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Il nome della rosa
 
Il nome della rosa 2020-11-14 15:16:26 Bruno Izzo
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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    14 Novembre, 2020
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Scritto a mano

Uno di quei libri, purtroppo rari, che per impulso naturale fa esclamare: tutti in piedi, giù il cappello! e poi a seguire ci si innalza in una unanime e spontanea standing ovation.
Sono trascorsi 40 anni dalla sua prima pubblicazione, ma tuttora ne abbiamo ennesima conferma.
Non è un libro qualsiasi, nemmeno un capolavoro, ma è il Romanzo, è il Libro, è il Capolavoro.
Direi di più: è la Cultura, è l’Istruzione, è un Patrimonio di conoscenze.
In una sola parola, “Il nome della rosa” è la Civiltà Letteraria.
Non è un’ opera solo da commentare, da recensire, da esporne la trama, individuarne la morale.
Questo è un testo che prima di ogni altra cosa si deve leggere, che si deve avere, al limite lo si può condividere, consigliare spassionatamente, discuterne per apprezzarne altri aspetti non ancora avvertiti, e che il confronto a più voci rivela.
Soprattutto, più di ogni cosa, è da leggere, è il romanzo che conferisce un nome, il più appropriato, all’arte di scrivere, accessibile a pochi, e a quello di leggere, accessibile a molti, ma non a tutti.
Non è per tutti, non piacerà a tutti quelli che lo avranno tra le mani, non è un testo per il lettore, per chi sfoglia libri, per chi i libri li deve scorrere, è dato e destinato al Lettore con la maiuscola.
A chi i libri li ama, ci si sprofonda nelle pagine, li possiede in ogni senso, con loro si inebria, si incanta, si estranea, se ne fa dipendente, vive mille vite e mille volte mille leggendo e rileggendo.
Redatto dalla penna di uno dei più grandi intellettuali nostrani, un uomo colto, distinto, uno studioso sapiente, erudito ed eruditosi attraverso l’attenta osservazione dei tempi, degli usi e dei costumi di popoli e linguaggi, un semiotico insigne, un illustre accademico, specialista eccelso dei fenomeni di significazione e di comunicazione.
Più di tutto, un cultore della conoscenza intima dell’animo umano, così come progredita nel corso dei tempi, apprezzando la metamorfosi e l’evoluzione dell’uomo, mai tanto variegata, in verità, così come traspare attraverso le opere della letteratura negli anni.
Pervenendo alla conclusione ineluttabile che l’uomo è uomo, uguale e fedele a sé stesso, costante nei modi e nelle reazioni, quali che siano i tempi in cui vive, con i suoi slanci formidabili di genio e le sue miserie stucchevoli, noiose e moleste, foriere di invidie e litigi.
Unico elemento salvifico, la Cultura, anche questa una costante, lo sola che non porta all’Ideale, che per essere tale deve essere pure imperfetto, ma a questo si avvicina più di tutti, assai più delle religioni e delle filosofie, della morale e dell’etica.
Solo la Cultura conduce al riso, al sorriso, alla lievità dell’esistenza così come dovrebbe essere, perché è con il Sorriso che si ottiene efficacemente e indissolubilmente tutto quanto succedaneo alla Cultura: l’educazione, l’erudizione, il sapere, la formazione intellettuale, le esperienze spirituali e le espressioni artistiche, in una parola la Gioia.
Non c’è chi non intende quanta sia efficace per il docente trasmettere il sapere divertendo i discenti, la gratificazione insigne di vedere chi apprende divenire convinto alla sapienza con riso e gioia.
Il sapere, che comprende la scienza e la morale, portano al bene, alla giustizia, all’onestà, alla rettitudine, e ne discendono da queste tutto quanto di positivo è insito naturalmente nell’animo umano: la gentilezza, l’amabilità, la solidarietà.
Il sapere concilia scienza e religione, fede e logica, credenza e fanatismo, scioglie i nodi, affina la dialettica, amplia e condivide il numero di nomi, vocaboli, fenomeni noti, costruisce il dialogo costruttivo e non l’insulsa logorrea, supera gli ostacoli e le differenze.
Il paradiso in terra.
Poiché però la maggioranza degli uomini anelano al potere per il potere, e intende esercitarlo senza sapienza ma con sordido egoismo, ecco che sorge l’ignoranza, e questa per definizione stessa esprime il bieco possesso a prescindere, il fare senza chiedere conto e permesso, l’agire senza rispetto e con protervia, la prepotenza nell’affermare e la violenza nel fare rispettare le iniquità imposte a forza, ad esso si accompagnano sempre la malvagità, la perfidia, la meschinità, la bassezza.
