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Ciò che inferno non è
 
Ciò che inferno non è 2020-11-16 17:22:37 Anna_
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Anna_ Opinione inserita da Anna_    16 Novembre, 2020
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Poco oltre. A volte non di più.

Intelligente ma a suo dire anche imbranato, sognatore, amante della poesia e di Petrarca, Federico, il giovane diciassettenne protagonista del romanzo (alter ego dello scrittore), si interroga: "Cosa è tutta questa vita scomposta dentro di me a cui non riesco a dare un nome?" perché "Ci sono giorni in cui il vuoto morde il petto e il nulla logora le viscere, so che dovrei darmi una mossa ma tutto quel vuoto e quel nulla mi paralizzano".
E nel mentre va cercando le risposte, continua la sua vita di ragazzo della 'Palermo bene' e si prepara a partire, ora che la scuola è finita, per una vacanza studio vicino a Oxford proprio come ha fatto tempo prima suo fratello Manfredi, più grande di lui: i genitori infatti sono fissati con l'inglese e poi se Manfredi è d'accordo vuol dire che è la cosa giusta da fare.
Le domande di Federico trovano pian piano risposta. Poco oltre. Perché a volte non serve di più.

3P, Padre Pino Puglisi, il professore di religione, lo invita a dargli una mano, prima di partire, a Brancaccio, periferia di Palermo, dove lui cammina, instancabile, a testa alta tra le strade del quartiere, a stretto contatto con i bisogni di una realtà dove tutto "È troppo pericoloso" perché "Quella è gente che è meglio starci lontano" e cerca di offrire un modello alternativo alla mafia soprattutto ai bambini, che sono i più fragili, i primi a subire il fascino degli uomini di rispetto: "bisogna cominciare dai bambini, bisogna prenderli prima che la strada se li mangi, prima che gli si formi la crosta intorno al cuore".
Federico accetta.
E poi...
Un pugno in faccia, una bici rubata e l'inferno "attaccato addosso", "portato dentro casa come un virus sconosciuto".
E poi...
E poi lì, a Brancaccio, c'è Lucia che frequenta le magistrali perché vuole diventare maestra, ama il teatro e, tenace e con la sua "scanzonata fierezza", non vuole andarsene dal suo quartiere; e c'è Francesco, sei anni, che scoppia a piangere perché lui "vuole aggiustare le cose, non romperle"; e ancora Totò il cui "padre è un operaio e la mamma una parrucchiera... una di quelle famiglie che lavora in silenzio e cerca di educare i figli come può... Lo sfottono perché da grande vuole fare il direttore d'orchestra". E poi ancora Dario, Riccardo, Serena...

Intrecciando finzione narrativa e realtà, con questo romanzo di formazione in cui a crescere e ad affrontare le proprie incertezze e fragilità non è solo il suo protagonista principale, D'Avenia ha condiviso con i suoi lettori il ricordo di Padre Pino Puglisi, da lui conosciuto durante gli anni del liceo, il parroco dal sorriso sempre disponibile, sorriso mantenuto fino all'ultimo, quando è stato ucciso dalla mafia a Brancaccio, nel giorno del suo cinquantaseiesimo compleanno, perché 'reo' di essere stato un parroco tra la gente, per la gente.

Poco oltre, non di più: è questa una delle sensazioni che rimane dopo la lettura del romanzo. Perché poco oltre i confini che (de)limitano la nostra realtà, la nostra quotidianità, ve n'è sempre un'altra di cui si sa poco o nulla ma che vive parimenti di sogni e desideri, frammisti a sacrifici e incertezze finanche a indifferenza e violenza.
E trovare il bello e il buono che anch'essa nasconde è possibile solo smettendo gli occhi del pregiudizio e del giudizio, che inizialmente animano Federico e il fratello.
Perché dopotutto "L'elemosina non basta, ci vuole l'amore... Non ci vuole la forza, ci vogliono la testa e il cuore. E le braccia".

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