Narrativa straniera Romanzi La gravità dell'amore
 

La gravità dell'amore La gravità dell'amore

La gravità dell'amore

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È notte quando Jim viene trovato nella neve vicino all'autostrada per l'aeroporto e condotto a Beckomberga, l'ospedale psichiatrico a qualche chilometro da Stoccolma grande quanto una piccola città. Non uscirà per molto tempo, così tanto che la figlia Jackie crescerà e trascorrerà una lunga parte dell'adolescenza dietro la recinzione dell'edificio, tra medici anticonformisti e pazienti dalla seducente follia. La scrittura di Sara Stridsberg è poetica ed evocativa, capace di restituire tutte le pieghe del rapporto tra un padre che non riesce ad appartenere alla vita e una figlia che tenta di guadagnarsi la propria. Con straordinaria delicatezza dà vita alla dimensione mitica, al tempo stesso utopica e terribile, dell'ospedale psichiatrico dove l'ossessione per la libertà e quella per la morte si sfiorano pericolosamente.



Recensione della Redazione QLibri

 
La gravità dell'amore 2016-04-16 17:11:22 Valerio91
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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    16 Aprile, 2016
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Le tragedie tingono gli uomini di grigio

Il libro che mi accingo a recensire ha causato in me delle reazioni un po' controverse.
Partendo dallo stile, l'ho trovato buono, la Stridsberg é molto brava e il suo modo di scrivere non è certo banale, ma la decisione di strutturare questo racconto come un'accozzaglia confusa di ricordi senza un filo cronologico (né logico, a mio parere), ha reso il tutto molto difficile da seguire e capire.
Il romanzo scorre abbastanza bene, ma è anche merito della sua divisione in brevi scene, lunghe in media tre pagine, se non meno. La storia in fin dei conti è interessante, ma non proprio magnetica, e seppure raggiunga buone vette in certi tratti, in altri pare perdersi. Molto spesso si fa fatica a collocare gli eventi nel rispettivo spazio temporale e capita spessissimo di non saper distinguere il sogno dalla realtà. Un momento prima una personaggio c'è, quello dopo non c'è più, quello dopo ancora ce lo ritroviamo di fronte. Ah no, aspetta, era solo un sogno. Forse.
I miei voti potevano salire di almeno un punto, se fosse stato reso il tutto un po' più fluido e lineare.

Jackie è una bimba di Stoccolma. Sembra più grande della sua età, forse per quello che la vita le ha posto di fronte fin da piccola. Non è stata certo generosa con lei. Suo padre, Jim, è matto, o almeno così pare. Passa buona parte la sua vita nell'ospedale psichiatrico di Bockemberga, anche se il controverso dottor Edvard gli permette spesso di uscire. Lui è felice in quell'ospedale, o forse no. Probabilmente non è felice in nessun luogo. La piccola Jackie va sempre da lui, sua madre non la vede mai. Jackie ama suo padre, ama stare in quell'ospedale, come se fosse irrefrenabilmente attratta da tutto ciò che è dannato e che non può amarla di rimando.
Lì Jackie conosce l'amore, l'amicizia, la paura. La sua è una storia triste, come quella di Jim, quella di Sabina, quella di sua madre Lone, come se il loro mondo fosse colorato di grigio dalle tragedie che vi hanno luogo, così lontane dal corpo, così vicine al cuore.
Chernobyl. Odessa. Le guerre mondiali. L'Olocausto.
Non vi è alcun ammonimento in questo libro, non esplicito almeno. Come se l'accusa più grande fossero gli uomini e le donne che di quella realtà sono state il frutto. Un frutto marcio, che considera sé stesso insalvabile e senza futuro.
Un libro forse troppo triste, confuso e pervaso da metafore non troppo chiare, ma comunque non da buttare.

"Ho sempre pensato che avrei potuto salvarti, ma forse non si può salvare qualcuno da sé stesso. Forse hai sempre saputo che non sarebbe stato possibile, solo io credevo che tu lo volessi."

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