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Gilead
 
Gilead 2018-08-06 11:17:15 kafka62
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    06 Agosto, 2018
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LE VISIONI E LA GRAZIA

“A volte mi sento come un bambino che apra una sola volta gli occhi sul mondo vedendo cose stupefacenti di cui non saprà mai il nome, e poi sia costretto a richiuderli. Lo so, non sono che apparizioni in confronto a quello che ci attende, ma non per questo sono meno incantevoli. Possiedono una bellezza umana. E non riesco a credere che, quando saremo tutti trasformati e avremo abbracciato l’incorruttibilità, dimenticheremo la nostra splendida condizione mortale e transitoria, il grande fulgido sogno di procreare e perire che fu importantissimo per noi. Nell’eternità questo mondo sarà Troia, penso, e tutto quello che è successo qui sarà l’epica dell’universo, la ballata che canteranno per le strade.”

Di lettere di un padre a un figlio si trovano parecchi esempi nella storia della letteratura. Tutti – credo – avranno letto almeno una volta la poesia “Se” di Rudyard Kipling; molti avranno sentito parlare delle lettere di Antonio Gramsci scritte dal carcere o di quelle di John Steinbeck (sull’amore) e di Lord Chesterfield (sui comportamenti appropriati da adottare in società); più recentemente sono apparsi nelle librerie “Il razzismo spiegato a mio figlio” di Tahar Ben Jelloun, “Lettera a mio figlio sulla felicità” di Sergio Bambaren, e altri che al momento mi sfuggono di mente. “Gilead”, opera seconda di Marylinne Robinson, sposta questa tematica dalla sfera autobiografica a quella romanzesca, mettendo al centro della narrazione John Ames, il vecchio reverendo congregazionalista di una minuscola cittadina dell’Iowa (la Gilead del titolo), il quale, ormai prossimo alla morte, decide di lasciare al proprio figlio di sette anni, che non potrà vedere crescere, una lettera-testamento in forma di diario, nella speranza che un giorno questi possa conoscere in forma per così dire autentica, non mediata cioè dai propri ricordi o dalle testimonianze altrui, chi era il suo genitore, quali erano i suoi pensieri e le sue idee, quale la sua filosofia di vita. E’ l’occasione per l’anziano pastore di raccontare le proprie esperienze di vita più toccanti, come l’incontro con la giovane Lila, destinata a farlo diventare a quasi settant’anni, contro ogni speranza, marito e padre, di riesumare le memorie familiari, risalendo per mezzo delle passate generazioni la corrente della storia americana fino ad arrivare alla Guerra di Secessione, e soprattutto di tirare le somme della propria lunga esistenza giunta ormai sulla soglia dell’Eternità. Forte era il rischio di trovarsi di fronte a un lungo pistolotto predicatorio (vista anche la professione del narratore) con insopportabili intenzioni educative (come chi, dall’alto della saggezza concessa dalla veneranda età raggiunta, voglia mettere a disposizione delle giovani generazioni i consigli resi possibili dall’esperienza e da anni di frequentazione delle Sacre Scritture). Per fortuna nulla di tutto questo si respira nell’opera della Robinson. Attraverso lo spezzettato monologo del reverendo, emerge al contrario un appassionato e sconfinato amore per la vita e per tutte le sue espressioni più semplici e naturali (l’acqua, la luce, il viso delle persone), con un atteggiamento di stupefatto incantamento che pertiene più all’infanzia che all’età senile. Riflettendo sulla morte imminente, pur non facendosi mai sopraffare dalla paura dell’ignoto e del mistero divino, il vecchio si lascia cullare dalla nostalgia per le piccole e spesso sottovalutate sensazioni di questo mondo, preziosi spiragli che la vita, pur in mezzo a guerre, povertà, lutti e malattie, riesce sempre a concedere a chi le si abbandona. Di visioni parla spesso il protagonista. Visioni sono quelle sperimentate dai mitici antenati, come l’omonimo nonno, per i quali poteva apparire addirittura normale essere fisicamente toccati da Dio; ma visioni sono anche quei momenti capaci di stagliarsi nella memoria con impressionante vividezza, come quando molti anni prima la chiesa battista era andata a fuoco e la comunità si era radunata per dare una mano: niente di apparentemente indimenticabile, eppure la pioggia che scendeva tra i ruderi fumanti, gli uomini che seppellivano le bibbie rovinate ai piedi di un albero, le donne con i capelli sciolti che aiutavano muovendosi con estrema delicatezza e cantavano inni religiosi e il padre che aveva porto al piccolo protagonista una focaccia macchiata di fuliggine, come un’ostia durante l’Eucarestia, è rimasta impressa nella mente del vecchio pastore passando indenne attraverso decenni di esistenza. “Ci sono migliaia e migliaia di ragioni per vivere questa vita, e sono tutte sufficienti, dalla prima all’ultima”, scrive al figlio, aggiungendo altresì “quanto mi mancherà questo mondo!”. La grazia di cui il reverendo ha parlato spesso nelle sue omelie altro non è in fondo che la capacità di accogliere con gratitudine i piccoli doni misconosciuti della quotidianità.
Non c’è però solo pace e dolcezza nell’animo del protagonista. La parola “rabbia” ricorre infatti spesso in “Gilead”, e questo può sembrare paradossale in un romanzo delicato come una ragnatela. Il fatto è che sotto la superficie apparentemente imperturbabile del memoriale si celano inquietudini e turbamenti, sensi di colpa repressi e tensioni sociali e razziali. John Ames è l’ultimo di una famiglia di predicatori, ma nonostante in casa si sia per così dire sempre respirata l’aria della Bibbia egli rammenta l’aspra conflittualità esistente tra il nonno vetero-testamentario, che si presentava in chiesa con la pistola sotto la cintura ed incitava i parrocchiani ad arruolarsi, e il padre pacifista, e lo stesso suo mite genitore anni dopo era entrato in forte disaccordo con la sua scelta di rimanere fedele a quello sperduto paese del Midwest anziché viaggiare e allargare i suoi provincialissimi orizzonti. Nella seconda parte, poi, il ritorno a Gilead di Jack, suo figlioccio nonché figlio del vecchio amico Boughton, scuote fortemente la tranquillità del narratore. Immaginando ambigue e pericolose intenzioni in questo “figliol prodigo”, geloso per quelle che egli interpreta come subdole manovre per prendere il suo posto in seno alla famiglia non appena sarà morto, John Ames diventa preda di angosciosi dubbi e tormenti. Non saranno i sermoni da lui scritti nella sua lunga carriera di oratore e scrupolosamente conservati in soffitta, non sarà cioè la fredda teologia in cui la sua mente, quasi per riflesso condizionato, continua ad arrovellarsi (al punto che non è infrequente imbattersi nel libro in riflessioni sulla predestinazione, sulla remissione dei peccati o sul posto da assegnare al quinto comandamento all’interno del Decalogo), non sarà tutto ciò a restituirgli la serenità, bensì l’umanissima capacità di mettersi nei panni del proprio prossimo e condividere con lui la vergogna e la sofferenza, scoprendo quanto c’è di nobile e bello anche in anime apparentemente scellerate. Quelle della benedizione concessa a Jack prima della sua partenza da Gilead sono tra le pagine più belle del libro, e lo riscattano dalla fatica che la sua struttura frammentaria e divagante impone spesso al lettore.
Attraverso il monologo del protagonista non si delinea solo la storia della sua vita ma, indirettamente, anche di un’intera comunità, quella di Gilead, un paese sperduto e fuori dal mondo che Edward, il fratello, definisce una “palude”, ma che racchiude una umanità appartata e selvatica cui alla lunga non ci si può che affezionare. La figura che si staglia su tutte le altre è sicuramente quella, mitica, del nonno con un occhio solo, personaggio eccentrico, somigliante più a un profeta dell’Antico Testamento che a un predicatore dell’Ottocento, il quale viveva il Vangelo alla lettera donando tutto quello che poteva ai bisognosi, al punto che la figlia, per non vedersi depredare la casa, era costretta a tenere i soldi avvolti in un fazzoletto sotto il vestito e a far girare il nipote con il vestito della domenica per paura che regalasse anche quello. Molti sono gli aneddoti di cui è costellato “Gilead”, alcuni sorprendentemente comici (come il racconto dell’automobile, una delle prime mai apparse in quei paraggi, che il giovane Jack aveva rubato e che, dopo essere stata abbandonata per strada, nei due mesi seguenti praticamente metà della contea si era illegalmente passata di mano in mano, barattandola con fucili da caccia, giovenche o cose simili). Quella della Robinson è una narrazione fuori dal tempo, che non sembra appartenere ad alcuna epoca in particolare: è per questo motivo che quando il reverendo cita Eisenhower e le imminenti elezioni presidenziali, o il figlio disegna gli Spitfire della Seconda Guerra Mondiale, l’effetto è straniante e quasi anacronistico. E’, ancora di più, una scrittura capace di scendere con leggerezza nei recessi profondi dell’animo umano e probabilmente destinata, dopo aver vinto la sfida di una innegabile difficoltà di approccio, a crescere col tempo nel cuore del lettore.

