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L'insostenibile leggerezza dell'essere
 
L'insostenibile leggerezza dell'essere 2018-06-01 09:57:57 kafka62
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    01 Giugno, 2018
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UN INTRIGANTE ROMANZO POLIFONICO

“L’insostenibile leggerezza dell’essere”, uno dei maggiori casi letterari degli anni ottanta del secolo scorso, si propone come un ambizioso tentativo di superamento del cosiddetto romanzo psicologico. Fin dalle prime pagine, lo scrittore boemo non nasconde che i suoi personaggi “non nascono da un corpo materno, bensì da una situazione, da una frase, da una metafora contenente come in un guscio una possibilità umana fondamentale”, ed in questa considerazione, in apparenza secondaria, sono contenuti secondo me i principi fondamentali dell’arte kunderiana. La rivendicazione della natura fittizia dei personaggi significa soprattutto questo: che a Kundera non interessa scandagliare la loro vita interiore (in più di un’occasione, egli mostra addirittura di non essere a parte di tutti i meccanismi psicologici che li muovono), bensì servirsi di essi per rispondere ad altre domande che non quella classica su cui si impernia tutto il romanzo psicologico del Novecento, “dove comincia e dove finisce l’io?”. Ciò non vuol dire che Kundera intende privare i suoi personaggi di una vita interiore, ma solo che di fronte al problema dell’insondabile infinito dell’anima e a quello dell’incertezza dell’identità dell’io, egli sceglie di privilegiare il secondo. Si legga ad esempio il quarto capitolo, nel corso del quale Tereza si ferma davanti a uno specchio e inizia una lunga serie di riflessioni: se il suo naso le si allungasse di un millimetro al giorno, dopo quanti giorni il suo viso sarebbe diventato diverso? E se le varie parti del suo corpo avessero cominciato a ingrossare e a rimpicciolire in modo da togliere ogni somiglianza con la figura che ora ha di fronte, sarebbe stata ancora lei? E se, nonostante tutto, la sua anima, dentro, sarebbe sempre la stessa, allora che rapporto c’è tra lei e il suo corpo? Il suo corpo ha diritto al nome “Tereza”? E se non ne ha diritto, a che cosa si riferisce quel nome? Solo a qualcosa di incorporeo, di intangibile? Queste domande esprimono una problematica fondamentale per Tereza, vale a dire il dissidio tra l’anima e il corpo, il cui tema ritorna ossessivamente nelle pagine che la riguardano. Per Tomas, l’altro protagonista, il problema essenziale è invece quello della leggerezza dell’esistenza in un mondo in cui non c’è eterno ritorno. “La vita che scompare una volta per sempre, che non ritorna – afferma Kundera all’inizio del romanzo – è simile a un’ombra, è priva di peso, è morta già in precedenza e, sia stata essa terribile, bella o splendida, quel terrore, quello splendore, quella bellezza non significano nulla… (C’è una) profonda perversione morale… in un mondo fondato essenzialmente sull’inesistenza del ritorno, perché in un mondo simile tutto è già perdonato e quindi tutto è cinicamente permesso”.
