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La confraternita dell'uva
 
La confraternita dell'uva 2019-04-04 13:30:27 Mian88
Voto medio 
 
4.3
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
4.0
Mian88 Opinione inserita da Mian88    04 Aprile, 2019
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Nick Molise & Co.

«L’asma era fatale? Poteva esserlo. E così sia. Dostoevskij era epilettico, io avevo l’asma. Per poter scrivere bene, un uomo deve avere una indisposizione fatale. Era l’unico modo per avere a che fare con la presenza della morte» p. 82

Classe 1977 “La confraternita dell’uva” (in originale “The Brotherhood of the Grape” e in Italia edito da Einaudi come “La confraternita del Chianti”) è un romanzo che si concentra sulla famiglia Molise e più precisamente attorno alla figura del patriarca Nick Molise; “un montanaro venuto dall’Abruzzo, un nasone dalle mani grosse, basso (uno e sessanta), largo come una porta, nato in una parte d’Italia in cui la miseria era spettatore quanto i ghiacciai circostanti e dove qualunque bambino che fosse riuscito a sopravvivere per i primi cinque anni ne avrebbe campati ottantacinque”, pessimo giocatore costantemente “in debito”, muratore con l’aspirazione che i figli seguissero le sue impronte, rude, rozzo, dai mille sogni irrealizzati, con una difficile e ultima comprensione dei propri limiti, dall’indole riottosa, con una moglie che tante ne aveva dovute sopportare (e ne sopportava) e che alla fine era quel che era perché quello gli era stato insegnato.
Voce narrante dell’opera non è altro che il figlio Henry Molise, un cinquantenne sposato e con due ragazzi che, una volta scoperti i libri, è riuscito a fare delle parole scritte il proprio lavoro. Di fatto, Henry non è altro che l’alter ego di John Fante che, tramite la voce di questi eclettici personaggi, non fa altro che tratteggiare le sorti e le vicissitudini, impietose, della sua famiglia.
Ad affiancare e scortare la figura di Nick vi sono i confratelli (Joe Zarlingo, il macchinista delle ferrovie in pensione, Lou Cavallaro, il frenatore a sua volta in pensione, Bosco Antrilli, ex capo dell’ufficio telegrafi), un gruppo di irascibili individui di origine italo-americana che sono soliti ritrovarsi al Caffè Roma e che sono accomunati da un mix di disillusioni, dall’alcol e dal gioco.
Ragguardato dai fratelli di un serio litigio con tanto di minaccia di divorzio da parte della madre tra i genitori, Henry decide di tornare a San Elmo per ritrovarsi invischiato in una spedizione tra le strade del Colorado (trasposizione del Chianti) per costruire quell’affumicatoio sinonimo di sfida ultima agli occhi del capofamiglia.
Ed è questo punto che l’intero romanzo cambia e muta forma. Perché se nella prima parte inquadriamo la famiglia, conosciamo i vari personaggi, assaporiamo delle loro storie di vita e del come e del perché sono arrivati ad essere quel che ad oggi sono, dell’importanza del lavoro e della realizzazione per la propria personale collocazione nel mondo e nella razza umana, nella seconda l’attenzione si focalizza su quell’esperienza all’apparenza fallimentare ma che di fatto si tramuta in una vera e propria interrogazione sulle proprie origini e sulle proprie radici sino all’inevitabile epilogo e ai dubbi che ne conseguono. Perché in quegli ultimi sforzi che conducono ad una sicura morte, perché in quel cambio generazionale certo e inarrestabile si cela l’essenza dei rapporti umani, dell’essere, del nostro vivere. Tuttavia, nonostante questo repentino cambiamento di registro, lui, Nick, è e resta l’artefice, il protagonista, il primo attore che tira le fila, muove le marionette, imbastisce le trame e tiene la scena.

«[…] E anch’io risi, perché ero uno di loro, avevo un lavoro, appartenevo nuovamente alla razza umana» p. 90

Un testo forte, mai banale o stereotipato, caratterizzato da un caleidoscopio di situazioni e di personaggi che tra loro si intervallano, avvalorato da uno stile narrativo semplice ma vivido (e quindi capace di rievocare circostanze che sono tangibili con mano e che per questo invitano alla riflessione e all’auto interrogazione), con un perenne senso di malinconia e disillusione a fronte di quel mondo ingiusto che alcunché riconosce, “La confraternita dell’uva” è un componimento che arriva, lascia il segno, e che anche a distanza di tempo dalla lettura, resta. Un libro con tante sfumature che affronta molteplici tematiche che solletica le corde più intime del lettore.

«Ciò che contava era che avevo visto il bagliore della morte sul viso di un vecchio che si aggrappava strenuamente alla vita. Non c’era da stupirsi che fosse cocciuto, capriccioso, egoista e un po’ tocco. Ed era pur sempre mio padre. Se avessi voltato le spalle al suo ultimo grido d’aiuto, sarebbe potuta essere una morte più rapida, e io non volevo che un’ombra rimanesse sul resto della mia vita. In effetti non mi ero mai rifiutato di andare con lui in montagna. Semplicemente, avevo permesso a lui e a mia madre di farmi cadere nella rete. Mio padre aveva diritto a questo ultimo ridico trionfo, questa piccola casa di pietra sulle Sierras.» p. 108

«Volevo chiedergli se si sentiva bene, se per caso era ancora vivo, ma ero troppo stanco, e troppo impegnato a morire per conto mio, e troppo stanco per mettere insieme delle frasi. La domanda riuscivo a vederla sulla carta, battuta a macchina, con tanto di virgolette; verbalizzarla era troppo pesante. Del resto, che cosa sarebbe cambiato? Tutti, prima o poi, dovevamo morire» p. 156

«Ah! Dostoevskij! Fedor sarebbe potuto uscire dalla nebbia, e avrebbe potuto mettermi una mano sulla spalla, e questo non avrebbe significato nulla. Come poteva un uomo vivere senza suo padre? Come poteva alzarsi la mattina e dire a se stesso: mio padre se né andato per sempre?» p. 177

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