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Alexis
 
Alexis 2015-08-20 03:17:03 Bruno Elpis
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    20 Agosto, 2015
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Outing

In Alexis di Marguerite Yourcenar, troviamo l’antecedente letterario della confessione pubblica che oggi viene designata con l’espressione “fare outing”.

La storia è tragica: per via epistolare il giovane Alexis Géra, musicista, da Losanna scrive alla moglie Monique per confessarle i motivi del proprio allontanamento: l’omosessualità.
A tale risoluzione il giovane perviene dopo anni di silenzi (“Qualcosa… che mi sembra più intimo perché l’ho tenuto nascosto”) e contrasti, durante i quali il musicista ha combattuto contro la propria indole segreta.

A Woroïno (“Bambino, ne avevo paura. Comprendevo già che ogni cosa ha il suo segreto, gli stagni come il resto”), paese d’origine, Alexis vive l’indigenza familiare (“Ero l’ultimo figlio di una numerosissima famiglia; ero di natura cagionevole…”) in un ambiente ove le presenze femminili sono preponderanti. Dopo un periodo trascorso malvolentieri nel collegio di Presburgo, l’odierna Bratislava (“Alla mia sensibilità affinata dalla sofferenza ripugnavano ancor più tutte le promiscuità del collegio. Soffrivo della mancanza di solitudine e della mancanza di musica. Per tutta la mia vita, musica e solitudine hanno avuto per me la funzione di calmanti”), l’adolescente ottiene di tornare nella casa nativa. Lì (“Nella nostra regione passavano molti vagabondi zigani; alcuni di loro sono buoni musicisti, saprai anche che è una razza assai bella…”) per la prima volta cede ai propri impulsi (“Non oso raccontarti tutto ciò che in maniera molto vaga; camminavo, non avevo meta; non fu colpa mia se, quel mattino, incontrai la bellezza…”), che verranno poi contrastati soltanto in parte durante il successivo soggiorno a Vienna (“Proprio perché in quella città sconosciuta avrei potuto trovare occasioni più facili, mi credetti tenuto a respingerle tutte; non volevo venir meno alla fiducia dimostratami nel lasciarmi partire”).
Ospitato dalla nobile Caterina di Mainau nella sua residenza di Wand (“Il principe e la principessa non erano degli amici per me: non erano che protettori”), ove organizza concerti e impartisce lezioni, in quella sede conosce la futura moglie (“Poi sei arrivata tu”). Il matrimonio è una scelta tanto sofferta, quanto di copertura: “Mi credevo in diritto (o piuttosto in dovere) di non respingere l’unica possibilità di salvezza che mi offriva la vita”. Con queste premesse, l’epilogo è inevitabile: “Piangevi il più silenziosamente possibile perché io non me ne accorgessi, ed io fingevo allora di non sentire”. Anche Daniele, il figlio che nascerà, ovviamente, non muterà il corso di una storia che sembra tracciata e ineluttabile (“Non avendo saputo renderti felice, trovavo naturale addossare quel compito al bambino”).

Con uno stile volutamente implicito (“Non spaventarti: non descriverò nulla; non ti dirò i nomi…”) e allusivo (“Sorvolo sul sonnambulismo del desiderio, la risoluzione brusca che spazza via tutte le altre, l’alacrità della carne che, finalmente, non obbedisce più che a se stessa”), che non scade mai nelle possibili derive dell’argomento (“Avevo ormai preso l’abitudine delle complicità prezzolate”), Margherita Yourcenar affronta il dramma del conflitto: tra volontà (“Mi condannai, a vent’anni, all’assoluta solitudine dei sensi e del cuore”) e natura (“Le nostre azioni hanno soltanto valore di sintomo: è la nostra natura che dovremmo cambiare”), tra amore e sensualità (“Ma io preferisco ancora il peccato… piuttosto che una negazione di sé…”), tra impulsi individuali e obblighi sociali (“Il nostro ruolo, nella vita di famiglia, è fissato una volta per tutte in rapporto a quello degli altri”), tra rinunce e rimpianti (“Ciò che rimpiangevo, mentre risalivo di pensiero in pensiero, di accordo in accordo, verso il mio passato più intimo e meno confessabile, non erano le mie colpe, ma le possibilità di gioia che avevo respinto”), tra reticenza (“Il silenzio… è la più grave delle mie colpe”) e verità (“La vita mi ha fatto ciò che sono, prigioniero -se vogliamo - di istinti che non ho scelto, ma ai quali mi rassegno, e questa accettazione, spero, in mancanza di felicità mi darà la serenità”).

Basterà la conclusione (“Ti ho tradita; non ho voluto ingannarti”) a lenire la profonda tristezza che s’insinua nel lettore pur incantato dalla sublimità della Yourcenar?

Bruno Elpis

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