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Sei ricco, Coniglio
 
Sei ricco, Coniglio 2015-12-31 17:14:16 enricocaramuscio
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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    31 Dicembre, 2015
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La borghesia americana

Harry Angstrom, ex campione di pallacanestro giovanile conosciuto con il soprannome di Coniglio, si ritrova a quarantasei anni a fare un bilancio della propria vita. Le cose per lui si sono messe bene, la concessionaria del suocero di fatto è ormai nelle sue mani e la sua situazione economica sembra davvero invidiabile. A casa il rapporto con la moglie Janice è ormai recuperato, dopo anni turbolenti di reciproca infedeltà. Il nostro eroe dice la sua anche sui campi da golf, dove passa gran parte del suo tempo libero in compagnia di un’allegra combriccola. Il presente è roseo, così come rosee sembrano le prospettive future. I problemi invece, per lui, arrivano dal passato. Il primo si presenta con Annabelle, una ragazza che piomba in concessionaria e nella quale Coniglio sembra riconoscere il frutto di una vecchia passione extraconiugale. Per lui sarà impossibile non indagare disseppellendo una storia che sembrava ormai sepolta. Il secondo arriva con il ritorno a casa del figlio ventiduenne Nelson, un giovane insicuro e viziato con il quale Harry non ha mai avuto un buon rapporto. Le cose tra i due non si sistemeranno certo, anzi, la convivenza forzata porterà il conflitto generazionale ad un livello insanabile e il ragazzo tirerà fuori fantasmi del passato addossando al padre colpe reali e non. Sullo sfondo della storia gli Stati Uniti a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, un paese che risente degli effetti di una grave crisi petrolifera e di un’inflazione galoppante, con uno sguardo vigile su una politica estera condizionata da interessi prettamente economici e su quella interna caratterizzata da un senso di distacco e sfiducia verso il governo di Carter. Updike è molto abile nell’intrecciare le vicende private del protagonista con la situazione politica ed economica del paese, usando un tipico rappresentante della media borghesia americana per punzecchiare velatamente questa parte di società chiusa in un’esistenza in cui sembrano contare soltanto il guadagno e l’ostentazione di un certo tenore di vita, in cui le vicende del mondo contano nella misura in cui influiscono sul proprio tornaconto. Ma al di là del contesto in cui si svolgono le vicende, l’autore è molto abile nel raccontare sentimenti e punti di vista, sviscerando con grande sapienza temi delicati e di forte impatto emotivo come i conflitti tra genitori e figli, la gestione dei rapporti coniugali ed extraconiugali, le amicizie vere e quelle di facciata, la coscienza personale, l’amore, la rabbia, il perdono. Lo fa con uno stile particolare in cui discorso diretto ed indiretto si fondono e la semplicità della prosa viene spezzata da spunti di livello letterario più alto. Updike propone una storia convenzionale che si svolge in un contesto altrettanto convenzionale senza per questo cadere in banalità o facili cliché, restando arbitro imparziale degli avvenimenti che vengono raccontati con una sorta di apparente distacco, quasi di cinismo, abbandonandosi di tanto in tanto a sprazzi di maggiore enfasi che a volte, come nel delicatissimo finale, diventano dolci parentesi di empatica tenerezza: “Teresa scende silenziosa l’unico gradino che conduce al suo studio e gli depone in braccio quello che stava aspettando. Piccola visitatrice oblunga, imbozzolata, la bambina esibisce il profilo ai lampi di luce colorata che guizzano dal Sony, la minuscola cucitura senza punti di una palpebra chiusa e obliqua, labbra spinte in fuori sotto un naso arricciato come in segno di soave sdegno, sa di essere bella. Lo senti dalla curva del cranio che è femmina, si vede già dal primo giorno. Durante tutto questo tempo c’era lei che spingeva per arrivare qui, in braccio a lui, fra le sue mani, una presenza reale quasi senza peso ma viva. Ostaggio della sorte, desiderio del cuore, una nipote. Sua. Un altro chiodo nella sua bara. Sua.”

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