L’inferno in terra.
C’è dunque anche tra i presunti savi chi ciecamente, e facilmente per millantato credito, giunge al massimo dell’empietà, appunto il diffondere e perpetuare volutamente l’ assenza della Cultura, e da qui fa discendere di proposito e diffusamente l’ignoranza, il nascondimento, il celare, l’inganno, la mistificazione e via via sempre più in basso nella scala degradante verso le tenebre più fitte con cui è più facile tenere soggetti i privi di cultura, arrivando alla messa all’indice dei testi proibiti o alle veline dei ministeri di cultura popolare.
La Storia insegna, è monito di ripetizione, dai tempi dei tempi.
Il potere è bieco, in definitiva, e non ama il riso, il sorriso, la leggerezza: da Aristotele in poi questi caratteri sono sempre stati osteggiati, il potere vuole certezze e dettami rigidi e inscalfibili, vuole obbedienza e non discussioni, sempre, e nel suo nome è lecita ogni aberrazione.
In estrema sintesi, questo è “Il nome della rosa”, di Umberto Eco, un viaggio nel Medioevo, e non solo, un percorso diretto ma con vari rivoli, un fiume che scorre in un alveo potente, e intanto effonde nei canali e irrora le terre fertili.
Un libro che è un inno al novellare, e le buone storie quando sono buone davvero concimano, lo scrittore si fa acqua, ma la sua abilità non è preservata in una cisterna, la cultura come la bellezza e la gioia vanno condivise perché abbiano un senso, la storia è immessa invece nei canali a disposizione dei lettori, perché la usino, la riciclino, la effondano, perché la leggano, la diffondano, la discutano, soprattutto la critichino, per forgiarla, arricchirla, migliorarla.
Come si dovrebbe fare con l’umana esistenza.
“Il nome della rosa” è un romanzo appagante, ottimista, brillante e radioso come il suo titolo, affatto casuale; è infatti una storia serena, molto ben costruita, documentata, placida nel suo scorrere, avvincente e articolata, con molte spine, così che può apparire ardua da apprezzare, ma è invece prediletta dai Lettori, poiché il racconto contempla, si svolge e comprende tutto quanto concerne l’edificazione del maniero favorito dai cultori delle lettere: una biblioteca.
E che biblioteca: un monastero medievale che vede all’opera schiere di copisti e scrivani, monaci incisori e amanuensi, un deposito immenso di un patrimonio librario tra i più importanti, antichi e preziosi del tempo, che contiene migliaia di volumi, quasi tutti quelli conosciuti e che abbraccia l’editoria mondiale allora conosciuta, dalle colonne d’Ercole al finis Africae.
Questo è un romanzo che sembra letteralmente scritto a mano su pergamena, con tanto di piuma d’oca e inchiostro tratto dal carbon fossile, comprende tutto, ed il contrario di tutto, con svariate chiavi di lettura, tutte quelle che si possono richiedere ad un romanzo, giacché giustamente è il Romanzo.
Non la Bibbia, o un qualsiasi testo sacro, è un signor Romanzo, un racconto dove un qualsiasi Lettore ritrova facilmente tutti i generi che predilige, dal romanzo epistolare a quello giallo, dal thriller al racconto di viaggi e peregrinazioni varie, tutti i temi del narrare, misfatti e misteri, pozioni e veleni, cibo e digiuno, ricchezza e miseria.
Rinviene i temi del grand guignol e della lussuria, la violenza e le torture, il sesso e l’astinenza, rievoca i misfatti dell’Inquisizione, vi compare finanche la tecnologia, vale a dire le prime applicazioni pratiche degli studi scientifici, manco a farlo apposta perché parliamo di libri e di chi sui libri gli occhi li consuma, ecco protagonisti un paio di grossolani, stupefacenti occhiali da lettura, manufatto misterioso per l’epoca, se non un sortilegio o un maleficio, poco ci manca.
È un romanzo storico, ambientato in anni bui, tanto bui che furono contraddistinti dalle costruzioni delle grandi cattedrali, dal sorgere delle prime scuole e delle prime grandi università, tanto oscuri come possono essere i tempi illuminati vividamente dalla Cultura, anni contraddistinti dal sorgere di ordini religiosi antichi e modernissimi ancora oggi, i Francescani, per esempio.
