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LA PICCOLA CHIMICA
Miriam Di Miceli
13:18 (13 minuti fa)
a me
“Il mio anno di riposo e oblio” è un libro che ho trovato a-ritmico. Sembrava prendere la direzione dell’ironia, ma non si è rilevato tale nel profondo. Sembrava seguire la strada della totale disperazione, ma non è stato del tutto vero fino in fondo. La trama è tutta piazzata nel titolo: una giovane ragazza molto carina, appartenente all’alta borghesia, divenuta orfana di entrambi i genitori, riceve un cospicuo lascito familiare, si trasferisce a Manhattan per conseguire una laurea in storia dell’arte e comincia quasi subito a lavorare come assistente presso una famosa galleria, che si avvale di giovanissimi pittori/artisti, scritturati per creare un’arte ipocrita, che vuole a tutti i costi sembrare eversiva e alternativa, quando nella realtà dei fatti si dimostra come un’insulsa e banderuola “avanguardia” che gira dove il vento del mercato e dell’industria artistica soffia più forte. La protagonista sente di non appartenere a un mondo fatto di sola apparenza, senza alcuna ideologia di fondo ma, contemporaneamente, lei stessa non ha una grande conoscenza della sua personalità, così il suo carattere si riduce a un invertebrato senso di disgusto polemico. Riconoscendosi, dunque, sempre più lontana da un mondo lussureggiante e fatto di artefatta apparenza, decide di consegnarsi nelle mani di una stramba psichiatra, mentendo sulle proprie condizioni psicho-fisiche, per farsi prescrivere flaconi e flaconi di psicofarmaci molto potenti, al fine di dormire quanto più possibile e trascorrere il suo “anno di riposo e oblio”, con un obiettivo specifico, che non si basa solo sulla pulizia e sulla rigenerazione del sè, ma sulla vera e propria possibilità di rinascere una seconda volta. Il “problema” di questo romanzo, dal mio debole e singolare punto di vista, è che la protagonista, voce narrante in prima persona, passa più tempo a diagnosticare con precisione chimica l’esatta proporzione di psicofarmaci da assumere per avere quell’ “equilibrato” black-out mentale, che la conduca all’assenza di sè, ma non alla morte, che a ispezionare quale sia l’eziologia scatenante di questa sua necessaria autodistruzione. Ovviamente, in questo modo, non voglio dire che tutte le trame debbano sempre scendere nella “psicologia del profondo” o riesumare “il romanzo familiare del nevrotico”, ma le descrizioni del passato, molto dolorose, sono elaborate in un tono così esclusivamente narrativo che, leggendo, sembra quasi inesistente un’implosione invasiva così forte da scatenare nella protagonista una totale rottura con la vita reale. Arrivata ad un certo punto della lettura, mi sono interrogata sui significati che il libro stava attribuendo ai tre tempi fondamentali dell’umano: passato, presente e futuro. Il passato mi è sembrato solo un’inevitabile descrizione poco approfondita per poter costruire delle basi (poco solide) su un libro che vuole basarsi esclusivamente su un presente rallentato e catatonico, per raggiungere una resurrezione in un ipotetico futuro neanche idealizzato o davvero desiderato. Ma passato e futuro sono troppo poco elaborati per avere la pretesa di voler assumere vere e proprie caratteristiche di un programma studiato per una non-vita nel presente. Dopo di ciò mi sono chiesta: ma non è possibile che questa generalizzazione dei fatti, raccontati in maniera così distaccata, rappresenti l’epicentro stesso dell’indole caratteriale della protagonista? E’ possibile che questa poca immersione in qualsiasi cosa sia forse la componente stilistica fondante del linguaggio e del pensiero del personaggio? Se questo era l’obiettivo della scrittrice, a me personalmente, e mi duole dirlo perchè alcuni spunti sono davvero interessanti, non è arrivata affatto. Perdonami Ottona.





























