eternamente separati”…
Il destino silenzioso e opaco di due vite corrose dal tempo, una sofferenza onnipresente in un oggi muto e senza volto. A lezione di greco antico, una lingua fredda e dura, morta ma tuttora vivida nella propria autosufficienza, richiamo di ragione e poesia, un’aula per ricomporre spezzoni di se’, una presenza-assenza rivestita di un tono dimesso, il linguaggio pacato di chi sta perdendo la vista riacquisendo il senso del tempo, il silenzio rarefatto di chi non ha più l’uso della parola imprigionato nell’ assenza di affetti negati.
Una donna muta e un uomo ipovedente, allieva e maestro, infanzie difficili, parole svanite improvvisamente, rinchiuse in un luogo più profondo della lingua e della gola e in un se’ sofferente, la vista che andava peggiorando, un amore sordo con il quale sognare di condividere l’ esistenza.
Oggi non resta che camminare nell’ arsura di una città rovente, sognare per vedere nitidamente, assaporare il suono di parole che bastano, condividere un luogo e la presenza dell’altro in un crescendo di percezione e di comunanza.
Il presente, dopo vent’anni, è un silenzio freddo, pungente, come
…” un ombra privata del proprio corpo”…
è un viso sulle cui guance non scorre nulla, una frase che risuona nella testa,
…” ci è mancato così tanto che non nascessi”…,
la perdita della madre, dell’ affidamento di un figlio, uno stato di necessità in cui ritrarsi progressivamente.
E allora ci si aggrappa al viso del proprio figlio e alle strofe di una lingua morta da incidere sulla carta, l’ uso della parola più lontano senza un vero motivo apparente.
A quarant’anni, condannato alla cecità, i dettagli prendono forma attraverso l’ immaginazione, luci e ombre si fanno indifferenti nel ricordo ancora sanguinante di un amore giovanile perduto per sempre, come per il mondo visibile, le giornate scorrono così’,
…” sotto l’ enorme massa opaca del tempo”…
Un’ unione rarefatta che oltrepassa il linguaggio e la vista, che si nutre di attesa e di silenzi parlanti, che ascolta, attende, assapora l’ altrui presenza, parla di se’ e della propria essenza, scrive parole cariche di senso, che ricorda i versi di un amore perduto, due cuori che si toccano e che continuano a non conoscersi.
….”Giungo le mani all’ altezza del petto.
Con la punta della lingua inumidisco il labbro inferiore.
Mi torco l’emani con movimenti rapidi e silenziosi.
Le mie palpebre tremano. Come ali d’ insetto che sfregano convulsamente tra loro.
Dischiudo le labbra, di nuovo secche.
Faccio respiri più profondi e ostinati.
Quando pronuncio infine la prima sillaba, chiudo forte gli occhi prima di riaprirli.
Come se mi preparassi a scoprire, nell’ istante in cui li riapro, che ogni cosa è svanita”…
Un romanzo quantomai intenso e sofisticato, viaggio stratificato e carezza dell’ anima nonostante quella sofferenza insistente e persistente nel cammino dei due protagonisti.
Avvolti in un silenzio inspiegabile e in una cecità progressiva, le parole non sono mai state così significanti e gli sguardi così dolci e intensi, ricolmi di attesa. Ambientazioni prevalentemente notturne in una Seul appiccicosa e rovente, toni pacati, attese protratte, gesti ripetuti, significati riposti, parole scritte che prendono forma, oggetti avvolti da un’ oscura presenza, frammenti di ricordi che si muovono generando immagini, colori scintillanti che brillano al sole, ombre oscurate dalla notte, morte, dissoluzione, parole terrificanti rivolte a se stessi…
Questo l’ universo poetico di Han Kang, un dono da fare proprio e da custodire gelosamente mentre
…” il silenzio si ammassa come neve che cancella per sempre le tracce”…




























