Narrativa straniera Romanzi storici Il tenente del diavolo
 

Il tenente del diavolo Il tenente del diavolo

Il tenente del diavolo

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Vienna, 1909. Dieci ufficiali dell'esercito austroungarico ricevono un'insolita circolare: la reclame di un ritrovato contro l'impotenza (con annesso campione gratuito). Uno di loro ingerisce il "prodigioso" medicinale e, pochi istanti dopo, colto da orribili sofferenze, muore. L'autopsia dichiara: avvelenamento da cianuro di potassio. Il caso fa scandalo. I vertici dello Stato Maggiore entrano in agitazione. Il capitano Kunze, magistrato militare, viene incaricato di scovare il mittente delle circolari, e nel giro di poche settimane i suoi sospetti si concentrano su Peter Dorfrichter, affascinante e geniale tenente di fanteria. Ma quando la verità dei fatti inizierà a emergere, il capitano Kunze si troverà di fronte un'indagine molto più complessa del previsto, e nel magnetico carisma del giovane tenente scorgerà qualcosa di inconfessabile che lo riguarda in prima persona. Questo lavoro di Maria Fagyas, scrittrice ungherese emigrata in America, "Il tenente del diavolo" è ispirato a un fatto realmente accaduto, noto in quegli anni come "il caso Dreyfus austriaco". Come nel malapartiano "Kaputt", anche qui la verità storica, elettrizzata dall'immaginazione della scrittrice, ci restituisce l'affresco di un'epoca e di una civiltà, entrando nelle stanze dove si decide il destino dell'Europa e svelandoci l'intimità dei potenti.



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Il tenente del diavolo 2018-07-28 16:45:38 Renzo Montagnoli
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    28 Luglio, 2018
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Non solo thriller

Arrivati all’ultima pagina si è portati inevitabilmente a classificare Il tenente del diavolo come un thriller di ambiente militare, un thriller psicologico di notevole interesse, anche se non credo che il principale piano di lettura sia rappresentato dai disperati sforzi del capitano Kunze, magistrato militare, per incastrare il tenente Dorfrichter, sospettato di aver avvelenato con il cianuro un collega, il capitano Mader, nonché di aver tentato di porre in atto la stessa fine per altri nove ufficiali dello stato maggiore austriaco. Maria Fagyas, figlia di un tenente ungherese deceduto nel corso della prima guerra mondiale, è molto abile nell’addentrarsi in un ambiente tutto sommato chiuso alle donne e in cui predomina una morale maschilista, congiunta sovente ad aspirazioni bellicose, a conflitti sognati e facilmente vinti (ma solo sulla carta). La vicenda di questo ufficiale non promosso al rango di capitano, ma soprattutto non assurto alla carica di componente dello stato maggiore, nonostante le sue eccelse capacità, è veramente riuscita, con un continuo gioco fra il gatto (Kunze) e il topo (Dorfrichter), ma con un non raro scambio di ruoli, perché il presunto reo è dotato di una forte personalità, di un’intelligenza ragguardevole ed è in grado di tenere testa a chi conduce le indagini, rifiutandosi inizialmente di confessare, il che lo porterebbe direttamente al capestro. Peraltro, pur ammettendo che l’accusato sia in grado di esercitare un certo ascendente con il suo fascino su Kunze, che in gioventù non è stato immune da esperienze omosessuali, resta il fatto che l’azione dell’inquisitore è mossa unicamente dal desiderio di pervenire alla verità, verità che nonostante il dissennato sostegno di casta verrà fuori, portando tuttavia, in una sorta di compromesso, a una condanna pesante, ma senza che sia una sentenza di morte. Il conflitto esistente fra accusato e accusatore va ben oltre lo schema dialettico della tenzone fra imputato e magistrato, ma evidenzia un insanabile contraddizione di base che vede da un lato Dorfrichter convinto assertore della guerra che vorrebbe fosse condotta con metodi moderni e il pacifismo, spinto all’antimilitarismo, di Kunze, non tanto un’eterna lotta fra male e bene, quanto invece un concetto di essere umano radicalmente diverso alla radice. Può forse apparire simpatico il personaggio dell’accusato e in fondo detestabile quello del capitano, ma non si deve dimenticare che il primo è nato per fare la guerra, il secondo per perseguire chi delinque, una bella differenza fra chi giustifica in ogni caso l’omicidio per cause di guerra e chi invece cerca, sempre e solo, di pervenire a comprendere ciò che realmente sia accaduto e chi sia il colpevole.
Il tenente del diavolo scorre liscio, le pagine si leggono velocemente, la tensione non viene mai meno in un’opera che non è solo mero motivo di svago, ma che invita a riflettere sul significato delle parole guerra e pace, su un senso del dovere che nel caso del capitano va oltre ogni lusinga o minaccia dei potenti.
Peraltro la Fagyas è riuscita a descrivere bene l’atmosfera di fine Belle epoque, in un impero asburgico che sta implodendo non solo sotto la spinta dei popoli che chiedono maggiori autonomie, ma anche perché la decadenza si manifesta in tutte le sue caratteristiche, con una società di pubbliche virtù e di vizi privati, in cui puttanieri e puttane trascinano una squallida esistenza fatta di corna assiduamente reiterate.
Questo romanzo, che trae spunto da un fatto accaduto veramente, merita indubbiamente di essere letto.

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