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Autunno tedesco

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Nel 1946 furono molti i cronisti che accorsero in Germania per raccontare quel che restava del Reich finalmente sconfitto, ma dal coro di voci si distinse quella di uno scrittore svedese di ventitré anni, intellettuale anarchico e narratore dotato di una sensibilità fuori dal comune, inviato dall’Expressen per realizzare una serie di reportage poi raccolti in un libro che è considerato ancora oggi una lezione di giornalismo letterario. Mentre le testate di tutto il mondo offrono il ritratto preconfezionato di un Paese distrutto, che paga a caro prezzo gli orrori che ha seminato e dal quale si esige un’abiura convinta, Dagerman, libero da ogni pregiudizio ideologico e rifiutando ogni generalizzazione o astrazione dai fatti concreti e tangibili, si muove fra le macerie di Amburgo, Berlino, Colonia, su treni stipati di senzatetto e in cantine allagate dove ora vivono masse di affamati e disperati, cercando di capire nel profondo la sofferenza dei vinti. Ne emerge un quadro molto più complesso di quello che è comodo figurarsi. Mentre ci si accanisce a cercare nostalgici nazisti, Dagerman si chiede come può un padre che vede morire il figlio di stenti dichiarare che ora sta meglio di prima; mentre le potenze occupanti pensano a punire e ad allestire processi, Dagerman descrive la «messinscena» di una denazificazione di facciata e la morte spirituale di un Paese che è troppo impegnato a lottare ogni giorno con la morte per riflettere sui propri errori, perché «la fame è una pessima maestra» per educare i colpevoli.



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Autunno tedesco 2020-06-12 07:29:00 archeomari
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archeomari Opinione inserita da archeomari    12 Giugno, 2020
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Una lucida e disincantata testimonianza

Lo svedese Stig Dagerman fa parte di quella ristretta schiera di autori che hanno saputo ritrarre con lucidità e senza pregiudizi la realtà della Germania postbellica.
Aveva solo ventitré anni, quando venne inviato dal giornale Expressen nel 1946 a realizzare un dossier-testimonianza della situazione del Reich dopo la sconfitta. Quelle pagine vennero raccolte in un volume, “Autunno tedesco” che, per la qualità della scrittura, l’acutezza e la lucidità delle analisi e delle riflessioni , venne subito considerato uno dei più importanti lavori di giornalismo letterario svedese, e non solo.
La letteratura tedesca, appesantita e zittita dal forte senso di colpa per il suo passato nazista, non è stata capace di narrarare l’orrore, la povertà, le condizioni di vita“indescrivibili” di intere famiglie con bambini nelle cantine, nei bunker e nei vecchi edifici allagati, umidi e malsani. Non ha saputo parlare dei treni merci carichi di disperati, di abbandonati sui binari morti che non avevano neppure la speranza di approfittare di sistemarsi in qualche maceria, non ha parlato del degrado, del furto e del mercato nero diventati la vera “scuola”dei bambini tedeschi dopo la guerra.
Perché non c’è limite alla disperazione quando ci si porta sulle spalle il peso dell’infamia nazista, perché i tedeschi hanno imparato presto “l’arte di cadere in basso”.
Lo sguardo di Dagerman così lucido, privo di pregiudizi arricchito da uno stile che sa rendere con poche parole essenziali potenti immagini di miseria e sofferenza, è sostenuto dalle sue profonde idee anarchiche che lo hanno nutrito dall’infanzia. Non incolpa nessuno, non può. Perciò, anziché leggere giornali tedeschi e abbracciare idee più comode, questo giovane scrittore va a “guardare le abitazioni e ad annusare le pentole”, va tra la gente, tra i reietti e scopre “l’indescrivibile”, reso però senza indugiare e compiacersi in morbose immagini di miseria. È necessario fornire “un quadro sufficientemente incisivo dell’ambiente” per poter analizzare le posizioni ideologiche del popolo tedesco.
Ma quali posizioni ideologiche può avere un popolo annientato, che muore di fame? La fame impedisce qualsiasi forma di ideologia e di idealismo.

“La fame è una forma di deficienza, una condizione fisica, ma anche psichica che non lascia molto spazio a lunghe riflessioni”. Il vero giornalista deve “essere più umile di fronte al dolore, per quanto meritato esso fosse, poiché la sofferenza meritata non è meno difficile da sopportare di quella immeritata, la si sente ugualmente nello stomaco, nel petto e nei piedi (...)”.

Indimenticabili, per forza poetica e lucida analisi, le pagine del capitoletto “Rovine”, in cui Dagerman descrive in poche righe le città fantasma di Berlino, Hannover, Colonia, Amburgo, dove è “perfettamente inutile cercare perfino ricordi di vita umana” e i resti dei più importanti e gloriosi monumenti si stagliano nostalgicamente contro un cielo piovoso e grigio che rimane indifferente come tutto il mondo, straziato dalla ferocia e dalla disumanità della guerra.

Mi ha colpito anche il capitoletto intitolato “Letteratura e sofferenza”, un vero manifesto di lavoro e di poetica, che evidenzia un’acutezza di visione del mondo e della sofferenza, impressionanti per uno scrittore così giovane.
Consigliato vivamente.

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