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Ferito a morte
 
Ferito a morte 2022-11-22 16:39:54 kafka62
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    22 Novembre, 2022
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CHI RESTA SARA' SOPRAFFATTO

“Viviamo in una città che ti ferisce a morte o t’addormenta, o tutte e due le cose insieme.”

“Ferito a morte” è a mio parere il romanzo definitivo di Napoli, capace com’è di restituire un ritratto spietatamente fedele della città negli anni del secondo dopoguerra (quelli del “laurismo”, tanto per intenderci), senza mai ricorrere agli stereotipi del folclore (tipo “pasta, pizza e mandolino”) e neppure sfruttare, al contrario delle commedie di Eduardo, dei racconti di Giuseppe Marotta o de “La pelle” di Curzio Malaparte, il suo côté più genuinamente popolare. In maniera piuttosto sorprendente, i personaggi dell’opera di La Capria appartengono invece tutti alla borghesia del dopoguerra, a quella classe un po’ decaduta di giovani ed ex giovani che ancora vive (o si illude di farlo) di antichi privilegi, e che passa oziosamente le sue giornate sul lungomare di Mergellina e di Posillipo, al Circolo Nautico o al bar Middleton, a prendere il sole, a millantare prodezze sessuali e conoscenze altolocate o a parlare di soldi, donne e feste mondane, in una vita superficiale, indolente, snobistica e annoiata che “diventa una parodia dell’adolescenza”, quella classe che pochi anni prima Federico Fellini aveva dipinto così bene nel film “I vitelloni”. A questa umanità, che sotto l’esibizione di una ricchezza spesso solo simulata nasconde, come un viso maldestramente truccato, una sostanziale cafonaggine, fanno da sfondo un’estate che sembra non avere mai fine e una natura esuberante e meravigliosa. Ma questa estate e questa natura nascondono, sotto la loro olimpica indifferenza, un effetto nefasto su cose e persone: come l’azzurro mare del golfo corrode col costante e invisibile lavorio delle sue onde le fondamenta degli antichi palazzi che vi si affacciano, così il sole, anziché scaldare, brucia, ottunde le coscienze e smorza ogni slancio vitale. La coscienza critica del romanzo è sicuramente Gaetano, l’intellettuale marxista andato a lavorare in un giornale di Milano, il quale incita Massimo, che nel libro è l’evidente alter ego dell’autore, a fare altrettanto, consapevole che l’unico modo per salvarsi è quello di lasciare definitivamente Napoli. E’ lui a coniare la felice definizione di Foresta Vergine: come la giungla tropicale invade e soffoca ogni cosa che trova sulla sua strada, l’ambiente napoletano domina, corrompe e sopraffà le persone che vi vivono, già per se stesse inadatte, a causa della loro innata tendenza a crogiolarsi nell’indulgenza e ad autoassolversi da ogni peccato in virtù della semplice appartenenza a una città leggendaria, inadatte – dicevo – a forgiare autonomamente carattere e indipendenza. Solo allontanandosi da Napoli, troncando il cordone ombelicale con quell’illusorio, ancorché allettante paradiso di confortevole vacuità, di paralizzante apatia, è possibile sfuggire a questa tara atavica, a questa indolenza, a questo immobilismo, e riappropriarsi della propria vita. Il romanzo è incentrato proprio sulle ore della vigilia della partenza di Massimo per Roma. A differenza di Gaetano, personaggio intransigente, privo di dubbi e di ripensamenti di sorta, Massimo è un uomo tragicamente lacerato, scisso, diviso com’è tra ripudio e attaccamento, tra disprezzo e nostalgia. Egli sa di non poter sprecare la propria vita tra ozi, goliardate e vaniloqui, ma è fatalmente legato, come un pesce alla lenza, ai ricordi della giovanile, platonica, storia d’amore con Carla, e la speranza di recuperare quel tempo perduto, di “ritrovare uno solo di quei giorni intatto com’era”, lo fa vacillare e tergiversare. Quando la decisione della partenza è finalmente presa, i pensieri di Massimo hanno la segreta commozione dell’”Addio ai monti” di manzoniana memoria: “E addio allora, dal momento che sai, addio al bell’oggi di prima che t’avvolgeva come l’acqua il pesce che nuota, le cose mute per te, mutate per sempre da quel momento, per sempre, e inutile è ostinarsi, mai piú, mai piú uno di quei giorni di prima, uno solo, ritroverai per caso una mattina.”
“Ferito a morte” è diviso in due parti nettamente distinte. Similmente a “Gita al faro”, il capolavoro di Virginia Woolf, a due terzi del libro c’è infatti una brusca frattura. Dopo sei anni, Massimo ritorna a Napoli, ormai definitivamente scettico e disilluso: “Sovversivo, dolcemente avverso all’azzurro che avvolge tenero le case, cammino disincantato per le strade della città materna, come vipera nel seno che l’accolse, invelenito da freddo amore, riscaldandomi al suo tepore.” Davanti ai suoi occhi scorrono gli incontri con i vecchi amici di gioventù, chi sposato con figli, chi diventato architetto, chi tornato senza più illusioni e speranze dall’America, tutti in qualche modo segnati dal tempo trascorso. E’ soprattutto Sasà a condensare, a riassumere la