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L'isola di Arturo
 
L'isola di Arturo 2021-07-21 19:52:42 Calderoni
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Calderoni Opinione inserita da Calderoni    21 Luglio, 2021
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Arturo parla a ognuno di noi

La capacità affabulatoria di Elsa Morante emerge in maniera perentoria nella sua seconda cattedrale, L’isola di Arturo. La lettura di questo capolavoro trasporta il lettore in un mondo lontano, lo fa immergere nell’atmosfera di una Procida fantastica. È un romanzo commuovente, intenso e passionale, che apre una larga e profonda fenditura nelle vite di ciascuno di noi. La sottile linea che separa l’età infantile da quella adulta è oggetto di indagine. Si segue un biennio di vita, quello del guerresco ragazzo dal nome di una stella, Arturo. È il biennio dai 14 ai 16 anni e la narrazione si interrompe non a caso il 5 dicembre, il giorno del 16° compleanno. Si tratta del giorno del non ritorno, del definitivo e traumatico approdo all’età adulta, che Arturo non vedeva l’ora di raggiungere ma aveva maturato aspettative radicalmente differenti. Letta al termine del libro, la dedica posta dalla Morante a inizio volume assume un significato più limpido e cristallino. Sono parole in versi che delineano il percorso di Arturo, lo rendono lampante nelle nostre menti. “Quella, che tu credevi un piccolo punto della terra, fu tutto”: il riferimento è a Procida, a quest’isola fatata che grazie alla penna della scrittrice romana prende forma in modo incantevole, a partire dalle descrizioni semplicemente meravigliose di inizio romanzo (quelle poste nel capitolo “Re e stella del cielo”). Ognuno di noi, quando era bambino, ha avuto il suo punto della terra che gli è parso un tutto. Il luogo degli innamoramenti, dei sorrisi spensierati, delle estati irripetibili. Arturo parla a noi stessi, a quello che abbiamo provato sulla nostra pelle; ci richiede uno sforzo di memoria, uno sforzo intimo che può scalfire alcune nostre certezze. Durante la lettura riemergono dalla nostra età infantile ricordi, voci, profumi; non sono andati via, sono rimasti lì sotto cumuli di polvere nei meandri più nascosti del nostro cervello. Il narratore della vicenda è Arturo stesso, ormai adulto, ormai così lontano da Procida e dalla sua infanzia. È proprio il protagonista che si dichiara scrittore nel finale e ricostruisce il suo passato. Soprattutto nel primo terzo del romanzo, quello antecedente l’arrivo della matrigna Nunziatella e quindi della nascita del fratellastro di Arturo (Carminiello), domina una dimensione temporale idiosincratica. Si perde il fluire oggettivo del tempo, secondo dopo secondo, inesorabile; il tempo viene filtrato dalle emozioni di Arturo che nella sua solitaria, selvaggia e magica infanzia appare fuori dalla Storia. Incallito lettore, Arturo conosce perfettamente la Storia antica, quella di battaglie e dinastie, di imperatori e condottieri, ma non è attratto dalla cronaca dei quotidiani relativa alla contemporaneità. Subentrerà la componente storica solamente nella parte terminale del romanzo, quando Arturo scoprirà, dalla sua ex balia Silvestro, dell’imminente guerra che l’Italia è pronta a combattere. Finisce, perciò, l’isolamento procidiano e Arturo diventa adulto. Pertanto, apre definitivamente gli occhi e non potrà più provare un’ammirazione incondizionata nei confronti del padre, paragonabile a un Dio, al fratello del sole e della luna, per l’Arturo bambino. “La mia infanzia è come un paese felice, del quale lui è l’assoluto regnante!” scrive Arturo a proposito del padre, mezzo tedesco e mezzo campano. L’unico sentimento possibile sul declinare dell’infanzia è la compassione nei confronti di questo padre morbosamente amato. È una parodia, come lo definisce il suo “amante”, l’ergastolano, Tonino Stella. Un uomo debole che vende l’anima, un uomo senza alcuna fede. Agli occhi del figlio è un Icaro che cade negli abissi più profondi e la sua discesa genera in Arturo la perdita delle Certezze Assolute che avevano governato la sua infanzia, nella quale, ad esempio, aveva sempre pensato che ogni viaggio del padre fosse verso destinazioni esotiche e affascinanti mentre scopre da Stella che raramente si è allontanato dai paesi intorno al Vesuvio. “Mi pareva di trovarmi sperso allo sbaraglio in una reale bufera, senza più altro sostegno sotto i piedi che un orribile rollio” ricorda a distanza di un tempo infinito il narratore. Rappresenta l’ultimo atto del processo irreversibile e vorticoso, dentro il quale era stato catturato Arturo a partire dall’arrivo sull’isola di Nunziata. La valanga prende forma nella prima notte di nozze di Wilhelm Gerace, padre di Arturo, con la matrigna, quando ode un urlo “tenero, stranamente feroce, e puerile” che trasformerà per sempre l’aspetto della giovane popolana napoletana (le pagine che seguono, le prime del capitolo “Vita in famiglia” assomigliano a quelle successive allo stupro di Rosetta ne La Ciociara di Alberto Moravia). L’urlo funge da inconscio allarme per Arturo: la prima donna che entra nella Casa dei guaglioni diviene il simbolo di una rivoluzione esistenziale nel cuore del protagonista. Soltanto da quel momento, infatti, comincia a provare sensazioni adulte che in precedenza non l’avevano mai sfiorato: dalla gelosia alla noia. Si spezza, dunque, l’incantesimo fatato di Procida e si avvicina inesorabile il giorno dei saluti e della partenza. In tutto questo, Nunziata è l’oggetto dapprima dell’antipatia di Arturo, poi del suo primo innamoramento. Una relazione impossibile perché Nunziata è moglie di Wilhelm, sebbene abbia soltanto un paio d’anni in più di Arturo, ma, a differenza del marito, ha principi ferrei in cui crede, quelli religiosi, e non li abbandona mai, nemmeno quando sarebbe più conveniente. Arriva ragazza a Procida, ma la sera stessa diviene donna, poi a stretto giro sarà madre e padrona di casa. È un personaggio estremamente semplice nella propria ignoranza, ma ha una coerenza di fondo che manca al padre di Arturo. Nonostante le mille traversie, nelle sue pupille c’è sempre “una specie di interrogazione fiduciosa” nei confronti di Arturo, per il quale prova un gran bene. Ultimi spunti di riflessione. Come intuibile dall’ultima considerazione, domina nella memoria di Arturo il campo semantico della vista: il narratore annota tutto attraverso il movimento degli occhi e delle pupille. Straordinario è anche l’uso dell’aggettivo nella Morante. Non è mai banale, è sempre incisivo e pregnante di significato. Spesso accosta aggettivi tipici per il mondo animale alle persone, stimolando la fantasia di chi legge (tra l’altro, come ne La Storia romanzo, trova spazio anche qui un cane, Immacolatella). Ma la Morante non fiabeggia mai, poiché travi e strutture del racconto s’ispirano e s’appoggiano ai modelli ottocenteschi. Infine, tutti gli oggetti descritti dalla Morante (e sono tanti, soprattutto nella prima parte) fungono da amuleti. Emblematica in tal senso la stupenda descrizione della Casa dei guaglioni, un luogo mistico che da solo vale il prezzo de L’isola di Arturo, indiscusso capolavoro della nostra letteratura.

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