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Pnin
 
Pnin 2020-11-27 11:43:00 kafka62
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    27 Novembre, 2020
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UN ADORABILE PERDENTE

“Perché non lasciare alla gente i suoi dispiaceri personali? Il dolore, mi domando, non è la sola cosa al mondo che la gente possegga davvero?”

Chi è Timofej Pnin, l’eponimo eroe (o forse sarebbe meglio dire antieroe) del romanzo di Vladimir Nabokov? Lo scrittore di San Pietroburgo utilizza nel corso della narrazione, per descrivere il personaggio e le sue azioni, termini come “pniniano” o “pninizzare”, e l’adozione di questi bizzarri neologismi ci fa già comprendere quanto egli sia singolare e originale, unico e imparagonabile. Chi è, dunque, Timofej Pnin? Apparentemente è un ometto buffo, insignificante, impacciato e distratto, sempre in lotta con l’ambiente circostante (“la sua vita era una guerra senza quartiere contro oggetti insensati che cadevano in pezzi o gli si rivoltavano contro o si rifiutavano di funzionare, oppure scomparivano per pura malignità nel momento stesso in cui entravano nella sua sfera di esistenza”), un ambiente in cui cerca in tutti i modi, da immigrato qual è, di adattarsi e di integrarsi, ma che gli rimane sempre un po’ estraneo e ostile (è emblematico il modo in cui, dopo tanti anni di permanenza in America, continua a storpiare la lingua inglese). E’ un uomo che viene spontaneo prendere in giro per la sua goffa solerzia, la sua antiquata seriosità, la sua mancanza di umorismo, e un suo collega si specializza addirittura nel farne la caricatura per divertire gli amici durante le serate mondane. All’inizio del libro Pnin ci viene presentato mentre si reca a una importante conferenza ma prende a sua insaputa un treno sbagliato, e, giunto dopo svariate peripezie a destinazione, si accorge di aver portato con sé non già il manoscritto del suo intervento ma il testo di un diverso simposio; più avanti lo vediamo mentre cade rovinosamente dalle scale o guida con comica imbranataggine l’automobile appena acquistata o distrugge le sue scarpe con la suola di gomma mettendole in lavatrice. Non è un caso che, quando vi furono delle trattative per una riduzione cinematografica del romanzo (poi non concretizzatasi), i nomi degli attori a cui si pensò per impersonare Pnin furono Peter Sellers e Jacques Tati. Sarebbe oltremodo riduttivo però trattare il personaggio di Pnin alla stregua di una macchietta, di un soggetto da barzelletta. Egli è infatti molto più complesso di quello che appare: se per Nabokov gli esseri umani si suddividono in solidi geometrici e numeri irrazionali, Pnin appartiene senza alcun dubbio ai secondi, tanto è difficile inquadrarlo in una categoria predefinita. Pnin è, come abbiamo appena visto, maldestro e impacciato, e oltretutto è un misantropo dai rigidissimi principi, esigente e sospettoso, ma allo stesso tempo è un uomo che possiede una grande e appassionata cultura (sa decifrare senza fatica il complesso andamento cronologico di “Guerra e pace” o trattare tematiche come la similitudine ridondante in Omero e in Gogol), è benevolo, generoso, sensibile e romantico. E’ innamorato dell’arida e opportunista Liza, che lo tradisce ripetutamente e senza scrupoli di sorta, addirittura sfruttando cinicamente la sua buona fede per permettere a lei e al suo nuovo marito di espatriare in America, ma ogni volta è sempre pronto a riprenderla con sé, perdonandole ogni disonestà e addirittura dichiarandosi pronto ad adottare il figlio della donna. C’è in lui una fondamentale bontà d’animo, che non deve essere confusa con la dabbenaggine: Pnin ha infatti una grande dignità, che non lo fa mai scendere a compromessi e lo porta perfino a rifiutare la pietosa proposta dell’amico narratore, che lo salverebbe dal rovinoso licenziamento ma che lui giudica degradante. Pnin è sì un fallito, ma non indulge mai nell’autocommiserazione ed è sempre pronto a ripartire da zero, cade a ripetizione ma sa ogni volta rialzarsi, è un esile giunco che si piega ma non si spezza. Nabokov guarda con grande simpatia e indulgenza a questo personaggio, e nel suo ritratto non si sa se prevalga il gusto divertito di fare una satira sul mondo accademico statunitense e sugli émigrés russi fuggiti dal bolscevismo, oppure un inconscio e non ben dissimulato desiderio di immedesimazione.
