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La malora
 
La malora 2015-07-17 18:11:41 Anna_Reads
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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    17 Luglio, 2015
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una bestia da soma con lo svantaggio della parola

La Malora – Beppe Fenoglio, 1954.

Premessa.
Estate di qualche decennio fa, decido di colmare le lacune di “letteratura italiana realista/di guerra”. Quindi me ne vado in vacanza, e fra gli altri porto con me Fenoglio, Pavese e Calvino.
Di Pavese ho letto – per la scuola, alle medie – “La Casa in Collina” e non è un ricordo tale da indurmi ad attaccare “La Luna e i Falò”. Di Calvino – a quattordici anni, al liceo – sono stata costretta a leggere “Il Barone Rampante” ed è uno dei pochi libri di cui ho contato le RIGHE, agognando la fine. Quindi “Il Sentiero dei Nidi di Ragno” può aspettare.
E quindi Fenoglio sia.
Leggo “I ventitré Giorni della Città di Alba”.
Una folgorazione.
Sono in un paesello e quindi non ho librerie sotto mano, leggo, di slancio ma svogliatamente Calvino e Pavese e poi mi faccio condurre nella città più vicina, dove, nell’unica libreria aperta trovo “La Malora”, “La Paga del Sabato”, “Una Questione Privata”.
Faccio razzia di tutto il “Fenogliabile”.
È come con Steinbeck.
Quando so che sarà un grande amore me ne accorgo subito.

Comincio a leggere la Malora, e dalle prime pagine di questa campagna di Langa, e non posso fare a meno di pensare ad un mio “altro amore” cioè Conan Doyle.
E ad Holmes che – ad uno Watson che magnifica la campagna e i cottage isolati – risponde
«Mi incutono sempre un certo orrore. Sono convinto, Watson, e lo sono in seguito alla mia esperienza, che i vicoli più squallidi e malfamati di Londra non presentino un più orrendo primato di colpe di quante ne presenti la dolce e sorridente campagna (…).
Ma guardi queste case solitarie, ciascuna sul proprio terreno, abitate in massima parte da gente ignorante che non conosce la legge. Pensi agli atti di diabolica crudeltà, alla malvagità nascosta, che possono continuare, anno dopo anno, in questi posti, senza che nessuno ne sappia niente.» (Le Avventure di Sherlock Holmes – L’avventura dei Faggi Rossi).
Ed è esattamente quello che succede in questo romanzo.


Agostino Braida.
(Ma potrebbe tranquillamente essere Tom Joad).
«Pioveva su tutte le langhe, lassù a San Benedetto mio padre si pigliava la sua prima acqua sottoterra.»
Questo è l’incipit della storia raccontata direttamente da Agostino, in prima persona.
Una storia di fame, di fatica, di abbruttimento.
La famiglia Braida è composta da mamma Melina, papà Giovanni e tre figli, Stefano, Agostino ed Emilio. Contadini e non particolarmente agiati, vivono un periodo di ulteriore crisi che li costringe ad indebitarsi. Questo debito costringe la famiglia a mandare il diciassettenne Agostino a fare il “servitore” presso un altro podere e a spedire Emilio in seminario (l’anziana maestra decide di condonare loro il debito a patto che Emilio si faccia prete e preghi per l’animaccia sua).
Agostino raggiunge il Pavaglione, il podere tenuto a mezzadria da Tobia Rabino.
Per quasi tre anni Agostino lavorerà sotto Tobia.
Trattato da lui come un figlio.
Nel senso che viene trattato male quanto i figli di Tobia.
«Per venire a Tobia, lui m’ha sempre trattato alla pari dei suoi figli: mi faceva lavorare altrettanto e mi dava altrettanto da mangiare. A lavorare sotto Tobia c’era da lasciarci non solo la prima pelle, ma anche un po’ più sotto, bisognava stare al passo di loro tre, e quelli tiravano come tre manzi sotto un solo giogo.
Almeno dopo tutta quella fatica si fosse mangiato in proporzione, ma da Tobia si mangiava di regola come a casa mia nelle giornate più nere. A mezzogiorno come a cena passavano quasi sempre polenta, da insaporire strofinandola a turno contro un’acciuga che pendeva per un filo dalla travata; l’acciuga non aveva più nessuna figura d’acciuga e noi andavamo avanti a strofinare ancora qualche giorno, e chi strofinava più dell’onesto, fosse ben stata Ginotta che doveva sposarsi tra poco, Tobia la picchiava attraverso la tavola, picchiava con una mano mentre con l’altra fermava l’acciuga che ballava al filo.»
Agostino divide la fatica con Tobia e i suoi figli, dorme nella stalla e sente la mancanza della famiglia, della casa, della libertà, ma non è un sentimento cocente. Perché la fatica, la fame e la mancanza di speranze non riescono neanche a lasciarlo indulgere nella disperazione.
«… aspettando che mi si addormentasse la pancia perché potesse addormentarsi anche la testa.»

