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Le campane di Bicetre
 
Le campane di Bicetre 2013-02-03 16:08:20 Renzo Montagnoli
Voto medio 
 
3.8
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
3.0
Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    03 Febbraio, 2013
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Uno sguardo all’indietro

Che Georges Simenon sia un abile costruttore di trame gialle o noir è del tutto scontato, così come sia notoria la sua capacità di non limitarsi solo a un’accurata e logica descrizione della vicenda, ma sappia andare in profondità sondando l’animo dei protagonisti e ricreando mirabilmente atmosfere in cui il lettore ami immergersi.
Non è invece così frequente il caso che l’autore di lingua francese intraprenda un’altra via, diversa dal romanzo di genere, anzi se ne discosti in modo evidente, di modo da essere considerato un narratore a tutto campo, senza essere etichettato come un giallista, attribuzione che peraltro, nel suo caso, non può e non deve considerata restrittiva e dequalificante.
Simenon, infatti, ha l’ambizione di proporsi al pubblico anche come scrittore di trame in cui le tensioni emotive proprie del poliziesco vengono sostituite da vicende che sono il pretesto per un’analisi approfondita dell’Io dei protagonisti.
È questo il caso di Le campane di Bicêtre, romanzo piuttosto lungo (sono 261 pagine) che, nel toccare alcuni argomenti cari all’autore ( l’ostentata apparenza della classe borghese) intende rappresentare una presa di coscienza del personaggio principale, tale René Maugras, direttore del più importante quotidiano francese, ricco, potente, che vanta amicizie altolocate e che all’improvviso vede stravolta la sua vita da un aneurisma che gli provoca la paralisi della parte destra del suo corpo. Ricoverato in un ospedale pubblico, anziché in una clinica privata, per poter avere le migliori cure possibili, l’uomo, in quell’improvviso stato di dipendenza da altri, nel tempo che trascorrere più lento, in quanto i suoi ritmi sono necessariamente cambiati, provvede a un progressivo esame della sua vita, stendendo un bilancio per nulla soddisfacente.
Riscopre in lui, osservando gli altri (vecchietti che sopravvivono nell’ospedale), un barlume di umanità di cui non aveva più memoria, rivede come in una pellicola cinematografica le sue umili origini, la lotta per arrivare al successo, le donne di cui si è innamorato, ma che non ha saputo amare, il tutto pressoché immobile in un letto, che assume le caratteristiche di giaciglio della coscienza.
Sembra deciso a cambiare, a dare una svolta alla vita per recuperare il tempo perduto, ma con i progressi della pur lenta e non definitiva guarigione, con i contatti sempre più frequenti con quel mondo che, quando stava male, lo disgustava, i buoni propositi verranno meno.
E’ un romanzo ambizioso, in cui forse Simenon ha voluto rappresentare metaforicamente se stesso, è un libro che assume il carattere di una confessione per una colpa originale, possiamo dire innata e che, per quanto contrastata, finisce con il ritornare. Siamo fatti così ed è inutile che cerchiamo di cambiarci sembra dire Simenon. La vita è un eterno contrasto fra ciò che siamo e ciò che vorremmo essere, una tenzone da cui finiremo con l’uscire sempre vinti e mai vincitori.
Lo stile è il solito di Simenon, misurato, sostenuto da un ritmo lento, ma non piatto, che riesce ad avvincere il lettore, nonostante le dimensioni dell’ambiente (una grigia camera d’ospedale), ritmo che solo verso le ultime pagine accelera per giungere, forse un po’ bruscamente, all’ultima, un lieto fine, si potrebbe dire, se non fosse per quel ritorno alla vita di prima che continuerà inconsciamente a non soddisfare René Maugras.
E’ un ottimo romanzo, per quanto presenti appunto questa disarmonia fra quasi tutto il corpo dello stesso e la parte finale, un passaggio prevedibile, ma un po’ troppo brusco.
In ogni caso è senz’altro da leggere.

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