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Il libro delle sorelle
 
Il libro delle sorelle 2023-07-11 09:45:24 Mian88
Voto medio 
 
4.0
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
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Piacevolezza 
 
4.0
Mian88 Opinione inserita da Mian88    11 Luglio, 2023
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Tristane e Laetitia

«Che significava fare la brava? Voleva dire non emettere nessun suono, non manifestare né desideri né bisogni, non muoversi. Huxley scrive che almeno la metà di ogni morale è negativa. L’etica che corrispondeva al fare la brava era negativa al cento per cento.»

Avvicinarsi ma anche tornare ad Amélie Nothomb è sempre una emozione unica e irripetibile. Dopo aver parlato di “Primo sangue”, al tempo ultima pubblicazione della belga, questa torna in libreria con un altro romanzo forte quanto viscerale ma che è al contempo anche una favola decisamente malinconica e spietata. Forse si potrà dire che si tratta di una Amélie meno spigolosa, meno cinica ma non per questo ella è meno incisiva. Anzi. Esattamente come con “Primo sangue” a tessere le fila della storia è una dimensione famigliare.
Ad apertura del volume conosciamo Nora e Florent, innamoratissimi, folgoranti, preda di un idillio d’amore che non sembra avere mai fine, che non sembra mai cessare. La loro vita sembra incentrata e concentrata in quella che è una perpetua luna di miele dove l’amore non passa mai in secondo piano, esattamente come l’illusione di un rapporto perfetto. Ma attenzione perché, come sempre accade con la Nothomb, nulla accade per caso. È proprio dalla valutazione di questo apparente idillio perfetto che non viene descritto nella sua magnificenza in senso necessariamente positivo che subentra la figura di Tristane, la primogenita nata il 13 novembre 1973. Gli amici, infatti, consigliano ai due innamorati di far confluire questo amore in un figlio. Per Nora la maternità è un supplizio, la bambina inoltre non deve disturbare quello che è il loro idillio al termine delle giornate. Tristane è una bambina prodigio, è dotata di grande intelligenza, impara a scrivere e a leggere prestissimo da sola, impara a socializzare con chiavi di ragionamento che la porterebbero, se volesse, a saltare anni di scuola. Vive e cresce nell’indifferenza di due genitori che non fanno mai cessare quell’idillio. Soltanto la zia Bobette si rende conto del suo essere un prodigio, lei che ha una prole e un’indole così diversa.

«Si sforzarono di dimenticare che la figlia aveva aspettato un loro esplicito invito per rivolgergli la parola. Un eccesso di educazione così assurdo avrebbe dovuto fargli intuire il complesso di cui soffriva la loro primogenita: la paura di disturbare.»

Proprio per questo idillio costante gli amici suggeriscono, straniati e stupiti ma anche indispettiti, al duo di procedere con la realizzazione di una sorella per la piccola Tristane. Sì, realizzazione perché al momento del consenso della bambina vi è anche la promessa che sarà la bambina stessa a prendersi cura della sorella più piccola interrompendo anche la scuola, se necessario, per i sei mesi necessari affinché questa entri al nido – e per evitare una seconda e tediosa maternità a Nora.
Ecco allora che il 9 agosto 1978 nasce Laetitia, bella e bruna come Flaurent, inaspettatamente vivace. Laetitia nasce nella pienezza, nasce nella forza del desiderio, Tristane scopre della pienezza solo all’età di quattro anni e mezzo.

«Tristane ne dedusse che a divertire gli adulti erano le finzioni. Cos’altro poteva fingere di fare per suscitare di nuovo quelle risate che le erano piaciute tanto?
[…]. Il concetto di fiducia in se stessi le era estraneo, ma l’intuito le suggerì che la virtù necessaria per quella impresa si chiamava audacia, e che a lei non mancava.»
«Così Laetitia nacque nella pienezza, mentre Tristane la scoprì solo all’età di quattro anni e mezzo. Laetitia non seppe mai che il cuore può morire di fame, Tristane non poté mai dimenticarlo. Insieme al loro amore apparve quel divario: Laetitia non avrebbe mai patito l’angoscia di non essere amata, Tristane l’avrebbe conservata in eterno.»

Tristane si dedica anima e corpo alla sorella. La osserva, la guarda, dormire, si prende cura di lei. Comprende di non avere il suo sfavillio d’occhi, è frastornata quando la madre la definisce “scialba”, si ingegna per arginare questo dato di fatto, questa consapevolezza sopraggiunta ma inequivocabile, questa condanna senza possibilità d’appello. Come poter arginare il problema, come comportarsi? Come poter vivere della sua intelligenza senza che il suo essere scialba possa gravare? Come arginare quel vuoto nel cuore che non abbandona mai, quella tristezza che le è data dall’assenza di pienezza?

«”Perché sono così triste? Si interrogò. La risposta le zampillò nel cuore. Era sempre stata triste perché i suoi genitori non avevano mai cessato di escluderla. Niente nel loro atteggiamento lasciava pensare che avessero bisogno di lei, che lei fosse una parte importante della loro vita.
Scialba: un aggettivo mediocre, a immagine della sua tragedia. Non che il papà e la mamma non le volessero bene, o fossero cattivi, o la maltrattassero, o che gli fosse indifferente. Era peggio. Che si può fare contro la freddezza? Niente. Non è una cosa che grida vendetta al cielo. È una sofferenza modesta.
[…] Le parole “bambina scialba” la ossessionavano come una sinistra filastrocca. Capì che sarebbe stato il suo punto debole per sempre, anche venti o quarant’anni dopo sarebbero bastate quelle due parole per metterla k.o. “Ogni anima ha una ferita: questa è la mia” sentenziò. È raro a otto anni dar prova di una simile saggezza.»

Passano gli anni, i legami mutano, cambiano. Le bambine crescono, la fame e il cibo iniziano ad avere un ruolo sempre più pregnante in queste pagine. L’anoressia, si palesa con il suo nome, si dimostra per quel che è. La vita porta le due sorelle a percorrere percorsi diversi, percorsi fatti d’amore, progetti, desiderio di realizzazione. Ed emerge anche l’asprezza e la meschinità della madre e la cecità del padre. Il risvolto dell’opera non è meno acre delle aspettative. Questo vale anche per le relazioni amorose, per la perfezione apparente, per il silenzio e il non voler né sentire, né vedere.
Ma cos’è “Il libro delle sorelle” se non un gran romanzo d’amore? Tristane è il personaggio chiave, il personaggio centrale che determina e rappresenta gli ingranaggi dell’intero scritto. La sua solitudine, il suo silenzio ci accompagnano. Il suo camminare e muoversi in punta di piedi per non disturbare i genitori, ci fanno riflettere sul suo – ma anche nostro – approccio con il mondo. Il suo stesso assetto cambia al momento del sopraggiungere di Laetitia e cos’è l’amore se non anche un insieme di rinunce e non detti? Di sofferenze e punti fermi che vengono ricercati? Ne emerge, al momento dell’unione delle due sorelle, la descrizione di un amore assoluto, universale, omnicomprensivo, tenace.
Una storia intensa, apparentemente lieve, profonda di gravità in realtà.

«Non c’è niente che ci allieti più del sonno di una creatura amata. Se poi chi dorme è un neonato, la felicità si ammanta di mistero: che cosa sogna una bambina di tre mesi?»
«Le due sorelle alla fine si addormentavano insieme. Niente si addice all’amore quanto un sonno condiviso. Nella camera dei genitori avveniva un miracolo simile: Florent abbracciava Nora a cucchiaio per dare inizio al loro riposo coniugale.»

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