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Da un po’ mi fissa dalla scrivania di cui è in attesa. Che sia giunto il momento di leggerlo? Bravo!
Davvero un ottima recensione! Questo libro l'ho acquistato da un po' ma per qualche motivo non l'ho mai letto. Ora balza in cima alla lista, anche per me!
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kafka62
07 Agosto, 2018
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Grazie Mian. Sarebbe interessante studiare i meccanismi psicologici che inducono un lettore a scegliere un libro tra mille altri! Anche nel mio caso ci sono libri che aspettano in libreria da tanti anni e che mi chiedo se riuscirò mai a leggere. Altri invece si impongono con prepotenza al solo sguardo della copertina. Se sarà anche in minima parte la mia recensione a far pendere per te l'ago della bilancia verso questo romanzo ne sarò davvero lieto (e forse anche un po' preoccupato per la responsabilità...)
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kafka62
07 Agosto, 2018
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Grazie Manuela, valgono anche per te le considerazioni che ho esposto a Mian nella risposta al commento precedente. Buone letture!
Bel commento per un libro che ho trovato meraviglioso.
Bella presentazione, Giulio.
Con questo libro mi sono innamorato della scrittura della Robinson. Ho proseguito nella trilogia ed ho trovato bellissimo "Casa" : di una profondità degna della grandissima letteratura, con un'analisi psicologica-relazionale eccellente.
Con C. Potok, questa scrittrice rappresenta, in assoluto, il meglio della letteratura americana, capace com'è di frantumare tutti gli stereotipi della produzione letteraria USA.
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kafka62
08 Agosto, 2018
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Grazie Emilio, ti confesso che se ho letto "Gilead " è stato proprio grazie alle tue entusiastiche recensioni.
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kafka62
08 Agosto, 2018
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Grazie Laura. Concordo con quanto affermi, anche se io, che sono un po' tirato con i voti, non me la sono sentita, a differenza tua, di dare al romanzo il punteggio massimo.
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