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Spiegelgrund non esiste più. Le mura che circondavano l’ospedale viennese sono state abbattute e tutto quello che il personale aveva giurato di non rivelare mai a nessuno non è più un segreto. Tra il 1940 e il 1945, in quel diabolico istituto il cui obiettivo ufficiale era di raddrizzare i bambini più ribelli e di assistere quelli affetti da malattie psichiche, la realtà era tragicamente diversa. Adrian Ziegler vi arriva nel gennaio del 1941, in una fredda e limpida mattina d’inverno scintillante di brina. Quegli edifici pallidi all’ombra della collina, con le facciate di mattoni scrostate e le inferriate alle finestre, diventeranno la sua casa negli anni a venire. La sua, come quella degli altri bambini rinchiusi a Spiegelgrund – orfani, ritardati, disabili, piccoli delinquenti, «degenerati razziali» –, è una vita indegna di essere vissuta. Non ci sono cure ad attenderli, solo medici pronti ad attuare il programma nazista di eutanasia infantile voluto da Berlino. Persone convinte che contrastare la malattia, fisica o morale, sia necessario per rafforzare la razza, o forse, banalmente, solo attirate dall’opportunità di tormentare qualcuno. E ancora, ligi esecutori degli ordini, perché a seguire le leggi in vigore non c’è ragione di sentirsi in colpa. Come l’infermiera Anna Katschenka, che pur amando i bambini ubbidisce per lealtà e senso del dovere e, quasi senza rendersene conto, finisce per scivolare dalla parte dei mostri.



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I prescelti 2018-06-12 09:49:54 Mian88
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    12 Giugno, 2018
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Spielgelgrund

Adrian Dobrosch, di poi all’effettivo matrimonio tra il violento padre e la madre, ZIegler, è alto, all’epoca dei fatti, 135 cm, pesa 34 kg, ha una forma del cranio piatta, un po’ deformata, la tipica “forma zingara”, per intendersi, orecchie piegate alla maniera semitica ma ben formate e aderenti alla testa, capelli scuri e carnagione scura. Cresciuto in condizioni di povertà, avvezzo a vedere il peggio del peggio e a subire vessazioni per la condizione familiare nonché per l’aspetto dello straniero che lo caratterizza, il giovane si ritrova a cavallo del 1941-1942 a Spielgelgrund, una clinica dove tra il 1940 e il 1945 vennero ufficialmente uccisi 789 bambini e adolescenti, fra gli zero e i diciotto anni. La loro colpa? Essere diversi, essere affetti da disturbi psichici, essere geneticamente inferiori. Mettere piede nel nosocomio era condizione di per sé sufficiente per rendersi conto che da quel luogo alcuno avrebbe più fatto ritorno: i medici e le infermiere dell’istituto seguivano, infatti, i precisi ordini e le puntuali direttive del regime nazista tedesco in merito all’attuazione del programma Aktion T4, un programma con cui si mirava a far “pulizia” di tutte quelle vite indegne di essere vissute a favore della purezza della razza ariana.
Molteplici le voci narranti con cui lo scrittore ci rende partecipi di questo durissimo tema. Da un lato abbiamo il piccolo Adrian che ci racconterà lo Spielgelgrund dall’interno, dalla prospettiva dei pazienti, dall’altro abbiamo l’infermiera capo Anna Katschenka, non interessata alla politica ma fortemente dedita e fedele alla terza voce, quella del dottor Erwin Jekelius, responsabile della struttura fino al ’42, ed ancora, si alternano e susseguono i sussurri di altri personaggi, e più precisamente delle vittime e dei carnefici, che hanno indossato i panni di attori e testimoni delle abiette vicende. Anna è in particolare una figura che colpisce per mutevoli aspetti. Prima di tutto perché non è una nazista provenendo da una famiglia socialista viennese di classe operaia e seconda di poi perché i suoi stessi cari sono perseguitati dal regime (suo padre perde il lavoro, il fratello viene mandato al fronte e la madre è discriminata a causa dei suoi disturbi mentali, senza contare che l’infermiera stessa, a causa della situazione, viene colpita negli anni da depressione, patologia che viene curata dal Dottor Jekelius). Eppure, si presta alle direttive impostale. Direttive che esegue con rigore anche se a tratti pare dimostrare barlumi di umanità. Perché? Per il profondo senso di inferiorità che la caratterizza, senso di inferiorità che la fa sentire debole, indifesa e che la rende, dunque, manipolabile. E così si crea una ratio per quello che fa, si autogiustifica e alla fine si sente, come le colleghe che l’hanno affiancata nelle procedure di sterminazione, la vera vittima.
Obiettivo principale dell’autore è quello di riportare alla luce la memoria di questi bambini dimenticati, giovani che quando erano in vita venivano considerati meno che spazzatura, e che nessuno, salvo i sopravvissuti, si è mai preso la briga di ricordare. Sopravvissuti, questi ultimi, che si vergognavano di avercela fatta, che si sono vergognati sino alla fine di esservi stati rinchiusi.
Il romanzo riesce nel suo obiettivo. Pagina dopo pagina stimola la riflessione, si concentra su quella che è la natura umana, cerca di dare una spiegazione al concetto di prigione che non è solo quella fisica ma anche quella psicologica. Perché in questo contesto gli uomini sono in trappola, una trappola che è determinata dalla stessa interpretazione del mondo. Fulcro dell’opera non è solo l’ambientazione storica radicata nel contesto del Secondo conflitto Mondiale bensì la focalizzazione su quelle che sono le reazioni umane. Sandberg si concentra su quello che ha spinto l’essere umano a commettere azioni buone o cattive e questo fa porta il conoscitore ad interrogarsi ulteriormente. Se infatti Adrian è percepito quale vittima ma non produce empatia, più facile è provarla per Anna che non è avvertita come “l’ennesima infermiera nell’ennesimo campo”, quanto, quale una donna con pensieri, paure, colpe, gesti, tentativi di redenzione, nuovi errori (tanto che alla fine viene punita per quel che è stato compiuto) e che per questo è riprova della più complessa e semplice umanità.
Al tutto si somma uno stile narrativo analitico che riporta i fatti: l’impressione è quella di trovarsi non innanzi ad un romanzo quanto ad un report. Ogni paragrafo, ogni sottocapitoletto, ogni sezione concentra l’attenzione su un fatto, una voce, una circostanza e la descrive con minuzia e dovizia rendendo però talvolta a rallentare la lettura e a renderla farraginosa.

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