La grandezza di Fenoglio in questo breve romanzo è riuscire a descrivere condizioni di vita estreme in modo normale.
Non ci sono cattivi e oppressori, non c’è un rio destino.
È così.
Così e basta.
Tobia non è un mostro, come lui stesso dice in un desolato quando inatteso monologo in cui getta per un attimo una minima luce su di sé.
« Qui mi tenete tutti per il vostro aguzzino. Ma lo sapete il perché io tiro e vi faccio tirare e non vi do niente di più del necessario. E se anche fallisco nei miei piani, dovrete sempre ringraziarmi per avervi insegnato a star male oggi per non star peggio domani. E non venite a dirmi che peggio di così non si può stare, perché io ci metto poco a mostrarvi il contrario. Vi contassi d'uno che da bambino gli è morto suo padre e se lo prese in casa un suo zio, dalle parti di Cravanzana. Lo faceva tirare che al paragone voi siete dei signorotti, e a mezzogiorno gli diceva: "Se non mangi pranzo, ti do due soldi", e bisognava pigliare i due soldi, e a cena: "Se vuoi mangiar cena, mi devi dare due soldi". Ero mica io quel bambino là? Voi non avete mai provato niente.»
Non si trova traccia di affetto, speranza e slancio. Ogni tanto ci si stringe, ma semplicemente per “tirare” più forte o per non morire di freddo. Solo in famiglia e - come si è visto – anche lì non sempre, qualche volta, traspare un minimo di calore umano.
Nella “padrona” moglie di Tobia che nel congedarsi dalla figlia, il giorno delle nozze (ovviamente concordate a tavolino e conti alla mano dal padre, senza che i due sposi si fossero mai visti prima dell’altare) le impedisce di sparecchiare dicendole di godere di quello che sarebbe stato «il primo e l’ultimo giorno bello» della sua vita. Nel legame fra Agostino e il fratello Emilio, al quale dirà:
«Io per venire a trovar te lascerei un pranzo di sposa.»
Ossia rinuncerei per una volta, a riempirmi la pancia e a non avere fame per qualche giorno.
E nella narrazione, lucida, asciutta e mai, mai compiaciuta o accomodante impariamo a conoscere Agostino, che lavora come un uomo, ma è un ragazzo, affamato di amicizia ed affetto.
Conosce Mario Bernasca e lo “studia” da lontano per mesi per diventarne amico. Ma quando finalmente parlano un po’capisce di non condividere i suoi sogni di fuga e di essere uno di quelli che crepano sulle langhe solo perché ci sono nati. E proprio nel colloquio con Mario c’è uno dei pochissimi – e per questo ancor più struggenti – slanci affettivi e poetici che Fenoglio si concede:
«Ma non potevo mica dirgli a un originale come Mario che, a parte il coraggio e il naturale, conservare il posto da Tobia era per me una maniera come un’altra di tener la memoria di mio padre che mi ci aveva aggiustato prima di morire, e di salvare il rispetto della mia famiglia, che almeno avrebbe sempre saputo dove ero il giorno e la notte.»
E poi c’è Fede.
Un brevissimo momento in cui sembra quasi che le cose possano mettersi al meglio.
Fede viene assunta da Tobia per fare la “servente” e dare un poco di respiro alla “padrona” ormai allo stremo. Fra Fede ed Agostino nasce una certa simpatia, nonostante le attenzioni dei figli di Tobia e i due fanno qualche timido progetto per il futuro.
Sono giovani, in forze e non temono il lavoro, la fatica e la fame.
Agostino alza la testa e comincia a guardarsi intorno.
Ed ecco quello che la “buona, vecchia società contadina”e il “mos maiorum” tanto caro a certi moralisti hanno in serbo per Fede.
«Io fui l’ultimo a sapere che Fede era stata chiesta in sposa da uno dei fratelli Busca di Castino e i suoi erano volati su a prenderla nella paura di perdere per un’ora l’affare.
(…)
Io ero rimasto come un vitello dopo la prima mazzata. Che m'abbia portato in giro e che abbia voluto solo passare il tempo mentre stava da servente, nessuno me lo farà mai entrare. Piuttosto, presa alla sprovvista, abituata a chinar sempre la testa e senza me vicino che potessi darle la forza di rivoltarsi una volta per tutte, nella paura d'esser legata alla gamba della tavola e cinghiata fino a strapparle il sì, ecco è così che deve aver ceduto, e riguardo a me avrà pensato che ce l'avrei avuta un po' ma poi mi sarebbe passata e me ne sarei cercata un'altra. Adesso m'è quasi passata, ma per un bel po' m'è sembrato d'aver perduto tutta la razza delle donne, perduta Fede.»
Tobia e la padrona vengono invitati al matrimonio e questa è l’amara chiusa della donna:
« - Sai cosa? Ho paura che quei due boia più vecchi abbiano fatto sposar Fede al più giovane, per usarla tutti e tre. Povera figlia.»
Ah i costumi di una volta (neanche tanti anni fa)!
Ma forse...
Stefano viene chiamato a lavorare presso alcuni parenti e Agostino può tornare a San Benedetto e non servire più Tobia. La sua gioia, nel tornare a casa è grande e si concede un'altra, piccola, “caduta” emotiva:
«Arrivato a veder San Benedetto, posai il mio fagotto in mezzo alla strada e feci giuramento di non lamentarmi mai anche se dovevo restarci fino a morto e sotterrato e viverci sempre solo a pane e cipolla, purché senza più un padrone. E poi scesi incontro a mia madre, che anche per lei quello era il primo giorno bello dopo chissà quanto.»
Ma anche questa piccola gioia dura poco. Non solo la casa e la terra – trascurate da Stefano – sono in pessime condizioni, ma Emilio viene rimandato a casa, dal seminario, ormai moribondo a causa della tubercolosi.
E qui prendiamo congedo da Agostino e dalla famiglia Braida, con la desolata e tranquilla preghiera di mamma Melina:
«"Non chiamarmi prima che abbia chiuso gli occhi a mio povero figlio Emilio. Poi dopo son contenta che mi chiami, se sei contento tu. E allora tieni conto di cosa ho fatto per amore e usami indulgenza per cosa ho fatto per forza. E tutti noi che saremo lassù teniamo la mano sulla testa d'Agostino, che è buono e s'è sacrificato per la famiglia e sarà solo al mondo."»