Dualità anima – corpo e leggerezza dell’esistenza sono due tra i tanti motivi che percorrono il romanzo e che costituiscono i concetti-chiave mediante i quali i suoi personaggi si relazionano al mondo. Con questo sistema, Kundera si sforza di definire per ogni personaggio il suo codice esistenziale: non attraverso l’esame della sua vita interiore, ma andando in fondo alla sua problematica esistenziale, questo è il modo non-psicologico di Kundera di cogliere l’io. Appare perciò in tutta evidenza la lontananza dell’”Insostenibile leggerezza dell’essere” sia dal romanzo ottocentesco sia da quello del secolo scorso. Le motivazioni psicologiche, l’aspetto fisico ed il passato dei personaggi, cioè gli elementi imprescindibili attorno ai quali ruotavano i romanzi tradizionali, sono qui presi in considerazione solo nei limiti in cui essi costituiscono i temi fondamentali delle loro vite: così, ad esempio, mentre nulla ci viene detto dell’aspetto di Tomas, l’autore si sofferma a descrivere con cura i seni di Tereza, perché la problematica del corpo, come ho fatto notare più sopra, rappresenta uno dei motivi di cui Tereza è formata; per fare un secondo esempio, il passato di Tomas e di Franz rimane oscuro, mentre di quello di Tereza e di Sabina viene detto parecchio, per il motivo che la situazione familiare da cui Tereza proviene è basilare per capire a fondo le sue parole-chiave, come la vertigine o la debolezza (“a volte ho l’impressione che la sua vita non sia stata che un prolungamento della vita della madre, un po’ come la corsa di una palla sul biliardo è il prolungamento del movimento del braccio del giocatore”), allo stesso modo in cui le esperienze giovanili di Sabina a diretto contatto con il brutale e violento conformismo del mondo comunista spiegano la sua originalità ed il suo bisogno disperato di intimità. Gli stessi avvenimenti storici che punteggiano il romanzo (il ’68 cecoslovacco, l’invasione del paese da parte dell’esercito russo, la forzata normalizzazione degli anni seguenti) interessano Kundera solo in quanto sono potenzialmente adatti a creare per i personaggi situazioni esistenziali rivelatrici. In questo senso, la situazione storica non è più uno sfondo sul quale si svolgono le situazioni umane, ma è essa stessa una situazione umana (come quando l’umiliazione di Dubcek che boccheggia e balbetta nel suo discorso alla nazione si trasforma nella debolezza di Tereza nei confronti dei tradimenti di Tomas).
Siamo in grado a questo punto di affrontare un aspetto fondamentale dell’arte kunderiana, la filosofia. A molti lettori Kundera pare eccessivamente didascalico e pedagogico, con quella sua smania di sillogizzare in continuazione su tutto ciò che narra. Anche se non sempre gli riesce di sfuggire ai rischi della pedanteria e della banalità, il Kundera-filosofo non è per nulla inferiore al Kundera-narratore, soprattutto alla luce di una importante considerazione: le riflessioni filosofiche o pseudo-filosofiche del romanzo (come quelle sull’eterno ritorno già citate in precedenza e quelle sul kitsch che costituiscono l’ossatura del bellissimo sesto capitolo) non sono affatto delle colte ma sostanzialmente inutili digressioni con le quali l’autore, interrompendo il naturale flusso della narrazione, si propone narcisisticamente di esibire la propria abilità dialettica, ma sono un’ideale cornice che permette di decifrare meglio il codice esistenziale dei personaggi.
Tanti altri motivi stilistici percorrono “L’insostenibile leggerezza dell’essere”, dall’abbondanza di simbolismi e di riferimenti onirici (che talvolta, come nel sogno dell’esecuzione sulla collina di Petrin, richiamano le pagine di alcuni racconti kafkiani) all’andamento musicale del romanzo (ad esempio, all’atmosfera brutale e concitata del sesto capitolo, contraddistinto da un fortissimo e prestissimo, fa seguito l’atmosfera calma e malinconica del settimo capitolo, caratterizzato da un pianissimo e adagio). La caratteristica che salta in maniera più evidente agli occhi è però la sua polifonia: nel romanzo vi sono quattro personaggi principali e Kundera sceglie di seguirli separatamente, singolarmente, in modo che nel capitolo dedicato a uno di essi si possano conoscere solo i pensieri e le emozioni di questi e non degli altri. Questo modo di procedere, anche se dà un’impressione di apparente frammentarietà, consente in realtà allo scrittore di mantenere un notevole distacco critico e di evidenziare, sfuggendo a qualsiasi rigidità tematica, la profonda diversità dei protagonisti, che neppure il fragile minimo comun denominatore del sesso riesce a superare. Credo anzi che proprio nella reciproca diversità risiede la loro esemplarità, la loro capacità di stagliarsi con straordinaria concretezza e vividezza nella nostra mente. Vediamoli in rapidissima successione. Tomas è un chirurgo famoso e dongiovanni, il quale, continuamente oppresso da un senso di impotente incertezza di fronte alle angosciose alternative della vita, viene spinto ad agire (o a non agire) volta a volta dal fatalismo, dalla compassione e dai rimorsi piuttosto che dalle proprie convinzioni morali; Tereza, la sua compagna, è dal canto suo una ragazza che, fuggita dallo squallido e volgare mondo della sua infanzia, mobilita tutte le proprie forze per fare del suo amore per Tomas un qualcosa di sublime, in grado di smentire la degradante dualità di corpo e anima; Sabina è invece un personaggio originale e anticonformista il quale, dopo aver tradito la famiglia e il comunismo, non è più capace di fermarsi sull’inebriante ma infelice strada dei tradimenti; Franz, infine, è una figura di intellettuale nobile e coraggioso, ma ingenuo e idealista, che Kundera vede come il simbolo della beffarda vanità della Grande Marcia verso l’avvenire.