O meglio ancora, i Benedettini, che con la loro regola e con la loro operosità, il loro mantra “ora et labora” conducono il mondo intero a lasciarsi alle spalle quanto prima le devastazioni barbariche.
La barbaria, ancora oggi, si supera con la Cultura, con i libri: e da qui, l’opera degli amanuensi non è casuale, salva l’umanità impegnandosi a custodire e trascrivere a mano quanto resta, quanto salvato dell'antichità classica.
È un romanzo sul potere, detenuto più da ecclesiastici, che da Re e regine e Cavalieri, ma il potere corrode anche gli ecclesiastici, di qui l’ insorgere delle eresie, e non solo.
Ma “Il nome della rosa” è anche un romanzo divertente, perché è volutamente fuorviante.
In apparenza ha una patina di antico, come se l’autore fosse un contemporaneo dell’epoca di cui scrive o poco più, come era Manzoni con gli sposi promessi e contrastati, o padre Dante con la sua Commedia.
Invece, Eco è un autore che scrive alla perfezione di millenni prima, ma è moderno e attuale, lo rivela in pieno, con tutta la sua arguzia e la sua facezia, tramite la ricchezza di rimandi intertestuali, il continuo ricorrere a colte citazioni, dai classici latini alla letteratura medievale, dai romanzi ottocenteschi alla cultura dei mass-media, non è un caso che il nome del protagonista principale, il monaco colto, logico, scientifico, credente e però non immune da libertà di pensiero e di giudizio, l’arguto alter ego dello scrittore, è Guglielmo da Baskerville.
Richiama in maniera sfacciata il titolo del noto romanzo di sir Arthur Conan Doyle, “Il mastino dei Baskerville”, una delle più famose indagini di Sherlock Holmes.
E come Holmes, Guglielmo ha una spalla un po' imbranata, che non è il dottor Watson ma il novizio Adzo, non un medico e però Eco lo nobilita innalzandolo a livello di voce narrante.: dopotutto, il giovane sprovveduto è la giusta e necessaria spalla, colui che permette al docente di esporre il metodo deduttivo, che un po' una sapienza omnicomprensiva, che concilia scienza e religione, il visibile con l’imponderabile.
È un romanzo che è un sunto di generi, quindi, e proprio per questo soddisfa tutti, induce emozioni e riflessione in ogni specie di lettore, ha un nome per tutto e a tutto dà un nome, non so cos’altro dovrebbe fare un romanzo per riuscire gradito a chiunque.
Il suo stesso titolo è esemplificativo, esauriente, esaustivo, dichiarativo dell’amore dell’autore per la pagina scritta.
La pagina scritta altro non è che un foglio che riporta concetti, e i concetti si esprimono con nomi.
Alla fine del libro, sta l’origine della specie, una frase darwiniana, oserei dire:
“Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus”
Tradotto: "la rosa primigenia esiste solo come nome, noi possediamo nomi nudi".
Come dire…tutto passa. Alla fine della nostra esistenza, restano solo i nomi.
Serve preservarli, magari precipitandosi a salvare i libri in fiamme in una biblioteca.
A mani nude. Libri scritti a mano, con caratteri belli e brutti: rose con le spine.

Indicazioni utili

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Consigliato a chi ha letto...
Umberto Eco, e a chi è preda della dipendenza di leggere.
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Commenti

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Mi è molto piaciuto. Mi ha però fatto riflettere una breve intervista della Yourcenar con Minoli, che ho visto recentemente anche se ovviamente di parecchio tempo fa. La grande scrittrice 'accusava' questo libro di superficialità.
Effettivamente esso è carente nell'approfondimento psicologico dei personaggi. Ciò che mi ha affascinato è l'ampio quadro culturale, poi c'è un meccanismo narrativo assai ben congegnato, e anche la scrittura è di livello. Ho invece riserve sul taglio troppo 'ideologico' , per cui il personaggio co- protagonista , Guglielmo, risulta parecchio calcato con partigianeria dall'autore.
In risposta ad un precedente commento
Bruno Izzo
15 Novembre, 2020
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Si, ne convengo. In particolare, concordo che protagonista unico, e solo, del romanzo è l'ampio quadro culturale. La Cultura, quella con la maiuscola. Grazie del tuo pensiero, Emilio, ad maiora! Un caro saluto.
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