La bellezza straordinaria di questo romanzo breve è la scrittura di Fenoglio, quasi leopardiano (penso alle Operette Morali) negli assunti e così compostamente “piemontese” nei suoi modi.
Non so se riesco a spiegarlo a chi non abbia quarti di “piemontesità” (o di “bugia nen”), ma non diversamente dalla “Bassa” eternata da Guareschi, Fenoglio eterna la Langa, e la sua gente misera, disperata, scaltra di quella scaltrezza che strappa un giorno in più alla volta.
Un giorno a sputare sangue, lavorando come bestie, battendo i figli, chiamando “bagascia” la moglie, maledicendo il padrone, la terra, la vita.
Ma senza urlare e senza fare sfoggi.
Qui Fenoglio non sperimenta linguisticamente come ha fatto ne “I Ventitré Giorni della Città di Alba” si concede solo qualche “calco” dal dialetto nelle costruzioni e nei modi di dire.
E trova, in questa storia piccola, un respiro eterno ed epico.
Non scherzavo quando parlavo di Steinbeck.

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John Steinbeck
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Commenti

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Ciao Anna, ho adorato questo romanzo breve, per ora l'unica opera di Fenoglio che ho letto.
Complimenti per la recensione, zeppa di spunti personali e molto sentita.
Anche io sono piemontese e ritrovo in Fenoglio e Pavese la semplicitá un po' rustica di mia nonna quando mi parlava " 'd 'na vota".
Ciao Anna. Anch'io trovo notevole questo libro, che rispecchia le condizioni del Piemonte rurale delle zone collinari, com'erano alcuni decenni fa. Chi oggi percorre le strade delle bellissime Langhe (ora zona ricca e pregiata) difficilmente riesce ad immaginare la dura realtà di allora. La letteratura è insostituibile anche in questa funzione.
In risposta ad un precedente commento
Anna_Reads
18 Luglio, 2015
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Ti ringrazio molto :)
Io ho origini un po' composite e forse anche per questo ritrovo con facilità certi "tratti" in alcune persone (e pure in me). Una cosa che mi colpì profondamente fu l'uso, ad esempio di "pensiamo" in luogo di "figuriamoci se..." o "il naturale" per indicare il temperamento e il modo di essere.
Cos strano trovare in un libro le parole di casa...
Davvero una sorta di "Lessico Famigliare" :)
In risposta ad un precedente commento
Anna_Reads
18 Luglio, 2015
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È vero Emilio.
Ed altrettanto strano che non tutti ne serbino la memoria.
Forse il dramma più grande di un popolo che non legge (o legge poco) è proprio il dimenticare
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