E’ vano tentare di riassumere la trama dei rapporti che legano tra loro i quattro personaggi: una molteplicità di invisibili fili volta a volta li avvicina o li allontana, li fa casualmente incontrare per poi altrettanto accidentalmente separarli. Quello che conta, all’interno di quel complicato quadrilatero di storie individuali in cui tutto incessantemente varia, è scoprire qual è il motivo conduttore, il tema portante. Questo motivo lo troviamo contenuto già nell’enigmatico e bellissimo titolo, che si imprime nella memoria come una frase musicale. Al contrario di Italo Calvino, che nelle sue recenti Lezioni americane propone la leggerezza come un valore da salvaguardare, Kundera sceglie senza mezzi termini la pesantezza: “Ma davvero la pesantezza è terribile e la leggerezza meravigliosa? […] Quanto più il fardello è pesante, tanto più la nostra vita è vicina alla terra, tanto più è reale e autentica. Al contrario, l’assenza assoluta di un fardello fa sì che l’uomo diventi più leggero dell’aria, prenda il volo verso l’alto, si allontani dalla terra, diventi solo a metà reale e i suoi movimenti siano tanto liberi quanto privi di significato”. I personaggi del romanzo non sono però capaci di schierarsi coerentemente a favore di questa opzione e oscillano problematicamente, sia pure con diverse gradazioni, tra la leggerezza e la pesantezza. In realtà, la loro lotta per dare un senso “pesante” alla vita è in ogni istante contrastata da una fascinosa vertigine, da una stordente attrazione verso l’abisso, che è allo stesso tempo inconscio desiderio di autodistruzione (così è per Tomas, il quale, per non ritrattare le idee politiche espresse anni addietro in un articolo giornalistico, è indotto ad abbandonare la professione medica) ed “ebbrezza della debolezza” (così è invece per Tereza, la quale, per punirsi della sua incapacità di conservare la fedeltà di Tomas, umilia il proprio corpo in una avvilente avventura erotica). D’altra parte, vivere nel segno della pesantezza è continuamente minacciato da un subdolo ed insinuante nemico, il kitsch, che, inarrestabile, sta dilagando come un’epidemia nel mondo. Alla base del kitsch sta una fede fondamentale, che Kundera chiama “accordo categorico con l’essere” ma potrebbe essere parimenti definita come una fiducia aprioristica e incondizionata nella vita. Questo ideale, estetico prima ancora che etico, si regge sulla negazione e sulla eliminazione di tutto ciò che nell’esistenza umana è essenzialmente inaccettabile (Kundera prende spunto, guarda caso, da considerazioni provocatoriamente scatologiche, ma non tarda ad estenderle al comunismo, che si fonda su un forzato e imprescindibile accordo collettivo da cui sono obbligatoriamente banditi l’individualismo, il dubbio e l’ironia). Il kitsch rende pateticamente illusori sia l’ideale della Grande Marcia della sinistra europea (“questo inebriante cammino verso la fratellanza, l’uguaglianza, la giustizia, la felicità”) sia quello dell’american way of life inneggiante ai valori tradizionali e alla lotta contro il pericolo rosso.
