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Vendetta per vendetta. Morire a Kowloon
 
Vendetta per vendetta. Morire a Kowloon 2014-06-10 19:00:37 catcarlo
Voto medio 
 
3.5
Stile 
 
3.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
4.0
catcarlo Opinione inserita da catcarlo    10 Giugno, 2014
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Vendetta per vendetta - Morire a Kowloon

Chance Renard è il protagonista di una serie di romanzi tra spionaggio, thriller ed avventura scritti dall’italianissimo Stefano Di Marino che, per entrare nel mercato della letteratura di genere, ha dovuto inventarsi lo pseudonimo anglofono. Il belga Renard, soprannominato il Professionista, è una sorta di freelance della trama spionistica, il che consente al suo autore di spostarlo qui e là per il mondo senza troppi lacciuoli logistici: si tratta di una sorta di James Bond aggiornato che agisce con spietatezza, ma anche senso di giustizia in un mondo di intrighi e barbe finte che ha però accolto anche la lezione di Le Carrè, attribuendo al protagonista e a molti comprimari una ben visibile vena di amarezza e disincanto. Tra capitoli d’azione (con quantità industriale di morti) e qualche scena di sesso (francamente inutile) con la bellona di turno, si sbrogliano i dubbi costruiti per mezzo di una trama multistrato in cui il doppio gioco si spreca, lasciando però sempre uno spiraglio aperto su cui costruire la successiva avventura.
Vendetta per vendetta.
Questo breve romanzo, datato 2013, è in realtà costituto da due racconti. Il primo, che occupa circa un quarto delle circa centoventi pagine, vede il Professionista impegnato nel recupero di alcune testate nucleari trafugate da una base nelle Filippine: lo svolgimento veloce e diretto aggiunto a una soluzione lineare ha come risultato un esercizio di genere non particolarmente coinvolgente tanto da dare l’impressione che il breve svolgimento serva a rimpolpare la seconda storia, in cui Renard ritrova la narrazione di un’avventura capitata al nonno, espatriato italiano per motivi non chiariti che, grazie alle sue capacità, è stato inserito in una squadra all’avanguardia della polizia parigina all’inizio del ventesimo secolo. Le Brigate del Tigre sono una sorta di SWAT tecnologicamente avanzata per il proprio momento storico e la rappresentazione della capitale francese alla fine della Belle Epoque è forse un po’ di maniera – però il fatto che si passi da tutta una serie di luoghi comuni farebbe pensare che le citazioni siano volute – ma il racconto è un’abile variazione sul tema Renard (l’avo conquista, come di prammatica, un’affascinante principessa) che appassiona anche se alcune rivelazioni non giungono proprio inattese nei vari colpi di scena che intersecano l’indagine sull’assassinio di un alto diplomatico russo del quale viene all’inizio incolpato proprio il capo delle Brigate suddette. Funziona invece l’idea di imperniare la trama su di un fatto storico realmente accaduto come l’alluvione di Parigi, il che consente pure all’autore di ambientare lo svolgersi dei fatti in una città particolarmente livida e e dalla precipitazione facile che finisce per assomigliare a una via di mezzo tra Londra e Providence.
Morire a Kowloon
Ben più complesso è questo romanzo di ambientazione asiatica che risale al 1997, prendendo spunto dalle ipotizzate conseguenza della non ancora realizzata (all’epoca) cessione di sovranità su Hong Kong dal Regno Unito alla Cina. In quella che è la sua quinta avventura, Renard si trova a collaborare con il servizio segreto britannico nella caccia a un misterioso criminale (ma potrebbe anche trattarsi di un’organizzazione) di nome Shaibat torna all’improvviso dal passato dopo che sembrava essere stato eliminato per mezzo di un’operazione congiunta delle spie di mezzo mondo. Missione che viene raccontata in un lungo flashback che occupa quasi la metà della durata complessiva e serve a definire i rapporti – specie quelli con l’affascinante Moon e l’agente Fang – che giungeranno a uno scioglimento attraverso la conclusione della vicenda. Vicenda che si rivela assai intricata nonché pericolosa: Renard vi si destreggia ricordandosi di non fidarsi mai di nessuno e, eliminato un sospettato dopo l’altro, arriva a dare a Shaibat il volto che il lettore ha già iniziato a sospettare da un po’. L’autore (che si riserva un piccolo cameo hitchcockiano) dimostra sia di saper tener alta la tensione nelle scene d’azione, sia di sviluppare una trama costruita su multipli livelli di intrigo e rivelata attraverso una detection serrata e senza cadute di tono, in cui solo qua e là fa capolino qualche aspetto un po’ troppo fumettistico. In ogni caso, se il lungo episodio retrospettivo ambientato nella giungla birmana deve qualcosa alle atmosfere ‘Apocalypse now’, l’intreccio spionistico multinazionale del resto delle pagine – tra Istanbul, Londra e, appunto, Hong Kong - finisce per mostrare qualche eco de ‘La talpa’ così da dare un maggiore spessore a un romanzo che è sì dichiaratamente di genere, ma a cui va riconosciuto di essere comunque un prodotto di notevole artigianato.

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