Uno dei più considerevoli aspetti della personalità di Pnin è il suo peculiare rapporto con la propria infanzia e con la madrepatria perduta. Il presente di Pnin è infatti permeabile, poroso, e il passato vi penetra come una doppia, fantasmatica realtà. Il protagonista è spesso colto da improvvise, sinestatiche visioni: mentre si sta accingendo a tenere una conferenza, egli scorge tra il pubblico, come se fossero presenti in carne ed ossa, i genitori, una vecchia zia e alcuni ex compagni di scuola, tutti morti ormai da più di trent’anni; e un malore, che lo costringe ad accasciarsi sulla panchina di un giardino pubblico, lo fa ritornare con la mente, in una vera e propria riproposizione del passato che è ben più di un semplice ricordo, a un delirante attacco febbrile subito durante l’infanzia pietroburghese. In questi momenti di vivida e angosciosa illuminazione Pnin sperimenta la “spaventosa sensazione di affondare e fondersi nel proprio ambiente fisico”, fino a riemergere in un altro tempo, in una dimensione parallela, in cui è normale che i genitori siano quietamente assisi a pochi passi da lui mentre leggono una rivista, o un amore giovanile, morto in un campo di sterminio durante la guerra, riemerga dolorosamente dal passato. I defunti, come in romanzo di Rulfo o di Garcia Marquez, rivendicano una loro incontestabile, straziante realtà, e l’ateo Pnin, che non crede in un Dio autocratico, è portato invece a credere, confusamente, in una “democrazia di fantasmi” (“Le anime dei morti, forse, costituivano dei comitati, e questi, in seduta perpetua, presiedevano ai destini dei vivi”). L’intensa nostalgia per il passato russo avvicina curiosamente Pnin al Fyodor de “Il dono”, scritto da Nabokov venti anni prima, alla vigilia del suo trasferimento in America. Entrambi i personaggi non a caso cullano il proposito di scrivere un libro sulla cultura russa (là una biografia di Cernysevskij, qui una “petite histoire” su curiosità, aneddoti, usi e costumi della madrepatria), entrambi frequentano, un po’ controvoglia, il gruppo chiuso dei loro connazionali (gente tragicomica alla ricerca di un’integrazione nel nuovo mondo che sempre sfugge loro di mano, incompresi da una società che è all’oscuro e tutto sommato nemmeno vuole sapere nulla delle vicende della rivoluzione da cui sono fuggiti) ed entrambi, soprattutto, sono preda di fulgide visioni ed epifanie che li estraniano dalla realtà per tuffarli inopinatamente nel lontano passato, un paradiso perduto da sognare ad occhi aperti.
“Pnin” è indubbiamente un’opera minore nella produzione nabokoviana, racchiusa com’è tra lo scandaloso successo planetario di “Lolita” e i fuochi d’artificio linguistici di “Fuoco pallido” e “Ada o ardore”. Lo stile di Nabokov, che oscilla tra un minuzioso realismo (il modo analitico in cui l’autore descrive le varie stanze prese in affitto da Pnin, il ritratto fisiognomicamente preciso dei personaggi), una capacità evocativa quasi proustiana e un virtuosismo da formidabile calembourista, ha qui una levità, una sospensione, una assenza di gravità, assai maggiori di quelle a cui lo scrittore russo-americano ci ha abituati nei suoi capolavori. Questa leggerezza, che Italo Calvino considerava uno dei valori irrinunciabili non solo della letteratura, ma della vita stessa, non è qui un limite, un sinonimo di inconsistenza e di superficialità, ma un incontestabile valore aggiunto. Lo stesso Nabokov, nel suo saggio dedicato a Gogol, aveva del resto argutamente sostenuto che “la differenza fra il lato comico e il lato cosmico delle cose dipende da una sibilante”. Certo, al di là della sua alternanza tra il ridicolo e il sublime, il romanzo soffre un po’ di un andamento spezzettato, aneddotico, non pienamente concluso, ma in esso vi sono passi incredibili, assolutamente inattesi, come quello in cui il narratore si domanda dove può essere finito – perché da qualche parte sicuramente esiste ancora – il granello di polvere che quarant’anni prima era entrato nel suo occhio di bambino. Se “Pnin” è un romanzo leggero, abbiamo però anche visto che esso ha momenti di trasognata tristezza, di incantata malinconia, che lasciano nel lettore un retrogusto un po’ amarognolo. Del resto, Nabokov stesso afferma di odiare il lieto fine: “Il fallimento è la norma. Un destino funesto non dovrebbe incepparsi”. Coerente con questo assunto, l’autore sceglie un finale aperto, sospeso, lasciando Pnin al suo destino, solo e indifeso, alla caparbia e non rassegnata ricerca di un suo posto nell’America egoista e indifferente, loser commovente e coraggioso per cui ogni lettore di buona volontà non può non parteggiare con tutto il cuore.

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"Il dono" di Vladimir Nabokov
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