Credo che Kundera abbia toccato in queste pagine uno dei tasti più dolenti della nostra era: il kitsch, questo ridicolo e ineliminabile retaggio sentimentale che al cinema ci fa commuovere quando assistiamo a scene in cui lui pensa che lei non lo ami più, lei pensa la stessa cosa di lui e alla fine cadono uno tra le braccia dell’altra in un tripudio di lacrime, che nelle patinate immagini degli spot televisivi assume l’immagine di un tranquillo, dolce e armonioso focolare domestico, dove regnano una madre amorevole e un padre saggio, che nei manifesti delle campagne elettorali inneggia alla solidarietà e al progresso civile, il kitsch dicevo, questo cancro incistatosi profondamente nella nostra società, è entrato in noi fino a divenire parte integrante della condizione umana. Esso ci accompagna fino alla morte, nella morte anzi trova la sua più grande consacrazione (“Prima di essere dimenticati, verremo trasformati in kitsch. Il kitsch è la stazione di passaggio tra l’essere e l’oblio”). Nell’”Insostenibile leggerezza dell’essere” c’è un personaggio che rifiuta sdegnosamente il kitsch e si proclama apertamente suo acerrimo nemico: è Sabina. Non è un caso, a mio avviso, che Sabina sia anche il personaggio più doloroso e sofferto di tutto il romanzo. La sua scelta di stare dall’altra parte, di tradire genitori, patria e amante, di non scendere a compromessi con nessuno, di sfuggire insomma al kitsch nel quale la gente vuole trasformare la sua vita, ha fatto intorno a lei il vuoto: la sua vita si è trasformata (anche fisicamente, con i progressivi trasferimenti in Svizzera, in Francia e in America) in una corsa in linea retta, affannosa, verso il vuoto, fino alla decisione finale di farsi cremare, cioè di morire nel segno della leggerezza.
Le conclusioni di Kundera sono agghiaccianti: vivere nella pesantezza significa sottostare all’ambigua e pericolosa seduzione del kitsch (in questo senso devono intendersi il candido e quasi infantile idealismo di Franz e la nostalgia dell’idillio di Tereza), ma opporsi al kitsch porta solamente all’insostenibile leggerezza dell’essere. Sembra non esserci alcuna soluzione a questa insolubile aporia. Il mondo di Kundera è un mondo in cui il disegno della Creazione non è quello di rendere gli uomini felici. Kundera percepisce tutto ciò con straordinaria chiarezza e, con l’arma del sarcasmo e dello sberleffo, stronca la stupida e vanagloriosa convinzione dell’uomo di essere il “signore e padrone della natura”, affermando che i poli dell’esistenza umana si sono avvicinati fin quasi a toccarsi, che non c’è più differenza tra il sublime e l’infimo, che il mondo è diventato infinitamente leggero e a nulla vale gettare sul piatto della bilancia l’irrisorio e futile peso dei propri ideali e dei propri imperativi morali.

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Gran bella recensione , Giulio!
Un libro letto parecchi anni fa. Ricordo la fatica, la noia e l'indifferenza durante la lettura. Ma forse non avevo la maturità per accostarmi a tale testo.
In risposta ad un precedente commento
kafka62
04 Giugno, 2018
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Grazie Emilio, il romanzo di Kundera era stato stranamente molto di moda negli anni '80 (ricordo il tormentone di D'Agostino in una trasmissione di Renzo Arbore o l'omonima canzone di Antonello Venditti) e questo forse ha creato in molti lettori aspettative erronee su quello che, pur non essendo forse un capolavoro, è sicuramente un libro che fotografa bene un particolare momento storico e offre riflessioni filosofiche non banali. Chissà, forse oggi ti piacerebbe.
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