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Buio. Per i bastardi di Pizzofalcone
 
Buio. Per i bastardi di Pizzofalcone 2014-03-28 20:21:40 Bruno Elpis
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    28 Marzo, 2014
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Con l’amaro in bocca

Tornano i “bastardi di Pizzofalcone”. In “Buio” la squadra capitanata dal commissario Palma è questa volta impegnata in un doppio caso: il rapimento del bambino Dodo (“Adesso abbiamo la certezza che si tratta di un rapimento, con ogni probabilità a scopo di estorsione, e dobbiamo aspettarci un’altra chiamata con una richiesta di riscatto”) e uno strano furto nell’appartamento di uno strozzino (“E’ cosa insolita che i ladri non portino via niente se non il contenuto della cassaforte”). A questi misfatti, si aggiunge la personale lotta che il vice Pisanelli ingaggia contro il “killer dei depressi”.

Del doppio caso si occupano i componenti del team coordinato dall’ispettore Lojacono, nella vita privata conteso tra la ristoratrice Letizia e il procuratore Laura Piras in un duello complicato dall’arrivo a Napoli di Marinella, l’adolescente figlia dell’ispettore divorziato.

I “bastardi di Pizzofalcone” sono, come sempre, ben caratterizzati e le loro vite s’intrecciano con le vicende del commissariato. Basta leggere come ciascuno degli agenti reagisce al medesimo particolare: “La faccia di quel bambino, nell’istante in cui si era girato verso la telecamera, le aveva procurato un misto di sensazioni…”
La familiarità con i protagonisti (ciascuno ha un soprannome: così Lojacono è il cinese, Pisanelli il presidente, Romano Hulk e Aragona Serpico…) aumenta in ogni episodio, nel rinnovato “clima che si respirava in commissariato dopo la rifondazione”.

La vicenda è narrata anche dal punto di vista del piccolo rapito: nei suoi sentimenti d’amore verso mamma, papà e nonno (“I soldi ce li hanno sia il padre sia il nonno del bambino”) in perenne e violento dissidio tra di loro, nella paura per il buio (“Non lo sa nessuno della piccola luce, di quelle che si infilano direttamente nella presa di corrente, che lasciano appena un chiarore, che nemmeno si può chiamarla luce”), nel morboso attaccamento ai giocattoli.

La scrittura di Maurizio De Giovanni è sempre avvolgente e affascinante. Eppure questo episodio, quando ho chiuso l’ultima pagina del libro, mi ha lasciato l’amaro in bocca.
Per l’epilogo inaspettato e/o temuto?
Per la figura stereotipata del carceriere basista-straniero dell’est?
Per la riproposizione di situazioni (espediente necessario per creare il tormentone) già lette nella precedente puntata?
Vallo a capire…

Bruno Elpis

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I bastardi di Pizzofalcone
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