delusione provata da Massimo, la tristezza nello scoprire come gli anni abbiano irreparabilmente deturpato quella che sembrava essere un’età della vita destinata a durare per sempre. Sasà, che era un ragazzo eccezionale e carismatico, uno che “finisce dove gli altri cominciano”, ora è inopinatamente ridotto al ruolo di viveur appassito (“Aveva una faccia floscia e segnata, […] e gli venivano fuori quei tratti di giovane vecchio, di bel ragazzo che non è mai passato per i gradi degli anni, ma un giorno è saltato all’improvviso, senza nemmeno rendersene conto, dall’adolescenza all’età matura”), costretto a vivere di espedienti e cercando disperatamente di sfruttare gli ultimi rimasugli di un fascino ormai declinante, spodestato da altri Sasà più giovani e spregiudicati, come il fratello di Massimo, Ninì, destinato pure lui a rappresentare “per pochi anni un miraggio di felicità”. Negli ultimi tre capitoli riecheggia lo stesso tono elegiaco de “La luna e i falò”, ma qui non c’è nessun Nuto ad accogliere Massimo, costretto invece a rimanere solo con i suoi fantasmi, dentro a un’estate che ormai “è una noia, una festa in cui si ha la nostalgia di una vera festa.”
Dal punto di vista strutturale, la prima cosa che di “Ferito a morte” salta agli occhi è – come si è già accennato – la dimensione temporale. Oltre allo iato, alla cesura che separa i primi sette capitoli dagli ultimi tre, va sottolineato il fatto che la prima parte si svolge nell’arco di una sola giornata, ma grazie al meccanismo della memoria inconscia si allarga fino a comprendere episodi degli anni precedenti (ad esempio, la notte di Capodanno del ’49 a Positano con Carla o la gita in barca con Glauco e Ninì), e questa confusione di piani temporali, sebbene renda il romanzo (soprattutto nelle prime pagine) un po’ complicato da leggere e decifrare, conferisce al testo un ritmo sinuoso e avvolgente, davvero singolare. Ancora più particolare e caratteristica è la polifonia dell’opera. Diegesi e mimesi (ovverossia, semplificando, la narrazione da una parte e i pensieri e i dialoghi dall’altra) sono così fittamente intrecciate che si confonde facilmente quando la voce è quella di un personaggio e quando invece è l’autore a parlare. La terza persona del narratore si alterna infatti, in virtù dello stream of consciousness, alla prima persona di Massimo, il vero protagonista e – come già detto – alter ego di La Capria (un po’ come Moraldo lo era di Fellini ne “I vitelloni”) Si prenda come esempio la seguente frase, estrapolata tra le tante disponibili: “ E recita tutta la storia, ma deformata, modificata, accesa nei particolari, mentre nell’occhio dell’altro sale la considerazione, come mercurio in un termometro. – Recito davanti alla platea, nel nero, là, della sua pupilla… Io stesso occhio nel sogno.” A sua volta la prima persona di Massimo viene spesso sostituita, senza alcun ausilio della punteggiatura, con la prima persona di altri personaggi, di modo che il lettore deve districarsi nel non immediato tentativo di capire a chi quell’io si riferisca. E’ un procedimento molto utilizzato nelle opere di Mario Vargas Llosa, ad esempio “Conversazione nella Catedral”, e se si pensa che “Ferito a morte” precede cronologicamente i grandi capolavori dello scrittore peruviano, si può capire come La Capria possa essere considerato un artista all’avanguardia, in netto anticipo sui tempi. Capace di riflettere su temi profondi come il rapporto tra natura e storia, geniale nella descrizione, soprattutto attraverso dialoghi strepitosi, di un’umanità di “morti ambulanti”, che solo il dolore fisico (come il timpano rotto di Massimo) di quando in quando fa sentire vivi, “Ferito a morte” ha esercitato e continua ad esercitare una notevole influenza nel panorama della cultura italiana (è di queste settimane una versione teatrale portata in scena da Roberto Andò con la collaborazione di Emanuele Trevi), al punto che credo di poter affermare che senza il romanzo di La Capria probabilmente non ci sarebbe mai stata “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino, debitore dello scrittore napoletano di quella inconfondibile atmosfera sospesa tra satira grottesca e amara malinconia.

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Commenti

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siti
27 Novembre, 2022
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Ciao Giulio, come sempre una recensione colta ed esaustiva: mi hai incuriosito.
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kafka62
28 Novembre, 2022
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Grazie, Laura, per il tempo prezioso che continui a dedicare alle mie recensioni.
Complimenti Giulio! Lo sai che ho comprato questo libro di recente? Ho alte aspettative adesso dopo aver letto la tua lunga, ma meritevole, recensione!
In risposta ad un precedente commento
kafka62
03 Dicembre, 2022
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Grazie Marianna, sono sicuro che ti piacerà molto.
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