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Una ragnatela malefica per Ardelia
Stanno accadendo fatti inquietanti ad Albenga: uno stimato avvocato ha dato di matto e s’è spogliato nudo in piazza; un medico di grande prestigio s’è fatto saltare le cervella in un bosco; un gelataio, proprietario di un avviato esercizio commerciale, è svanito nel nulla. I fatti, di per sé, sembrano disconnessi gli uni dagli altri, ma la cittadina mormora e, forse, dietro a tutto ciò, c’è un regista occulto.
Inoltre c’è la triste storia dell’eccelsa e chiacchierata pianista Norma Picolit. L’artista ha casualmente scoperto che la sua giovane amante Serafina di Benedetti, di cui lei è perdutamente infatuata, non è cieca, come lei le ha sempre fatto credere, ma ci vede benissimo e ha una vita parallela di cui Norma ignora tutto. Per la donna, già fragile psicologicamente, è come se un intero universo fosse andato in pezzi. Cade in una depressione profonda dalla quale non sa come uscire.
È comprensibile, quindi, che — quando viene scoperto, semisommerso nel Centa in piena, proprio il cadavere di Serafina — i sospetti della PM incaricata delle indagini convergano tutti sulla Picolit. Tra l’altro le indagini autoptiche evidenziano come la ragazza, prima di essere gettata nel fiume, sia stata orrendamente torturata per farle provare realmente, e da viva, la condizione su cui lei giocava.
Solo gli amici — Ardelia Spinola, medico legale, e Bartolomeo Rebaudengo, commissario di P.S. in pensione e stimato profiler — rimarranno strenui a difenderla dalle accuse crudeli e omofobe che rischiano di travolgerla nuovamente nell’alterazione mentale da cui era faticosamente riemersa grazie alla musica. Però, anche in loro, il seme del dubbio rischia di germogliare.
Quindicesimo romanzo della fortunata serie poliziesca che vede come protagonisti il simpatico duo di investigatori sui generis formato dal genovesissimo, tormentato e tempestoso medico legale Ardelia e dal pacato e riflessivo (ora ex) poliziotto sabaudo, Bartolomeo, ritornati ad essere pure una coppia dal punto di vista sentimentale.
Come d’abitudine la Rava ci offre un romanzo ben costruito e piacevole con un discreto susseguirsi di avvenimenti che lo rendono avvincente e senza mai un momento di stanchezza.
Forse, di per sé, la trama non è originalissima, e alcune situazioni e reazioni sono esasperate in modo eccessivo e non totalmente verisimile. Inoltre certi personaggi sembrano riecheggiare caratterizzazioni già utilizzate in passato dalla medesima A.
In particolare è difficile sfuggire alla sensazione che la Dorotea Mortigliengo di questo romanzo (figlia dello stimato clinico suicida) non assomigli sin troppo alla Candida Di Blasi del romanzo d’esordio della serie, sorella di una delle vittime nella prima indagine del commissario Rebaudengo. Percezione che non dev’essere sfuggita all’A. stessa che, alla fine, con un’astuta opera di repêchage emotivo, fa ripercorrere ai personaggi il medesimo cammino (fisico e mentale) lungo il quale tutto era iniziato.
Tuttavia, questa specie di “amarcord” nostalgico della prima storia non indebolisce la narrazione, né la rende scontata o abusata. Anzi è apprezzabile come, a somiglianza dei più stimati giallisti del passato, l’A. ci presenti il colpevole sino dai primi capitoli, ma che la sua identificazione appaia, alla fine, sorprendente e sconvolgente con un colpo di scena degno della migliore Agatha Christie.
Inoltre, va rimarcato che, nei romanzi della Rava, anche la descrizione di un fatto, un accadimento ordinario, comune, di qualcosa che, normalmente, passerebbe sotto la soglia d’attenzione, non viene mai fatta in modo banale e corrivo, ma con stile ed eleganza, rifuggendo da luoghi comuni o frasi fatte. Le ambientazioni o l’esposizione di sentimenti o pensieri, ma anche descrizione di un tramonto, dello scorrere del tempo o di un evento meteorologico qualunque, sono l’occasione per approfondimenti, riflessioni accurate o per donare qualche pennellata di colore, poesia e grazia alla narrazione.
Come al solito, quindi, la lettura risulta appagante e stuzzicante: non una semplice occasione per una fuga di pensieri o un lasciarsi travolgere passivo dalla corrente emotiva dei tragici fatti narrati, ma un modo per godere appieno di situazioni e riflessioni non mediocri.