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Le nostre ore contate
 
Le nostre ore contate 2018-05-19 13:52:07 Anna_Reads
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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    19 Mag, 2018
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"Qui ci siete voi".

"I circoli Arci sono come le vignette di un rebus. Chi ha familiarità con questi passatempi e vi si dedica abitualmente non dirà mai di provare fastidio nel trovarsi di fronte a donne che sfoggiano permanenti anni Cinquanta e costumi da bagno interi, né avrà problemi a riconoscere il lattaio in un uomo in berretto e divisa bianca, anche se nessuno si combina più a quel modo. Perché non si è mai pensato di svecchiare quelle immagini, di renderle attuali."
Ho cominciato ad entrare davvero nella storia qui, circa a pagina trenta.
Ho trovato la similitudine geniale e così sono arrivata anch’io a Badiascarna. Borgo immaginario della Toscana interna, lontano ben più di quanto si possa immaginare dal “la mi porti un bascione a Firenze”, dal Chiantishire, da cartoline e souvenir.
Un paesone tutto raccolto intorno alla “Ditta” che lo ha fatto (ri)nascere, sfruttando il calore del sottosuolo, scaldano gratis le case del borgo e – soprattutto – dando lavoro a tutti quanti. Ma…
Ovviamente c’è sempre un ma. E il “ma” in questa storia si chiama “amianto” o, a causa delle curiosa malattia che affligge chi si improvvisa nomenclatore di cose fallimentari (si veda anche alla voce “Invincibile Armada”, “Inaffondabile” etc), “Eternit”.
L’Eternit è un killer lento, metodico e del tutto privo di fretta, che tesse la sua ragnatela nei polmoni dei lavoratori, ma può mettere anche vent’anni, a farlo. Quando il nostro protagonista, Sauro, ha quattordici anni, il padre, Rino, viene prepensionato perché l’amianto ha cominciato a lavorare su di lui.
Ci metterà più di vent’anni a portare a termine il lavoro – lento e metodico, si diceva – e non lo farà da solo.
Questa la cornice, perché il romanzo, in realtà, è incentrato sulla storia di Sauro, narrata dallo stesso protagonista, adulto, che alterna il racconto dei suoi quattordici anni e dei giorni attuali, quando torna a Badiascarna, dopo essere stato cacciato via dal padre vent’anni prima.
Il paese lo accoglie come la vignetta di un rebus. Immobile. Immutabile. Eterno. Eternit.
E Sauro va indietro. All’adolescenza, all’estate incandescente in cui tutto si fermò, al gruppo di amici, Momo, il Trifo, il Dottore, Bea, e all’idea di formare una band punk. E di coinvolgere anche Luca, lo “strano” del paese, anche se la mamma aveva fatto giurare che mai in nessun caso avrebbero fraternizzato con lui. Questa mamma devota a Raffaella Carrà (come il figlio lo è a David Bowie, con tanto di altarino), che ha cresciuto Sauro e suo fratello “nella convinzione che non esistesse problema o discussione che non si potesse risolvere con una porzione di lasagne o due involtini di carne” e questo fratello che Sauro odia “come si odiano i fratelli, in maniera schietta, violenta, traboccante di sensi di colpa.” E su tutti Rino, che non trova una collocazione dopo la (pre)pensione e comincia a dare i numeri. Ma solo un po’.
Però intanto veglia sul figlio e sugli amici. Tanto che quando il male, un male non meno pervasivo dell’amianto, ma decisamente più rapido nell’agire, si scatena, è proprio Rino a fare “tana per tutti” e salvare la situazione. Ma il salvataggio è solo apparente e, vent’anni dopo, Sauro torna a casa a fare i conti con le vite spezzate da quell’estate, con la sua, non meno abbozzolata su sé stessa.
E con il padre.
Che non è morto, ma semplicemente scomparso.
C’è un po’ di Derry, forse, in Badiascarna e c’è una storia di formazione/distruzione/trasformazione che non sempre è stata nelle mie corde. Non di meno è una storia scritta bene e, come ho detto in qualche altra (rara) occasione, ogni tanto è davvero bello leggere una storia e sapere che la si legge nello stesso modo (e nella stessa lingua) in cui l’autore l’ha pensata. Io la consiglio senza esitazione alcuna.

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