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L'enigma di una Madre
Molti, compreso l’autore, lo hanno definito un romanzo sul patriarcato, ma la vicenda narrata appare più quella di una famiglia disfunzionale che quella di un padre-padrone. Al posto di quest’ultimo c’è invece un uomo debole, incapace di controllare la sua rabbia, egoriferito all'eccesso, la cui violenza non è la conseguenza di un sistema sociale di regole, ma il portato di un vero e proprio caso clinico (ricordiamo che siamo dinanzi ad una autofiction, frutto di rielaborazione e di invenzione, e non ad un racconto autobiografico). E comunque non è certamente a questa figura che si deve guardare per cogliere il valore e il senso de L’anniversario, perché il personaggio più originale, più vero, quello su cui si sofferma e, per così dire, si tormenta la fantasia creativa dell’autore, nel tentativo di fissarla e di individuarla, è quello della madre. Succube del marito, rassegnata al suo ruolo di vittima, ripiegata nell'ombra, incapace di avere di sé un briciolo di autostima, ella appare talmente appiattita sulla figura del marito che il narratore deve porsi innanzitutto l’obiettivo di staccarla dall'immagine di lui con il bisturi della memoria, selezionando quei momenti in cui ebbe un suo ruolo autonomo, una sua peculiare fisionomia. Sul piano della scrittura è sintomatico che il narratore ricorra frequentemente alla negazione per costruirne l’immagine, ad esempio nel riferire il contenuto di una telefonata con la quale lo invitava a farsi vivo : “Ma mio padre -ripeteva- era pronto a perdonare la mia temporanea lontananza. Di sé non diceva niente, non riteneva potesse essere di qualche rilevanza. Non c’era disperazione, in quello che diceva, credo sapesse già che non c’era nulla da fare, ma andava fatto anche quell'ultimo tentativo di madre”(p.118). Si veda anche il commento ad una sua mail di tenore non diverso, spedita dopo aver subito una rapina: “Qualche ora dopo arrivò la mail di mia madre… Non si menzionava tra le persone che contavano. Non nominava il borseggiatore né la lussazione. Non nominava mia sorella o le nipoti. Chiudeva dicendo che non capiva come mai mi fossi allontanato” (p.126). L’occhio del figlio-narratore indugia su alcuni particolari che la mostrano goffa, patetica, non senza un margine di tenerezza: la caviglia sottile, la leggera, quasi impercettibile zoppia, esito della polio contratta da piccola, la sveglia portata con sé in uno dei primi appuntamenti col futuro marito, non avendo trovato l’orologio nell'ansia frenetica dei preparativi. Né sfugga l’incipit del romanzo e forse il suo momento più prezioso, quando violando le regole (assurde, ma consolidate da una inveterata sottomissione) sopravanza il marito sulla soglia nell'atto di congedare il figlio e gli domanda: “Tornerai a trovarci?" (p.12). Nulla c’era stato in apparenza, almeno durante quella cena, che lasciasse presagire la catastrofe, ma aveva avvertito prima degli altri, prima dello stesso interlocutore, l’appressarsi dell’imminente e definitiva rottura. Se la condanna del padre è netta, recisa, senza possibilità di riscatto, questa figura sottile rimane quasi enigmatica e a tratti si ha l’impressione che ella abbia piena coscienza della nevrosi da cui il marito è affetto e che il suo mettersi da parte, il suo cedere sistematico, il suo ruotare intorno a lui come l’ultimo e il più sperduto dei satelliti, sia una più o meno consapevole strategia per salvare matrimonio e famiglia. Tentativo vano e fallimentare, ma non lascia indifferenti, tra i battiti nascosti della scrittura, quell'ultima scena in cui il protagonista, osservando il suo bambino che dorme, coglie sul suo viso i tratti materni (p.127).
Lo squilibrio del padre e l’assurda negazione di sé della madre trovano una conseguenza inevitabile nella nevrosi del figlio, costretto a ricorrere ad una psicoterapeuta ottantenne, che riceve anche a Natale e prolunga al telefono le visite dei suoi pazienti quando ne hanno bisogno. Questa vecchietta sempre più striminzita nel suo camice bianco è una delle creazioni poetiche più originali del testo.
Alcuni lamentano una qualche freddezza dello stile. In realtà si tratta di quella ricerca della precisione di cui si parla nel finale e che viene annoverata tra gli insegnamenti ricevuti dalla figura sapienziale dell’analista. Al contrario, dall'intera rievocazione, traspaiono un’emozione trattenuta e l'agitarsi, come una sorta di sottotesto, di una domanda che anche il lettore si pone: fu giusta quella separazione, non fu forse eccessiva, troppo brusca, severa, punitiva? Il fascino del romanzo sta proprio in questo dubbio che si insinua tra le sue pagine e rischia di rovesciarne il senso razionalmente dichiarato. Ciò che probabilmente rappresenta la vera misura del suo fascino.
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